DIARIO DELLE PRIMARIE / 22 – C’è posta per te!

Elisabetta Grande

Donald Trump si oppone con tutte le forze al voto tramite posta. Lo scorso mercoledì, di fronte all’iniziativa presa dal segretario di Stato del Michigan, Joceley Benson, di inviare -a tutti i residenti che si sono registrati come votanti- i moduli per richiedere di votare da casa alle primarie repubblicane di agosto e alle elezioni generali di novembre, il presidente Trump è andato su tutte le furie, minacciando di bloccare i fondi federali allo Stato.

“Il Michigan invia i moduli per il voto per posta a 7.7 milioni di elettori” ha tweettato il Presidente “si tratta di un’iniziativa illegale e non autorizzata da parte di un segretario di Stato irresponsabile. Chiederò che siano trattenuti i fondi federali al Michigan se vogliono andare avanti per questa strada fraudolenta”.

A seguito della diffusione del coronavirus, il voto per posta è apparso a molti come l’unica via capace di assicurare uno svolgimento ordinato e sicuro, tanto delle primarie, quanto soprattutto delle elezioni di novembre, nell’eventualità che la situazione di emergenza sanitaria perduri o si ripresenti in autunno.

Già nel marzo scorso i senatori democratici Ron Wyden dell’Oregon e Amy Klobuchar del Minnesota avevano presentato un disegno di legge che obbligava tutti gli Stati a consentire a novembre di spedire il voto dal proprio indirizzo, per modo da mettere gli elettori in condizioni di non esporsi ad eventuali rischi il giorno delle elezioni presidenziali. Il disegno di legge prevedeva anche che il governo federale sostenesse finanziariamente gli Stati, affinchè potessero realizzare in tempi brevi un così imponente cambiamento delle modalità di voto.

Fino ad oggi, infatti, solo in cinque Stati – Colorado, Hawaii, Oregon, Utah and Washington – si è di norma votato solamente o principalmente per posta. In tutti gli altri stati le regole su questa possibilità divergono parecchio. Così se in alcuni non è possibile, a meno che non si faccia valere una giustificazione in proposito, in altri il “no excuse abstentee vote”, ossia il voto in assenza privo di motivazione, è consentito con maggior generosità. Inoltre le regole circa le modalità, la tempistica, l’invio e lo spoglio sono spesso assai differenti, così come – quando è necessaria una ragione giustificatrice- le norme relative a chi può richiedere di votare da casa propria sono diverse da Stato a Stato e non dappertutto il timore di contagiarsi è ritenuto valido motivo.

L’urgenza di prevedere e mettere in atto fin da subito le procedure necessarie per consentire a tutti gli americani di votare in sicurezza a novembre è dunque, evidente. Si tratta di stampare almeno altre 70 milioni di schede elettorali da inviare agli elettori, che, debitamente affrancate dallo Stato, dovrebbero essere pronte per lunedì 7 settembre, giorno del Labor Day. Si devono formare scrutatori che sappiano utilizzare le tecnologie di computo dei voti, bisogna acquistare i software necessari a controllare che le firme apposte dagli elettori combacino con quelle depositate ufficialmente e occorre decidere come rimediare all’eventuale discrasia di firme. Si deve assicurare altresì, tramite istruttori appositamente formati, la familiarizzazione degli elettori con la nuova modalità di voto. Permettere a tutti gli americani di votare da casa in autunno è dunque operazione complessa dal costo stimato di circa 2 miliardi di dollari.

Il voto per posta è, però, inviso a Trump e la sua contrarietà ha contribuito ad affossare qualsiasi tentativo di legge federale sul punto e ne ha anche reso economicamente impossibile l’attuazione. Nel terzo e più consistente stimulus bill, che ha elargito ben 2 trilioni di dollari per contrastare gli effetti del coronavirus, il finanziamento federale agli Stati per le elezioni di novembre ammonta, infatti, a soli 400 milioni.

La domanda di fondo resta, tuttavia: cosa spinge Donald Trump a contrastare così energicamente questa ragionevole modalità di voto che Michigan e Nevada stanno cercando di organizzare?

Le spiegazioni che il Presidente fornisce sono di due diversi ordini. Da un lato si tratterebbe di un sistema di voto permeabile alle frodi; dall’altro lato, la maggior affluenza che effettivamente ne deriva, favorirebbe il partito democratico su quello repubblicano. Se tutti gli Stati dell’Unione adottassero solo il voto per posta, ha detto Trump, “nessun repubblicano potrebbe mai più essere eletto in questo paese”.

Nessuna delle due asserzioni, tuttavia, trova alcun riscontro nei fatti.

Il voto postale, laddove praticato, si è sempre dimostrato sicuro. Il codice a barre garantisce la tracciabilità e la verificabilità dell’indirizzo di provenienza e gli Stati che da tempo usano questa modalità di suffragio hanno riscontrato un tasso di frodi irrisorio. In Oregon per esempio, che è il pioniere in questo campo, su più di 100 milioni di schede elettorali spedite dal 2000 a oggi, sono stati documentati soltanto una dozzina di brogli.

Quanto al vantaggio che i democratici otterrebbero, non c’è alcuna prova che, negli Stati ove si utilizza, questa forma abbia avvantaggiato l’uno o l’altro partito. In Colorado e in Utah, nelle elezioni rispettivamente del 2014 e del 2016, non si sono evidenziati vantaggi sostanziali né per l’una né per l’altra parte politica. In California, che da tempo ammette a votare per posta chiunque lo chieda, ad utilizzare il servizio sono principalmente persone più anziane e provenienti dalle zone rurali, tradizionalmente favorevoli al partito repubblicano. I neri e i latini, che costituiscono la base dell’elettorato democratico, votano per posta fino a cinque volte meno dei bianchi e i giovani, anch’essi normalmente più propensi a votare democratico, sono molto mobili, con conseguente alto rischio che l’indirizzo cui inviare la scheda non sia aggiornato.

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Se così è, cosa c’è davvero dietro il tentativo di Trump di impedire che gli Stati Uniti si organizzino in tempo per il voto postale a novembre? Il presidente potrebbe avere interesse al verificarsi a livello nazionale di una situazione simile a quella di un mese fa in Wisconsin, obbligato dalla Corte Suprema federale a mantenere ferma la data delle sue primarie -non avendo avuto il tempo e i soldi per pianificare il voto per posta. Ne sono derivati caos e deprivazione del diritto di voto per un’altissima quantità di elettori. A 9000 persone non sono mai state spedite le schede richieste; ad altre non sono mai pervenute o sono arrivate in ritardo a causa delle disfunzioni di un servizio postale messo sotto stress da chi aveva timore di recarsi alle urne. In tanti hanno rinunciato a votare per paura di contrarre il virus, mentre altri ancora si sono ammalati per aver sfidato il pericolo andando a votare.

Una situazione esplosiva, insomma, che se si riproducesse sul piano nazionale potrebbe certamente essere di enorme aiuto per un Donald Trump, eventualmente sconfitto, che, come Bush nel 2000, volesse adire la Corte Suprema federale (amica) per ottenere una pronuncia sull’ esito elettorale, con conseguenze tutte da esplorare. Il coronavirus come un’opportunità per restare comunque in sella?


(25 maggio 2020)





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