DIARIO DELLE PRIMARIE / 24 – Black Woman Matters: Kamala Harris verso la vicepresidenza?
Elisabetta Grande
Mentre in Kentucky e nello stato di New York ci si prepara per le primarie del 23 di giugno, il dilemma che in questi giorni attanaglia Joe Biden, e il partito democratico tutto, è la scelta relativa alla vicepresidenza.
“La vicepresidente”, perché che si tratterà di una donna è promessa fatta da tempo, “dovrà fin dal primo giorno essere pronta ad assumere l’incarico presidenziale”, ha detto con chiarezza Joe Biden, consapevole che la sua età è avanzata e forse anche che la sua memoria ogni tanto fa cilecca, con quel che ne è spesso conseguito in termini di ridicolizzazione da parte dei suoi detrattori e di preoccupazione dei suoi sostenitori.
Non si tratta però soltanto di trovare una “seconda”, capace di diventare subito “prima”, con gli ovvi risvolti in termini di straordinaria novità del genere femminile in un ruolo presidenziale. Si tratta, altresì, di capire quale vicepresidente possa convogliare più voti sul ticket democratico perché, nonostante i sondaggi diano Joe Biden in netto vantaggio su Trump, la partita è certamente più complicata di quel che appare e la scelta della vicepresidenza può essere cruciale.
Il nodo da sciogliere sembra essere se puntare su una donna nera, anche non particolarmente liberal, come potrebbe essere Kamala Harris, per evitare l’errore in cui era incorsa la Clinton nel 2016 (che – sbagliando – aveva dato per scontato il voto della minoranza afro-americana), oppure se concentrare l’attenzione sulla cattura dei voti di sinistra – intercettando la protesta sociale che agita le piazze – scegliendo una donna liberal anche non nera, come Elizabeth Warren.
Joe Biden, si sa, non sarebbe oggi il candidato democratico alle prossime presidenziali se non fosse per il voto nero. D’altronde è proprio quel voto -soprattutto negli swing States, come Pennsylvania, Wisconsin e Michigan- che con ogni probabilità farà la differenza a novembre. Ciò significa che non solo la vita dei neri conta (black lives matter) -come la gente per le strade urla da settimane- ma anche che il loro voto, corrispondente al 12% dell’elettorato nazionale, conta moltissimo: black votes matter.
E’, dunque, cruciale riportare alle urne quella parte dell’elettorato afro-americano che nel 2016 le aveva disertate, determinando un calo di affluenza rispetto al 2012 di ben 7 punti percentuali. Dal 66.6 del 2012, la percentuale dei votanti neri, infatti, nel 2016 era passata al 59.6: secondo il Pew Research Center il primo declino in 20 anni della partecipazione afro-americana a una elezione presidenziale; e le conseguenze erano state importanti.
Basti pensare che nel 2016 Trump aveva vinto in Wisconsin per 23.000 voti, mentre nella sola Milwaukee 93.000 neri non avevano votato; aveva vinto in Florida per 113.000 voti, ma nella sola Miami 379.000 neri non avevano votato; aveva vinto in Michigan per 11.000 voti, ma nella sola Detroit 277.000 neri non avevano votato; aveva vinto in Pennsylvania per 44.000 voti, ma nella sola Philadelphia 283.000 neri non avevano votato; aveva vinto in North Carolina per 173.000 voti, ma nella sole Charlotte, Raleigh, Greensboro e Durham 233.00 neri non avevano votato; aveva vinto in Georgia per 211.000 voti, ma nella sola Atlanta 530.000 neri non avevano votato.
Se quindi è vero che su dieci elettori neri nove voteranno democratico, la scommessa per Biden è oggi di entusiasmare quanti più afro-americani possibile, tanto fra coloro che non avevano votato nel 2016, ma si erano invece recati alle urne nelle precedenti tornate presidenziali, quanto chi fra di essi non ha mai votato.
Sotto questo profilo la scelta per la vicepresidenza, che cadesse su una donna nera come Kamala Harris, sarebbe probabilmente vincente per stimolare il ritorno alle urne di molti fra gli afro-americani. Contrariamente all’immagine veicolata dalle proteste di queste settimane, il 43% dell’elettorato democratico nero, infatti, si dichiara moderato e un quarto addirittura conservatore: si tratta dei moltissimi membri della comunità nera che la domenica si dà appuntamento in chiesa.
D’altra parte occorre considerare come, dopo la morte di George Floyd, la più forte motivazione a recarsi alle urne gli elettori neri l’abbiano ricevuta proprio dallo stesso Trump, che l’80% di loro considera razzista e la cui sconfitta rappresenta per tutti la lotta per i diritti civili del 2020. Mandare via Trump è dunque una questione personale, il che significa che -indipendentemente dalla scelta di una vicepresidente donna- la partecipazione della minoranza nera al voto di novembre parrebbe assicurata.
Se poi si aggiunge il dato che quest’anno la Florida vedrà con ogni probabilità aumentare di 1.4 milioni i suoi potenziali elettori, di cui la grande maggioranza sono afro-americani, si potrebbe dire che forse questa volta Biden può dare davvero per scontato il voto nero.
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In Florida infatti, a seguito di un referendum, che nel 2018 a larga maggioranza (64%) aveva finalmente restituito il diritto di voto a tutti i condannati che avessero scontato la propria pena detentiva o alternativa alla detenzione (salvo che la condanna riguardasse l’ipotesi di omicidio volontario o di un reato sessuale), una legge di stampo repubblicano di pochi mesi successiva ne aveva ridotto l’applicabilità ai soli casi in cui l’ex detenuto/a avesse anche pagato le sanzioni pecuniarie e i costi della giustizia, che in Florida – così come nel resto degli Stati Uniti- da un po’ di tempo a questa parte colpiscono tutti i condannati con cifre elevatissime. Si tratta dell’altro lato della medaglia del taglio delle tasse, che negli ultimi decenni ha avvantaggiato i più ricchi e che ha finito per mettere sul lastrico l’amministrazione giudiziaria, la quale è così costretta a rifarsi sui condannati, che però di regola sono la parte più povera e spesso nera della popolazione. Proprio per questa ragione la legge, che costringeva gli ex detenuti a saldare i propri debiti economici con la giustizia per poter registrarsi come elettori, è apparsa ai giudici contraria tanto al principio di uguaglianza che al 24mo emendamento (il quale ultimo vieta le poll taxes, retaggio di un passato razzista in cui i neri -in particolare- erano costretti a pagare per votare) e alla fine di maggio è stata dichiarata incostituzionale. Un improbabile diverso parere della corte d’appello federale dell’11mo circuito potrebbe modificare la situazione, che tuttavia resta per ora indubbiamente favorevole a Biden.
Gli converrebbe quindi scegliere Elizabeth Warren per raccogliere i voti di sinistra, persi con ogni probabilità ai democratici a seguito dell’uscita di Sanders dalla partita presidenziale? Potrebbe essere una buona mossa, se non apparisse troppo azzardata. Un ticket con chi è percepito troppo liberal, come è il caso della senatrice del Massachusetts, gli potrebbe alienare infatti i moderati e soprattutto le tante donne dei sobborghi, che nel 2018 hanno tolto il proprio voto ai repubblicani dandolo ai democratici, consentendo loro di riprendersi la camera dei rappresentanti.
Una donna nera alla vicepresidenza e una alla Corte Suprema federale, che Biden ha già promesso di nominare, avrebbero allora l’indubbio vantaggio di vendicare -almeno a livello simbolico- i diritti troppo a lungo negati della minoranza sulla cui oppressione e sul cui sacrificio si è costruita l’America.
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