DIARIO DELLE PRIMARIE / 25 – Per Trump tanto peggio, tanto meglio
Elisabetta Grande
La pandemia in virulento corso negli Stati Uniti ha certamente penalizzato non poco Donald Trump nella sua corsa presidenziale. E ciò non soltanto per via delle accuse di incapacità di gestione dell’epidemia che gli sono state rivolte o per le proteste che ancora oggi scuotono il paese e che Trump non sembra saper governare se non assicurandosi il voto contrario delle minoranze nere. L’esplosione del coronavirus, che in terra nordamericana ha già fatto più di 140.000 morti e ha prodotto una disoccupazione come non si vedeva dai tempi della Great Depression, ha soprattutto fatto crollare l’illusorio sogno americano del successo economico del paese, su cui il presidente in carica poteva contare quasi ad occhi chiusi per la sua rielezione. E’ lì che con ogni probabilità si nasconde la vera ragione della distanza che nei sondaggi consegna oggi a Biden un vantaggio a doppia cifra.
Il covid19, che sta dunque alla base degli odierni grattacapi di Trump, potrebbe però anche trasformarsi in un formidabile strumento capace di garantirgli la permanenza alla Casa Bianca e in questo senso il presidente si sta certamente muovendo.
La strenua opposizione al suffragio per posta, che recentemente lo ha portato fra l’altro allo scontro con il patron di Twitter per le segnalazioni di false news apposte dalla piattaforma ai suoi tweets che definivano quella modalità di voto una fonte di frodi elettorali, è sicuramente parte della strategia di un Trump desideroso di volgere a suo vantaggio la pandemia.
La lotta all’unica procedura, che -ove adeguatamente sovvenzionata- in tempi di covid19 potrebbe assicurare un tranquillo svolgimento delle elezioni a novembre, è in corso fin da quando, a marzo, due senatori democratici hanno presentato un disegno di legge mai accolto dal Congresso, che avrebbe dovuto finanziare gli Stati nella loro organizzazione per un voto per posta universale e scevro da eccessive problematiche. Già allora il Brennan Center stimava che allo scopo sarebbero occorsi almeno 1.4 miliardi di dollari, mentre lo Stimulus Act -com’è noto- ha poi allocato all’uopo solamente 400 milioni. Sulla scorta delle enormi difficoltà incontrate dagli Stati nella gestione del voto alle primarie in piena epidemia, un più recente disegno di legge -approvato dalla camera a maggioranza democratica, ma non dal Senato, a maggioranza repubblicana- ha previsto a quel fine lo stanziamento di addirittura 3.6 miliardi, destinati però a rimanere sulla carta.
A partire dall’esplosione del coronavirus, ovunque lo svolgimento delle primarie ha evidenziato problematiche serissime, certamente idonee a gettare nella confusione di liti giudiziarie destabilizzanti le elezioni presidenziali se, com’è assai probabile, esse si ripresenteranno con la stessa intensità a novembre.
A Washington D.C., come in Pennsylvania, in Georgia, in Wisconsin o a New York, le code causate dal mancato ricevimento a casa del plico per il voto postale, cui si è aggiunta la riduzione dei seggi per carenza di personale a ragione della pandemia, hanno impedito a moltissimi di votare in presenza, nonostante un’attesa alla postazione elettorale durata magari l’intera giornata. In California più di 100 mila voti per posta, inviati per le primarie del 3 marzo, sono stati solo recentemente annullati perché giunti troppo tardi per essere conteggiati oppure perché non firmati o con firma non corrispondente al nome del votante registrato. Nello Stato di New York, dove si è votato il 23 giugno, al 16 luglio non erano ancora erano stati comunicati tutti i risultati definitivi, in parte perché la data di scadenza per l’arrivo delle schede era stata fissata al 30 giugno e in parte a causa dell’enorme numero delle persone che ha utilizzato la modalità di espressione del consenso a distanza, ciò che ha sopraffatto gli addetti allo spoglio, insufficienti nel numero anche per mancanza di adeguati fondi. Dalla sola Manhattan sono, per esempio, pervenuti agli uffici ben 121.248 schede elettorali! Nel frattempo uno stuolo di avvocati si sta preparando a contestare ogni singolo suffragio postale che presenti irregolarità anche minime, come una busta non perfettamente chiusa, e moltissimi candidati (si tratta, infatti, di primarie che coinvolgono anche le elezioni alla camera e al senato) si sono preventivamente costituiti in giudizio per far valere il diritto di confutare il voto avversario.
Si tratta di uno scenario che prelude per le prossime presidenziali a una situazione di confusione estrema, che certamente Donald Trump saprà sfruttare a proprio vantaggio qualora dovesse risultare sconfitto. In questo senso le liti giudiziarie sull’ampliamento del voto per posta in corso in Texas, piuttosto che la drammatica situazione finanziaria dello U.S. Postal Service cui Trump non ha alcuna intenzione di porre rimedio o il fuoco appiccato da alcuni elettori del Michigan alle proprie schede elettorali da rispedire, sono altrettante spie del probabile caos in cui gli Stati Uniti piomberanno il 3 novembre, per l’assenza di regole unitarie sulle modalità di un voto che richiede finanziamenti ad oggi inesistenti.
E se a novembre i risultati definitivi delle presidenziali non saranno certamente disponibili né il giorno dell’elezione, né quelli immediatamente successivi, anche l’eventuale forte disparità fra i voti in persona -immediatamente conoscibili e che potrebbero essere per la maggioranza a favore Trump- e quelli per posta -tardivamente noti e possibilmente favorevoli soprattutto a Biden, a causa della contrapposizione fra una modalità e l’altra di espressione del consenso che il presidente sta alimentando- non potrà che esacerbare gli animi e richiedere ancora una volta il ricorso al giudiziario per dirimere le liti che ne conseguissero.
Che cosa comporterebbe un eventuale annullamento delle elezioni da parte della Corte Suprema è difficile dire. La Costituzione prevede, infatti, che tanto i rappresentanti in Congresso, quanto il Presidente entrino inderogabilmente in carica in gennaio (rispettivamente il 3 e il 20) e qualora per allora non ci fosse un Presidente eletto, toccherebbe alla successiva più alta carica dello Stato prenderne il posto. Ma non si tratterebbe né di Pence, scaduto con Trump, né di Nancy Pelosi, a sua volta non rieletta da votazioni annullate. Anche l’attuale quarta carica dello stato, il più anziano fra i rappresentanti della maggioranza in Senato, Chuck Grassley, non sarebbe più rappresentante del partito di maggioranza, perché a novembre in Senato ci sono in ballo 23 seggi, oggi repubblicani, e 12 attualmente democratici. L’annullamento delle votazioni comporterebbe, quindi, un rivolgimento delle odierne maggioranze in Senato e Presidente diventerebbe, così, il democratico Patrick Leahy. Ciò a meno che una Corte suprema “amica” non immagini soluzioni differenti e più favorevoli a Trump.
Dopo le decisioni in tema di diritti LBGTQ, di aborto e di consegna alla procura delle dichiarazioni fiscali del presidente in carica-e nonostante la recentissima pronuncia a favore dell’esclusione dal voto di novembre dei tanti ex detenuti della Florida, soprattutto neri ed elettori democratici, che non possono pagare i propri debiti con la giustizia- la Corte Suprema appare però oggi assai meno Trumpiana di qualche mese fa.
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Per tale ragione la maniera più sicura per volgere a sua favore la pandemia, che gli sta al momento giocando contro, consisterebbe per Trump nel chiedere ai parlamenti degli Stati a maggioranza repubblicana di far uso del potere, che la Costituzione attribuisce loro, di nominare direttamente i membri del Collegio Elettorale, senza delegare quel compito ai cittadini. Non sarebbe certamente una mossa democratica, ma sarebbe pur tuttavia legale in un sistema in cui il Presidente non è comunque espressione del voto popolare, bensì del Collegio Elettorale, come varie volte -e più recentemente nel 2016- è stato possibile constatare.
La sezione 1 dell’articolo II della Costituzione, stabilisce, infatti, che “ciascuno Stato nominerà, nel modo in cui il parlamento riterrà opportuno, un numero di elettori uguale al numero dei senatori e dei rappresentanti alla Camera a cui ha diritto nel Congresso”. Da tantissimo tempo a questa parte in tutti gli Stati dell’Unione i membri del Collegio Elettorale sono scelti tramite votazioni popolari su base nazionale, ma nulla impedisce che i parlamenti dei singoli Stati decidano diversamente, soprattutto se le ragioni dell’epidemia consigliano di evitare assembramenti e il voto per posta è, come dice Trump, fonte di possibili abusi e frodi elettorali o, come è apparso palese fino ad ora, causa di incertezze e disagi in mancanza dello stanziamento dei fondi necessari.
Se Trump non può cancellare le elezioni, può però chiedere ai parlamenti dei 28 Stati a maggioranza repubblicana di farlo e di indicare direttamente i 294 grandi elettori, cui tutti insieme essi hanno diritto al Congresso, che voteranno per lui. Sotto questo profilo la recentissima pronuncia della Corte Suprema, che ha stabilito all’unanimità l’esistenza di un vincolo di mandato per i grandi elettori -se a ciò obbligati dai rispettivi Stati-, rappresenta per Trump la certezza di vittoria nel caso in cui scegliesse una simile strada, giacché per diventare presidente sono sufficienti 270 voti al Collegio Elettorale.
Scenari fantapolitici? Non con Trump in corsa, che certamente non si rassegnerà ad essere sconfitto dal coronavirus senza combattere con qualunque mezzo.
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