DIARIO DELLE PRIMARIE / 3 – Iowa: i costi della democrazia partecipativa
Elisabetta Grande
Lo scrutinio popolare per la scelta del candidato presidenziale in seno al partito democratico non è che agli esordi e già i tanto attesi caucuses dell’Iowa sono finiti nell’occhio del ciclone per il caos scatenato dall’enorme ritardo con cui sono stati comunicati i risultati.
Alle immediate critiche di incapacità organizzativa rivolte ai suoi avversari da un Donald Trump scontato vincitore dei caucuses repubblicani (che peraltro hanno regole simili alle primarie e risultavano questa volta per di più semplificati da un consenso popolare altissimo a favore dell’incumbent), si sono così aggiunti non solo i dubbi relativi all’opportunità di mantenere l’Iowa quale primo stato in cui svolgere la selezione popolare dei candidati alla gara presidenziale, ma altresì le forti perplessità concernenti la bontà dei caucuses stessi, come modalità di espressione del consenso dei votanti.
I caucuses democratici sono un sistema di voto certamente più complicato rispetto alle classiche primarie e in questo senso sono forieri di maggiori intoppi nei conteggi rispetto a quelle. Si tratta, tuttavia, di una modalità di elezione fortemente partecipativa e relazionale, che permette un aperto scambio di opinioni fra i votanti, i quali si muovono alla ricerca di alleanze e di piattaforme comuni.
A differenza di quel che accade nelle primarie, in cui ciascun elettore vota da solo nel segreto dell’urna, i caucuses democratici si svolgono infatti pubblicamente, nei tanti precincts sparsi per lo Stato: scuole, chiese, palestre, biblioteche e ogni altro luogo pubblico in cui le persone possono incontrarsi. Fra coloro che si riuniscono in uno stesso precinct viene eletto un presidente e un segretario. Un sostenitore per ogni candidato esprime quindi le ragioni della sua scelta, dopodiché gli astanti si riuniscono in tanti capannelli in base alle rispettive preferenze. Solo i candidati che ottengono subito il 15% dei voti dei partecipanti passano il primo turno e i loro sostenitori non possono più cambiare idea. In un secondo momento, nel così detto re-caucusing, i sostenitori dei candidati che al primo turno non avevano raggiunto la soglia di sbarramento hanno tre possibilità: possono cercare di unirsi fra loro dando i voti a un candidato che al primo turno non aveva ottenuto il 15%, oppure far confluire i propri voti su un candidato “forte”, che cioè aveva già superato la soglia di sbarramento del 15%, oppure ancora tornarsene a casa senza dare il voto a nessun candidato. Alla fine delIa procedura a ciascun candidato che abbia ottenuto almeno il 15% dei voti vengono attribuiti -su base proporzionale- i così detti “state delegates equivalents”, i quali si trasformeranno in un numero preciso di veri e propri delegati statali solo in forza di calcoli effettuati a livello centrale, che tengono conto di tutti i voti espressi nei precincts.
Quest’anno la novità è che a un numero più alto di Iowiani è stata data la possibilità di partecipare al voto. Coloro che erano di turno sul posto di lavoro, si trovavano in altri Stati o all’estero, o la cui disabilità impediva loro spostamenti eccessivi hanno comunque potuto riunirsi in caucuses satellite: nelle fabbriche, nelle stazioni dei pompieri o in qualunque altro posto capace di ospitare una comunità di persone.
Se la complessità dell’illustrata procedura rende ragione delle possibili disfunzioni cui i caucuses possono dar luogo, soprattutto se i candidati sono tanti, e quindi spiega almeno in parte i ritardi nella comunicazione dei risultati che si sono avuti nelle recenti votazioni in Iowa, è importante sottolineare come l’aspetto di aperta discussione fra le persone che caratterizza questa modalità di espressione del voto sia un bene prezioso da salvaguardare in un mondo in cui la frammentazione sociale troppo spesso penalizza il “noi”, anche politico. Sarebbe perciò davvero un peccato se le polemiche di questi giorni dovessero convincere il partito democratico ad eliminare i caucuses.
E’ in fondo proprio il grassroots argument, ossia il principio secondo cui è sul coinvolgimento politico della base che occorre puntare, ciò che caratterizza l’attuale campagna democratica e la distingue profondamente da quella repubblicana. Com’è provato dalla scelta non solo di rifiutare il sostegno finanziario delle grandi corporation che versano somme illimitate nei Super Pacs -effettuata da tutti i candidati democratici-, ma anche di farsi sostenere economicamente soprattutto dai ridotti contributi provenienti da moltissimi donatori piuttosto che dai contributi ingenti di pochi (i così detti big donors), che molti di loro, fra cui non solo Bernie Sanders, ma anche Elizabeth Warren e in buona misura Pete Buttigieg, hanno fatto propria.
(5 febbraio 2020)
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