DIARIO DELLE PRIMARIE / 5 – Alla caccia del voto nero: sfida fra danaro e politica

Elisabetta Grande

Le primarie democratiche del New Hampshire si chiudono con una vittoria di stretta misura di Bernie Sanders (26%) su Pete Buttigieg (24%), il moderato trentottenne che rappresenta la vera sorpresa del ciclo di primarie appena iniziato e che resta per ora in testa alla classifica generale. A distanza, con il 20% dei voti si piazza pur bene Amy Klobuchar, senatrice moderata del Minnesota sostenuta dal New York Times, che da questa tornata ricava una forte spinta anche in termini di raccolta fondi: circa 4 milioni in pochissimi giorni a partire dal debate del 7 febbraio in New Hampshire.
La sfida elettorale dello Stato delle cave (il Granite State) lascia anche sul campo varie vittime. Tre candidati si ritirano: Andrew Yang, Michael Bennet e Deval Patrick, avendo il primo ottenuto il 3% dei consensi e il secondo e il terzo lo 0%. I candidati principali, partiti in 12, sono così ridotti 8, giacchè il 1 febbraio anche Cory Booker aveva dato forfait.
Insieme a Elizabeth Warren, senatrice progressista del Massachusset, che arriva quarta con un misero 9 % dei consensi, il vero sconfitto è però Joe Biden, che arriva addirittura quinto, con un mero 8% dei voti e ovviamente nessun delegato.
E’ la storia di una sconfitta annunciata, che lascia l’establishment del partito nella difficoltà di individuare un nuovo concorrente da sostenere contro il socialista Sanders, la cui candidatura è vista come troppo pericolosa per un paese che nel libero mercato si identifica profondamente, ma che sembra essere in grande ascesa. E non soltanto perché il vecchio leone, senatore del Vermont, ha raccolto più voti popolari di tutti.
Anche perché, aiutato dalla forza propulsiva della esplosiva ed emotivamente trascinante giovanissima Alexandria Ocasio-Cortez, Bernie Sanders continua a raccogliere fondi da tanti piccoli donatori, che rappresentano una fonte di sostegno finanziario potenzialmente di lunghissima durata: a fronte di un limite per legge di 2800 dollari a testa, ciascuno di loro ha infatti contribuito con modestissime somme di danaro di poche decine di dollari.
Sanders, poi, pare mietere consenso presso latinos e neri americani, a differenza di Buttigieg e di Amy Klobuchar. La partita delle primarie, che si sta spostando su Stati nei quali il voto delle minoranze diventa cruciale, perché etnicamente assai più diversificati rispetto a Iowa e New Hampshire, sembra così consegnargli un vantaggio rispetto ai candidati moderati. E’ proprio sul voto dei neri che Joe Biden puntava in South Carolina, ma se è vero che la spinta iniziale ha il suo peso, le possibilità di un rivolgimento delle sue sorti appaiono troppo ridotte e l’ascesa di Bernie sembra l’ovvia conseguenza della sua discesa.
E’ per questo, dunque, che l’attenzione di chi all’interno dei democratici cerca un’alternativa a Sanders si rivolge ora verso uno dei due miliardari in lizza. Non si tratta di Tom Steyer, che ha gareggiato in Iowa e New Hampshire con risultati deludenti (0.3 % e 4 % rispettivamente), nonostante una spesa quasi interamente di tasca propria di 154 milioni al dicembre 2019, secondo quanto reso noto dal Federal Election Committee. Si tratta invece dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, che sta preparando il suo esordio in grande stile per il SuperTuesday, quando in un solo giorno verranno eletti un terzo di tutti i delegati in ben 16 Stati.
Bloomberg, la cui ricchezza ammonta a 60 miliardi di dollari, è in un’altra divisione rispetto a chiunque altro, Trump compreso, che al suo cospetto sfigura con un patrimonio stimato di “soli” 3 miliardi di dollari. E’ certamente su tale ricchezza che l’ex sindaco di New York conta per sfondare al SuperTuesday: alla fine del 2019 egli, infatti, ha già speso ben 188 milioni tutti suoi (il triplo di quelli spesi da Trump in tutta la campagna del 2016) per comprare annunci elettorali milionari.
La possibilità che Bloomberg decolli è certamente legata alla sua partecipazione al debate in Nevada del 19 febbraio, l’ultimo prima del SuperTuesday, dal quale il plurimiliardario ricaverebbe grande visibilità. Ora si dà il caso che proprio per consentire a Bloomberg di prendervi parte, il 31 gennaio scorso il comitato nazionale democratico (D.N.C.) ha modificato in corsa i requisiti di qualificazione in vigore, eliminando per il dibattito del 19 febbraio la prescrizione fino ad allora vigente per i candidati di ottenere donazioni individuali da almeno 65.000 donatori con un minimo di 200 persone in 20 stati. La richiesta aveva il senso di dare valore alle candidature che fossero espressione della base elettorale. Essa avrebbe però impedito a Bloomberg di dibattere, giacchè egli si autofinanzia. Ecco perché le nuove regole impongono invece che si sia ottenuto alternativamente almeno un delegato in Iowa o in New Hampshire oppure il 10 per cento in quattro sondaggi nazionali o il 12 per cento in due sondaggi effettuati in Nevada o in South Carolina da società qualificate.
Non è ancora detto che Michael Bloomberg riesca ad ottenere le percentuali nei sondaggi necessarie alla sua partecipazione. Qualche malalingua dice che non avrà difficoltà a comprarsele. Le nuove regole testimoniano tuttavia un cambio di rotta, che da un lato ha il sapore dell’allontanamento dall’attenzione alla base e dall’altro consente di far spazio a un moderato forte dei suoi soldi contro un Sanders forte dei suoi voti.
L’endorsment sperticato di Thomas L. Friedman sul New York Times di martedì scorso a Michael Bloomberg è una chiara indicazione della direzione verso cui l’attenzione dell’establishment sta andando, preoccupato di trovare un’alternativa credibile al socialista e indipendente Sanders.
Saranno, però, sufficienti le scuse che Bloomberg ha da poco rivolto ai neri di New York per averli resi oggetto di attenzioni eccessive da parte della sua polizia quando era sindaco, per ottenere la fiducia di quella cruciale minoranza su cui Biden poteva contare?

(13 febbraio 2020)





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