DIARIO DELLE PRIMARIE / 6 – Democrazia “for sale”. La corruzione di nome plutocrazia
Elisabetta Grande
C’è chi, come Bernie Sanders, fa di quel mezzo ormai indispensabile per far politica che è il danaro uno strumento di sensibilizzazione e di coinvolgimento della base elettorale, alimentando il così detto grassroots movement attraverso una raccolta capillare di fondi da piccoli donatori che sostengono la sua campagna con cifre intorno ai 27 dollari.
Altri, come Pete Buttigieg, fa ricorso in maggior misura ai big donors, milionari e miliardari, che tuttavia hanno un limite di 2800 dollari ciascuno se vogliono contribuire direttamente alla campagna del loro candidato.
C’è poi chi, come Joe Biden, si è finora largamente finanziato non soltanto con l’aiuto dei big donors, ma anche avvantaggiandosi dei fondi del superPAC “Unite the Country”, espressione dell’establishment democratico, che tuttavia -secondo Advertising Analytics- ha smesso di sostenerlo dopo la sua débacle in Iowa e New Hampshire.
I SuperPACs sono il frutto di una sciagurata decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, Citizen United v. Federal Electoral Commission, che nel 2010 ha dichiarato possibile sostenere finanziariamente uno o più candidati -attraverso i media- con somme illimitate, purché le stesse non vengano devolute direttamente ai candidati stessi e ai loro comitati elettorali, ma siano spese in maniera indipendente rispetto ad essi, ossia senza un coordinamento con le loro politiche e strategie. Il caso, che riguardava un attacco via etere da parte di una corporation a Hillary Clinton, ha così giustificato una contaminazione senza precedenti fra politica e danaro sulla base –sorprendentemente- del principio del free speech. Poiché, infatti, le persone giuridiche parlano attraverso i soldi, esse – ha detto la Corte Suprema che interpreta la costituzione federale degli Stati Uniti a livello più alto – hanno il diritto di spenderne quanti ne vogliono in comunicazione per appoggiare il proprio candidato politico.
Fino al 2008, danaro privato e politica erano variabili certamente dipendenti, ma entro limiti contenuti. È con Barack Obama che il loro connubio comincia a diventare inscindibile e fuori controllo. Obama, infatti, pur essendosi dichiarato nel 2007 un sostenitore irriducibile del finanziamento pubblico delle campagne elettorali, rinuncia nel 2008 ai fondi elettorali federali, poiché accettarli avrebbe significato per lui non poter ricevere la gran parte dei finanziamenti privati ed essere obbligato a spendere entro i limiti della sovvenzione pubblica (84 milioni di dollari di allora).
Da quando -ai tempi del Watergate- il sistema dei fondi pubblici a sostegno dei candidati è entrato in vigore, si trattava della prima volta che un candidato alla presidenza della Repubblica li rifiutava per la propria campagna elettorale: lo stesso John McCain, avversario quell’anno di Obama, li aveva accettati. Nel 2008 Obama spende per la sua campagna una cifra mai raggiunta in precedenza (745 milioni di dollari), contribuendo così a decretare la fine del sistema di finanziamento pubblico delle elezioni, cui da allora in poi tutti i candidati – che oggi fanno a gara a chi utilizza più soldi privati-hanno sempre rinunciato.
Mentre Barack Obama apriva un varco notevole nel flusso di danaro che entra oggi come protagonista indiscusso nelle campagne elettorali, la decisione Citizen United, nell’inaugurare l’epoca delle campagne elettorali finanziate da fondi privati illimitati, doveva poi segnare una svolta tombale per qualsiasi separazione fra interessi privati, danaro dei lobbisti e delle multinazionali e politica.
Accanto ai SuperPACs (super political action committees), in cui attori economici forti versano somme illimitate, destinate alla sponsorizzazione pubblicitaria dei candidati che sostengono o alla denigrazione di quelli che osteggiano, Citizen United ha inoltre reso legali gli aiuti finanziari illimitati provenienti dai così detti gruppi esterni (il cui scopo non è unicamente politico), i quali -a differenza dei primi- non devono rivelare i donatori delle somme che impiegano per le pubblicità a vantaggio o a svantaggio di uno o dell’altro fra i candidati.
La decisione del 2010 ha dunque dato la stura a un profluvio di danaro non solo privato, ma altresì segreto (dark money) all’interno delle dinamiche elettorali, con gli ovvi pesanti condizionamenti sulle scelte politiche dei futuri vincitori che questo comporta. A ciò si aggiunga il timore di una possibile pubblicità negativa -da 10 milioni di dollari per esempio- che si può sempre abbattere sul rappresentante del cittadino in parlamento che voglia prendere una posizione opportuna per chi lo ha eletto, ma giudicata sconveniente da un potere forte. Un’autocensura da parte di quel rappresentante, in un sistema in cui la House of Representative si rinnova ogni 2 anni (ciò che significa essere in campagna elettorale permanente), non è certamente il più sorprendente fra i comportamenti che ci si possa attendere. E’ per questo che all’alba della pronuncia del 2010, Jimmy Carter ne aveva parlato come di una sentenza che sostanzialmente legalizzava la corruzione.
La preoccupazione di Carter trova conforto nei numeri che hanno fatto seguito a Citizen United. Dal 2010 ad oggi le spese pubblicitarie nelle campagne elettorali sono cresciute esponenzialmente e se nel 2016 si aggiravano intorno ai 3.3 miliardi di dollari – una cifra già da capogiro rispetto agli anni precedenti- per quest’anno le stime di uscita sono di 9.9 miliardi di dollari.
E’ in questo quadro che va valutata la candidatura di un altro concorrente, non ancora sceso in campo, ma sempre più in vista nei media, non solo statunitensi: il multimiliardario Mike Bloomberg.
A differenza degli altri multimiliardari in corsa nelle primarie statunitensi, Donald Trump e Tom Steyer -il primo nella sua qualità di incumbent repubblicano e il secondo quale candidato alla nomination democratica- Michael Bloomberg non solo ha un capitale che lo proietta in un orizzonte di possibilità di spesa che nulla a che vedere con le capacità di esborso degli altri due ma, da almeno 6 anni a questa parte, egli ha strategicamente messo in piedi una rete di supporto politico attraverso il suo danaro. Secondo una recente indagine del New York Times, dal 2013 ad oggi Bloomberg ha distribuito a candidati democratici (molti dei quali hanno goduto di ricchi finanziamenti da parte sua nella campagna del 2018), fondazioni culturali, musei, centri di studio o di attività sociali e filantropiche, quantità di soldi immense, stimate intorno ai 10 miliardi. Da quando non è più stato sindaco di New York, cioè, egli ha assai generosamente seminato nel tessuto sociale, nelle élites culturali e politiche, con l’aspettativa di un buon raccolto in termini di sostegno elettorale per il 2020.
In un mondo in cui la politica e il danaro rappresentano ormai un connubio indissolubile, il supermiliardario Bloomberg, a differenza di tutti gli altri, può allora rivendicare una libertà tutta speciale dai soldi e dai relativi condizionamenti. Nessuno lo potrebbe comprare, infatti, giacché è lui che compra e può comprare tutti! È questo il paradosso della politica statunitense oggi.
(18 febbraio 2020)
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