DIARIO DELLE PRIMARIE / 7 – Il paradosso dell’eleggibilità: Bernie Sanders, il guanto rivoltato di Donald Trump

Elisabetta Grande

I caucuses del Nevada si sono conclusi con la prima schiacciante vittoria di Bernie Sanders, il senatore indipendente del Vermont, che a distanza di più di 25 punti percentuali dal secondo, Joe Biden, domina ora con decisione la corsa per la nomina del candidato democratico alle presidenziali di novembre. La lista dei candidati che restano in partita è tuttavia straordinariamente alta giacché, ancora una volta da quando questo ciclo di primarie è partito, almeno tre candidati hanno guadagnato, o sono andati vicinissimi a guadagnare, delegati alla convention nazionale*.

Si tratta di una circostanza davvero fuori dal comune. Da quando, infatti, la regola del raggiungimento di una soglia del 15% per ottenere delegati è in vigore nel partito democratico, ossia dal 1992, è sempre stato un evento raro che tre candidati raggiungessero quella soglia nella competizione in uno stato e mai prima di questa tornata era successo che più di tre candidati la toccassero o superassero, com’è accaduto in questo ciclo (si pensi ai caucuses dell’Iowa). Il risultato è che ben 5 candidati hanno finora ottenuto dei delegati e la partita potrebbe complicarsi.

La preoccupazione che la gara possa ingolfarsi a causa dell’alto numero di contendenti è stata espressa dalla domanda posta loro dal moderatore Chuck Todd alla fine dell’infuocato debate di mercoledì scorso a Las Vegas, in cui tutti hanno giocato contro tutti -in una competizione al massacro senza esclusione di colpi- e l’unica alleanza ha trovato ragione nell’attacco corale contro Bloomberg.

Alla questione cosa potrebbe accadere qualora uno di loro non vincesse la maggioranza dei delegati alla convention, significativamente soltanto Sanders ha risposto che la nomination dovrebbe comunque andare a chi avrà ottenuto il maggior consenso da parte dei votanti.

Il rischio è dunque che un’allocazione plurale dei voti, in percentuali analoghe a quelle finora raggiunte, conduca a una convention nazionale altamente controversa da cui non venga fuori un sicuro vincitore, con scenari che potrebbero vedere i delegati pledged dare il voto a un candidato diverso rispetto a quello per cui si sono impegnati oppure un certo numero di candidati di minoranza allearsi contro quello più vicino alla maggioranza per scavalcarlo, per modo da affidare a uno di loro la nomination.

Si tratta di scenari che produrrebbero fratture poco auspicabili per il partito democratico, con conseguenze certamente drammatiche in termini di risultati elettorali nelle presidenziali. E’ per questo che in molti ritengono opportuno cominciare fin da subito a sfoltire il numero dei giocatori e consigliano il ritiro a quanti nelle primarie prossime a venire avranno ottenuto i risultati più deludenti. Il campo dei moderati si potrebbe allora ridurre a vantaggio di uno solo fra Joe Biden, Pete Buttigieg e Amy Klobucher o, chissà, magari addirittura di Mike Bloomberg, e –qualora anche Elizabeth Warren rinunciasse a correre- lo scontro potrebbe tornare sugli abituali e più rassicuranti (soprattutto nel contesto nord americano) binari della bipolarità.

Se dunque la partita resta ancora del tutto aperta, la prima schiacciante vittoria di Bernie Sanders potrebbe avere immediate conseguenze sul terreno di un gioco che lo vede per ora, nonostante tutto, lanciatissimo.

Bernie, così come Donald nel 2016, non è amato dall’establishment del partito per cui corre; Bernie, così come Donald nel 2016, appare tutto fuorchè “electable” (ossia capace di vincere le presidenziali); Bernie, così come Donald nel 2016, porta avanti un messaggio dirompente rispetto al main stream del suo partito. Bernie Sanders appare, dunque, sul fronte democratico, l’alter ego invertito di Donald Trump e proprio in ciò sta la sua forza.

Socialista dichiarato, settantottenne e reduce da un recentissimo infarto, Sanders concentra su di sé tre elementi che in base alle statistiche lo condannerebbero a una sicura sconfitta elettorale, soprattutto nel mondo statunitense, in cui le idee socialiste sono da sempre state invise, perché considerate nemiche delle libertà individuali che solo nel libero mercato troverebbero il dovuto riconoscimento.

Le statistiche e i calcoli anticipati circa le possibilità di vittoria di un candidato si scontrano, però, con un sentimento collettivo in grandissima misura imprevedibile, che oggi più che mai sembra desiderare il cambiamento.

Si tratta di quello stesso anelito, in grande misura rivoluzionario, che nel 2016 ha sostenuto Donald Trump, tanto nella corsa delle primarie del suo partito quanto in quella presidenziale, e che oggi -nonostante un’economia in apparente ottima salute- entusiasma l’esercito di sostenitori di Bernie Sanders, che sulla loro pelle tutti i giorni si scontrano con la realtà di una crescita ingannevole, perché vantaggiosa solo per pochi: i più ricchi.

Bernie Sanders, a differenza dei suoi competitors del partito democratico, incarna un sogno di radicale cambiamento, ugualmente forte ma di segno diametralmente opposto rispetto a quello che ha inaspettatamente consegnato la vittoria a Donald Trump la scorsa tornata elettorale. Istruzione pubblica, sanità pubblica, smantellamento dell’agenzia per l’immigrazione -che oggi si accanisce contro i migranti separando i bambini dai loro genitori- e soprattutto tutele giuridiche ai lavoratori impoveriti dalle delocalizzazioni delle fabbriche, cui Trump aveva promesso aiuto da parte di un mercato risovranizzato grazie all’abbandono dei trattati di libero scambio, che tuttavia non ha prodotto i risultati sperati in termini di miglioramenti salariali e di almeno parziale riallineamento degli stessi alla produttività del paese.

I Latinos che in Nevada hanno votato in massa per Bernie (il 53% in base ai sondaggi); i neri di cui Bernie in quello Stato ha conquistato la fiducia, sia pure a un tasso più basso rispetto al favorito Biden ( 27% contro 36%); i tantissimi giovani che bussano alle porte degli elettori per convincerli a votare quel vecchio signore, che tuttavia rappresenta il nuovissimo (che in Nevada hanno costituito il 66% degli elettori sotto i 30 anni); ma anche gli affiliati ai sindacati, che pur godendo di una buona assicurazione privata temono di vedersela portare via o non pensano solo a se stessi (sono stati molti gli appartenenti alla Culinary Working Union, che non si era ufficialmente schierata con Sanders, a votare per lui), i lavoratori sfruttati della gig e della tech economy, e i tanti nuovi elettori che non avevano mai partecipato prima a una tornata elettorale (il New York Times riporta come addirittura poco più della metà dei votanti in Nevada siano state persone che si presentavano per la prima volta a un caucus https://www.nytimes.com/2020/02/22/us/politics/bernie-sanders-nevada-caucus.html), costituiscono tutti insieme quell’esercito di agguerriti e arrabbiati sostenitori di un sogno altrettanto rivoluzionario, ma di segno contrario a quello incarnato da Trump.

Un dato in più viene fuori dai caucuses del Nevada, che quattro anni fa nello scontro fra Bernie Sanders e Hillary Clinton avevano consegnato la vittoria a quest’ultima: Sanders ha ottenuto il sostegno della più alta percentuale di moderati, battendo sia pure di poco Joe Biden (25% contro 23%). Che l’orizzonte di una “political revolution” stia conquistando anche loro? Le analogie fra l’attuale corsa del socialista Sanders con l’ascesa e la vittoria del sovranista Trump nel 2016 ac
quisterebbero, allora, davvero fondamento.

* I risultati definitivi non sono ancora noti mentre si scrive, perché a causa delle nuove regole che, a tutela della trasparenza, richiedono la trasmissione di una pluralità di dati da parte dei precincts, i tempi si sono allungati.

(24 febbraio 2020)



 
 
 
 
 
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