DIARIO DELLE PRIMARIE / 9 – Joe Biden salva in corner le speranze dell’establishment
Elisabetta Grande
Dopo le primarie del South Carolina di sabato scorso non è Joe Biden che abbandona la gara per la nomination a candidato democratico per le presidenziali, bensì Tom Steyer. Si tratta del miliardario che per la propria campagna ha speso circa 191 milioni di dollari a livello nazionale e solo in South Carolina, sulle cui primarie puntava per un serio recupero dopo le deludenti performances nelle precedenti tornate in cui non ha guadagnato neppure un delegato, ha investito in pubblicità ben 18.87 milioni di dollari. Un segnale che i soldi da soli non bastano per ottenere il consenso popolare? Forse.
Il dato appare importante per capire quali scenari si aprono di fronte a un SuperTuesday in cui un secondo miliardario “fai da te” entrerà in gioco per affiancarsi a Joe Biden, vincitore delle primarie del South Carolina, quale candidato moderato contro Bernie Sanders, che resta in testa alla classifica per una manciata di delegati ottenuti. Per ora il bottino (con ancora tre delegati da assegnare) è il seguente: 58 delegati pledged per Sanders, 53 per Biden, 26 per Buttigieg, 8 per Warren e 7 per Klobuchar.
Giacché occorrono 1991 delegati pledged, su 3979 totali, per arrivare alla convention quale sicuro vincitore (o vincitrice) della corsa per la nomination e poiché nel SuperTuesday di martedì 3 marzo ci sono più di 1300 delegati in palio in ben 15 Stati (cui si aggiunge il territorio dell’American Samoa), corrispondenti a un terzo del totale, mentre finora in palio ce ne sono stati solo 155, corrispondenti al 4%, è chiaro che la vera partita comincia ora.
Giacché occorrono 1991 delegati pledged, su 3979 totali, per arrivare alla convention quale sicuro vincitore (o vincitrice) della corsa per la nomination e poiché nel SuperTuesday di martedì 3 marzo ci sono più di 1300 delegati in palio in ben 15 Stati (cui si aggiunge il territorio dell’American Samoa), corrispondenti a un terzo del totale, mentre finora in palio ce ne sono stati solo 155, corrispondenti al 4%, è chiaro che la vera partita comincia ora.
La vittoria di Biden in South Carolina, con un margine su Sanders di quasi trenta punti percentuali -parecchio più alto quindi rispetto alle più rosee previsioni dei giorni precedenti il voto- gli assicura di rimanere autorevolmente in partita. Ciò per la gioia soprattutto dei leader del partito, che altrimenti avrebbero probabilmente dovuto puntare tutto su Michael Bloomberg -il supermiliardario per il momento senza base elettorale- il quale, non essendo parte dell’establishment, è però meno controllabile rispetto al vincitore del South Carolina.
Dopo la vittoria di Sanders nei caucuses del Nevada, caratterizzati da un’affluenza straordinaria di “nuovi” elettori, il terrore che il candidato indipendente potesse surclassare i suoi avversari -sia pur magari non fino al punto da ottenere la maggioranza dei delegati pledged necessari per vincere la convention al primo turno- si era infatti già impadronito dei centristi moderati e del nocciolo duro del partito democratico.
Così, mentre durante la campagna in Nevada erano andati in onda filmati in cui un giovane Sanders si recava a far visita a Fidel Castro a Cuba o si diffondevano illazioni circa un sostegno alla sua candidatura proveniente da Putin, all’alba della sua vittoria in quello Stato i leader del partito entravano in fibrillazione immaginando gli scenari più rocamboleschi pur di stopparne la corsa.
Una serie di interviste condotte dal New York Times subito dopo i risultati del Nevada ad alcuni personaggi autorevoli dell’establishment democratico, nonché a 93 dei 771 superdelegati nominati dall’alto, i quali votano al secondo turno in caso di così detta brokered convention (ossia di convention in cui nessun candidato arriva con la maggioranza dei voti dei delegati pledged), chiariscono come la stragrande maggioranza degli stessi fosse (e sia tuttora) pronta a provocare uno tsunami all’interno del partito pur di impedire la nomination di Bernie Sanders.
Non soltanto tutti i superdelegati intervistati, tranne nove, hanno esplicitato la loro intenzione di stravolgere il risultato delle votazioni popolari, negando in massa il proprio consenso a Sanders qualora egli non dovesse ottenere i 1991 delegati pledged necessari a una sua vittoria in prima battuta; molti di loro hanno addirittura immaginato la possibilità di nominare un candidato altro rispetto a quelli in gara, coinvolgendo tutti i delegati pledged dei candidati moderati cui si unirebbero i voti degli unpledged, ossia dei superdelegati, espressione dell’establishment.
Una specie di ritorno alle così dette “smoke-filled-rooms politics” di una volta, insomma, quando a decidere il candidato democratico per le presidenziali non erano i voti delle primarie, che in molti Stati non esistevano, ma gli accordi fra i vertici del partito riuniti per l’appunto in stanze piene di fumo di sigaretta. E se una tale eventualità, a chi ha familiarità con le serie tv, fa venire in mente alcuni episodi della edizione statunitense della House of Cards o di The West Wing, per tutti gli altri il ricordo va al 16 marzo del 2016, quando il precedente speaker della camera John Boenher disse che in caso di brokered convention repubblicana egli avrebbe sostenuto il suo successore in quel ruolo, Paul Ryan -che non aveva corso come candidato repubblicano-, contro un Donald Trump che non avesse ottenuto i voti necessari alla immediata vittoria. Solo il successo definitivo dell’outsider Trump, dopo le primarie dell’Indiana il 3 maggio del 2016, cui fece seguito un facile ottenimento di tutti i delegati necessari, costrinse i vertici del partito repubblicano ad abbandonare ogni remora nei suoi confronti.
Ancora una volta dunque Bernie Sanders appare come il guanto rovesciato di Donald Trump. A partire da domani, giorno del SuperTuesday, potremo cominciare a vedere quanto le loro strade in salita all’interno dei rispettivi partiti si presentino davvero simili. A partire da domani sapremo, inoltre, se i soldi di Michael Bloomberg conteranno poco come quelli di Tom Steyer.
(2 marzo 2020)
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