“Diaz”, la parola a Daniele Vicari
Barbara Sorrentini
Intervista a Daniele Vicari
Il film si articola tra atti processuali, libri, immagini video e testimonianze autentiche di chi era a Genova nella Diaz la notte del 21 luglio 2001. Partiamo dall’inizio?
La vicenda del G8 di Genova è stata immensa, gigantesca e lo dimostrano le centinaia di ore di riprese fatte da media attivisti di tutto il mondo, dalle televisioni ufficiali, dai filmmaker, dalla Polizia stessa. Per non parlare della documentazione scritta, su carta e diffusa in rete. Da questo punto di vista Genova è stato un evento unico. Io non ho mai pensato di fare un film sul G8 di Genova, né sul summit e nemmeno sul contro summit. Si trattava di una forma di attività politica straordinaria, messa in piedi da migliaia e migliaia di cittadini di tutto il mondo per rispondere a una fase storica che si stava mettendo a fuoco in quel periodo e che ha trovato concretizzazione nella crisi economica. Raccontare tutto questo in un film sarebbe stato velleitario.
Che potenzialità narrative avevi individuato nell’irruzione della Polizia nella Diaz da tradurre cinematograficamente?
Mi dava la possibilità di raccontare un episodio che riguardasse tutti i cittadini italiani, anche quelli che erano contrari alla protesta: cioè la sospensione dei diritti civili e democratici in un paese che dovrebbe essere democratico. Da questo punto di vista gli atti dei processi sulla Diaz e Bolzaneto rappresentano una miniera dolente e schiacciante, dal punto di vista delle prove e delle storie che raccontano questa sospensione dei diritti.
L’assenza di immagini di ciò che è successo all’interno della Diaz deve aver richiesto uno sforzo di immaginazione immane e di ascolto di testimonianze. Come sono state ricostruite quelle scene dell’orrore?
Ricostruendo gli eventi attraverso gli atti dei processi mi sono reso conto che a causa delle polemiche che ci sono state successivamente, la violenza di quell’irruzione è passata in secondo piano. Cioè, il modo in cui è stata attuata la repressione, il modo in cui le persone sono state picchiate, umiliate e ridotte in fin di vita è significativo di una concezione dell’ordine pubblico e dello scontro tra fazioni politiche. In quel momento la polizia interpreta e rappresenta una funzione politica. Per poter raccontare questo punto di vista, per me è stato necessario andare fino in fondo nella rappresentazione della violenza che si è scatenata dentro alla Diaz e dentro Bolzaneto. Essere fedele agli atti per me è stato un punto d’onore. Intorno a questa vicenda ci sono i dirigenti della polizia e nel film faccio vedere che queste persone prendono delle decisioni chiusi in una stanza, poi vanno sotto la scuola, falsificano la raccolta delle prove e fino alla fine restano lì a difendere questa loro posizione costruita a tavolino. Il film è molto esplicito su questo. La logica della mia ricostruzione è una logica narrativa e la narrazione ha come scopo fondamentale quello di indurre chi guarda a farsi delle domande e non a dare delle risposte definitive, come invece dovrebbe fare un politico.
In Diaz il messaggio e la storia, passano dal modo in cui vengono raccontati. Quali scelte registiche ci sono dietro al film?
Da cineasta, e non da scrittore di volantini di propaganda, mi sono posto per prima cosa il problema di come fare questo film. Uno dei fattori determinanti per immergersi in un fatto accaduto undici anni fa, era quello di ricreare l’atmosfera che si respirava. L’impressione più comune riportata da chi è stato a Genova nel 2001 era di non essere in grado di trasmettere agli altri l’incredibile spaesamento, la paura provata, il terrore di vedere qualcuno che viene ucciso o di essere uccisi. Per riprodurre questa forma di tensione e per descrivere questo senso di angoscia un film non può fermarsi a raccontare i fatti, deve raccontare le sensazioni e le emozioni. Diaz è un film di vita vissuta, non di idee espresse.
E tecnicamente come ci sei riuscito?
Costruendo una narrazione non lineare, ma circolare, ho tentato di trasmettere fisicamente la sensazione di chi era lì. Per esempio la sensazione di non poter fuggire, la paura di perdere la vita in quel momento. Era necessario costruire l’atmosfera molto tempo prima di girare: tenere unite tutte le persone per tutto il periodo delle riprese, ricostruire interamente una città in un luogo fuori dal contesto italiano, a Bucarest, fare le prove con centinaia di comparse e decine e decine di attori sempre sul set, tutti i giorni, ha fatto sentire a tutti questa tensione. Loro hanno vissuto per primi questa esperienza da trasmettere a chi guarda. In questo film gli spettatori non troveranno risposte a tantissime domande importanti, anzi uscendo dal cinema avranno molti più dubbi rispetto a quando sono entrati. Ma credo che rimarrà a chiunque la necessità di saperne di più. I fatti di Genova hanno determinato un cambiamento profondo nella nostra percezione della democrazia e quella sospensione dei diritti così feroce è diventata una cosa quasi naturale. Da lì in avanti la criminalizzazione dei movimenti è diventato un fatto scontato. Chiunque scenda in piazza e rompa una vetrina è un black block, un terrorista. Questo livello di violenza mediatica che si scarica sui movimenti, non giustifica, ma spiega la rabbia di molti giovani. Spero che in Diaz si comprenda questo punto di vista.
(17 aprile 2012)
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