Diaz, “vergogna”: lo stato non giudica se stesso

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Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto da "Scuola Diaz: vergogna di stato. Il processo alla polizia per l’assalto alla Diaz al G8 di Genova" (Edizioni Alegre, 2009).

Molti anni dopo, trascorse centosettantadue udienze dall’inizio del processo, i Pm Zucca e Cardona probabilmente si sarebbero aspettati una sentenza diversa.
Sicuramente l’attendevano le parti civili, le vittime della “macelleria messicana” che, di fronte alle parole del presidente del tribunale – che dispensava tredici miti condanne e sedici assoluzioni, riservando peraltro queste ultime agli imputati di più alto grado gerarchico – non si sono trattenute dal commentare il verdetto con una sola parola, urlando: “vergogna!”.
La sentenza, emessa il 13 novembre 2008, aveva dunque già destato molte perplessità, e le motivazioni depositate il giorno 11 febbraio 2009 le hanno aumentate, invece di fugarle. Alcuni si aspettavano perlomeno che il dispositivo contenesse una testimonianza della gravità di quanto successo, come effettivamente era avvenuto per i fatti di Bolzaneto. Anche quella sentenza aveva deluso molti, per il riconoscimento della responsabilità solo di alcuni dei funzionari e graduati presenti nella struttura carceraria, ma un merito quantomeno lo aveva avuto, perché la condanna per abuso di ufficio (reato sotto il quale, in assenza di uno specifico reato di tortura, erano stati ricondotti i trattamenti inumani e degradanti) del dirigente della polizia penitenziaria Antonio Biagio Gugliotta, aveva quantomeno contribuito a rendere la verità storica di quanto accaduto a Bolzaneto: solo uno ne risponde, ma vi fu tortura.
Molto diverso è il quadro che ci restituisce la sentenza della scuola Diaz.
Questo lavoro, in cui abbiamo ripercorso la “perquisizione” al complesso scolastico Diaz, costituito dalle scuole Pertini e Pascoli, seguendo l’analisi compiuta dai Pm nel loro atto d’accusa, sarebbe quindi incompleto senza un’analisi critica della sentenza.
Il capitolo più importante, ossia quello sulla valutazione delle responsabilità, si apre con una premessa in cui i giudici sembrano mettere le mani avanti rispetto a quanto seguirà, ricordando che compito della Corte era esclusivamente valutare «le eventuali responsabilità personali dei singoli imputati in ordine ai reati loro specificamente ascritti». Conseguentemente il giudizio prescinde da «qualsiasi diversa valutazione complessiva, di natura politica, sociale o anche di semplice opportunità, circa i fatti in oggetto».
Vediamo ora di riassumere i punti salienti del verdetto.
Il tribunale ha accertato la sussistenza del reato di lesioni condannando i capireparto del VII Nucleo guidato da Vincenzo Canterini.
Ha anche accertato che le bottiglie molotov erano delle prove false introdotte nella scuola da un agente di polizia, al solo scopo di calunniare gli occupanti.
Canterini è stato anche riconosciuto colpevole di falso e calunnia, per aver dato atto nella sua relazione di servizio di avere incontrato una forte resistenza da parte degli occupanti all’interno della scuola.
Questa sentenza, se da un lato restituisce dignità a novantatré persone ingiustamente incolpate di associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio (accusa definitivamente archiviata oltre tre anni dopo nel dicembre 2004), è evidente che dall’altro non è stata in grado di accertare fino in fondo le responsabilità che coinvolgevano i vertici della polizia italiana rappresentate ai massimi livelli (Gratteri, Luperi, Caldarozzi), che si trovavano sul posto accanto a Canterini, nel cortile della scuola e al suo interno, e che sarebbero rimasti ignare vittime delle menzogne loro raccontate dal collega.
I funzionari che hanno redatto e sottoscritto i verbali di arresto sarebbero dunque stati indotti in errore dalla relazione di Canterini; una forzatura evidente, perché quei funzionari erano presenti sul posto, non si trovavano a casa, in caserma, in un’altra città. Hanno seguito l’operazione dall’inizio alla fine, la hanno programmata, diretta, giustificata.
Sono emersi nel corso del giudizio, elementi sufficienti per poter considerare quell’operazione, del tutto premeditata, nelle sue modalità e nelle sue conseguenze; basti pensare al pretesto che ha dato luogo all’operazione, costituito dal lancio di una bottiglia, in direzione di una vettura della polizia che era passata alcune ore prima a forte velocità nella via antistante alle due scuole.

La sentenza, nell’arduo tentativo di conciliare il riconoscimento dell’ingiustizia subita dalle parti offese, e di mandare assolti i funzionari più alti in grado, perviene dunque a un risultato paradossale.
Riconosce infatti risarcimenti alle noventatré vittime a titolo di “provvisionale”, per oltre un milione di euro in conseguenza del pestaggio (cui devono aggiungersi i danni per le lesioni inferte al giornalista inglese Mark Covell, ridotto in fin di vita, per cui pende altro procedimento penale contro ignoti). Gli importi liquidati e il numero di persone coinvolte rendono l’idea di quanto devastante sia stata l’aggressione della polizia.
Al tempo stesso, in stridente contrasto con la condanna di tutti gli imputati appartenenti al VII Nucleo di Canterini, la sentenza sostiene che tutto ciò sarebbe avvenuto nella totale ignoranza degli esperti funzionari che si trovavano nel cortile della scuola, a pochi metri dalla “macelleria”, che pur sentivano le grida straziate degli occupanti, che si sono visti passare decine di ragazzi massacrati sulle barelle.
Per il tribunale di Genova nulla di tutto quello che hanno visto e sentito gli altri imputati, poteva indurli a dubitare della veridicità delle dichiarazioni di Canterini.
Segno evidente degli equilibrismi cui è stato costretto il tribunale per pervenire a questo risultato, è l’aver ritenuto la relazione di servizio di Canterini falsa solo nella parte in cui riferisce della resistenza all’interno della scuola, e non in quella che riferisce del lancio di oggetti sulle forze dell’ordine o che si trovavano fuori dalla scuola.
Questo perché il «fittissimo lancio di oggetti di ogni genere» dalle finestre della scuola, di cui si parla nel verbale di arresto, non poteva non essere oggetto di percezione diretta anche da parte degli altri funzionari che si trovavano fuori dalla scuola; non sarebbe stato possibile scaricare la responsabilità anche di questa falsità su informazioni riferite da terzi e sarebbe stata inevitabile la condanna anche di costoro. Peraltro nel corso del processo nessuno degli imputati si è difeso indicando “da chi” avrebbe ottenuto le notizie false riportate sul verbale di arresto.
L’istruttoria ha inoltre pienamente dimostrato la falsità di molte delle ulteriori circostanze riportate nel verbale di arresto, che non possono in alcun modo essere attribuite a Canterini, quali il fatto che la scuola fosse piena di armi di ogni genere (rivelatesi attrezzi del cantiere edile ivi presente o le stecche di metallo degli zaini degli occupanti, estratte dagli stessi agenti), o piuttosto l’attestazione che la scuola fosse «l’indispensabile supporto logistico per rendere attuabile il comune programma associativo realizzato attraverso la consumazione dei delitti di devastazione e saccheggio […] anche attraverso l’uso di armi da guerra, luogo destinato ad accogliere i vertici delle “tute nere”».
È evidente che questi ufficiali, tutt’altro che
inesperti, non possono essere stati ingannati dai loro sottoposti. È evidente che chi ha compilato e sottoscritto i verbali di perquisizione e arresto era perfettamente cosciente di tale falsità.
Anche a voler ritenere che i funzionari in questione non fossero consapevoli della falsità, avevano comunque attestato in atti fidefacenti, fatti e circostanze di cui non avevano avuto diretta percezione.
Gli imputati cui veniva contestata la redazione dei falsi verbali si sono difesi infatti sostenendo di non aver personalmente compiuto (o di aver compiuto solo in parte) le operazioni di perquisizione, di non aver eseguito le attività documentate dai verbali, e di essersi occupati solo dell’identificazione degli arrestati e del loro accompagnamento negli ospedali.
Ciò sarebbe stato di per sé sufficiente a integrare il reato di falso, secondo quanto attestato anche dalla Corte di Cassazione nell’ambito di questo stesso processo (sull’istanza di annullamento della sentenza di non luogo a procedere emessa dal giudice dell’udienza preliminare), che ha stabilito che il Drottor Gava dovesse essere processato anche per il reato di falso, avendo redatto e sottoscritto il verbale di perquisizione, quando era pacifico che mentre la stessa si svolgeva egli si trovava altrove.
Secondo la Cassazione infatti commette un falso il pubblico ufficiale che attesta di avere eseguito una attività compiuta da altri, anche se pensa che quello che dichiara corrisponde al vero.
Di tale sentenza della Cassazione, supportata da numerose altre pronunce concordanti, che induceva a pronosticare una condanna per falso di gran parte degli imputati, non viene tenuto alcun conto nella sentenza che ha concluso il processo Diaz.
Altrettanto incomprensibile è l’assoluzione del dottor Gava,comandante del reparto che ha eseguito la perquisizione nella scuola di fronte, la Pascoli, dove si trovava la sede operativa del Gsf.
Al dottor Gava era contestato di aver eseguito una perquisizione arbitraria, sottratto materiale video e fotografico, distrutto i computer degli avvocati, costretto gli occupanti della scuola a stare seduti faccia al muro.
Nella sentenza si legge che «non sussistono elementi probatori certi che possano indurre a escludere che il dottor Gava sia entrato con i suoi uomini nell’edificio esclusivamente per un errore nell’identificazione dell’obiettivo dell’operazione […]. In tale situazione, dunque, un errore in ordine all’obiettivo dell’operazione non appare impossibile».
Dunque, secondo il tribunale di Genova, era onere dell’accusa e delle parti civili quello di provare che la perquisizione arbitraria e tutti gli altri gravi reati commessi nella scuola non avvennero per errore, e non era invero chi quella operazione aveva eseguito e condotto, dover provare che una serie di atti del tutto illegali furono frutto di una semplice svista.
Secondo il tribunale il dottor Gava sarebbe stato indotto in errore dalla targa marmorea affissa all’ingresso della Pascoli sulla quale era scritto “Scuola Elementare di Stato Armando Diaz” (non riportava dunque il nome corretto). Per comprendere la situazione descritta nella sentenza, ci dobbiamo immaginare il dottor Gava che conduce il suo reparto nella scuola sbagliata, munito di uno stradario, o sulla base delle indicazioni di un passante, ingannato da una targa dal significato equivoco, mentre a pochi metri di distanza è in pieno svolgimento il massacro di novantatré persone con le modalità note.
La sentenza adduce a sostegno della tesi dell’errore, le dichiarazioni dell’imputato Gratteri, che ha dichiarato che appena si accorse della presenza di appartenenti alla polizia di stato nella Pascoli, invitò l’imputato dottor Ferri (che ha confermato la versione) di richiamare l’imputato dottor Gava (che ha confermato anche lui tale versione, ovviamente). È come se in un processo per rapina a mano armata la sentenza di assoluzione venisse motivata sulle dichiarazioni degli imputati che affermano di aver scambiato la banca rapinata per un poligono di tiro e di essersi ritirati non appena accortisi dell’errore.
Va sottolineato che molti dei comportamenti posti in essere dalla polizia nella scuola Pascoli, integrerebbero comunque dei reati anche qualora posti in essere durante una perquisizione legittima (sono stati perpetrati furti, danneggiamenti, lesioni, violenza privata).
La fiducia del tribunale nella correttezza e buona fede degli agenti impegnati nel blitz è a prova di qualunque ragionamento; tanto che in relazione all’episodio della devastazione dei pc in dotazione ai legali del Gsf, si chiede quale potesse essere l’interesse degli agenti a distruggere i pc degli avvocati, «nella cui memoria è presumibile fossero immagazzinati dati delicati, che le forze dell’ordine, impegnate nella ricerca di pericolosi sovversivi, non avrebbero invece avuto interesse a sopprimere». Continua il tribunale affermando che «certo è che se da un lato potrebbe essere evidente l’interesse delle forze dell’ordine a recuperare i dati raccolti dai legali è altrettanto evidente l’interesse di questi ultimi o comunque di coloro che si trovavano nella Pascoli a impedirne il rilevamento».
Insomma, non sono bastate le decine di cause civili e penali, avviate dagli avvocati del Gsf sulla base del materiale raccolto in gran parte nel luglio 2001, che hanno accertato le brutalità commesse dalle forze dell’ordine durante il G8, condannando l’amministrazione a risarcire milioni di euro, per scalfire il solido pregiudizio del tribunale che gli avvocati del Gsf avessero raccolto unicamente dati relativi ai reati commessi dai manifestanti e non già dalle forze dell’ordine.
È evidente la sostanziale adesione da parte del collegio giudicante, alla teoria sempre propugnata da politici di destra e forze di polizia, di una sostanziale collusione tra Gsf e devastatori, a tutela dei quali il Gsf aveva evidentemente attivato nientemeno che una folta schiera di avvocati.
La sentenza evidentemente non vuol prendere atto del risultato concreto ed evidente ottenuto dal blitz nella scuola Pascoli: sottrazione di prove, testimonianze, denunce relative ai reati commessi in quei giorni dalle forze dell’ordine, e allontanamento di scomodi testimoni dalle finestre da cui si poteva vedere da vicino cosa stava accadendo nella scuola di fronte.
A tutto questo vanno aggiunte alcune altre considerazioni, solo apparentemente marginali.
Alcun risarcimento è stato riconosciuto alle parti civili Genoa social forum e Federazione nazionale della stampa.

Per quest’ultima il tribunale ha ritenuto che i vari giornalisti oggetto delle aggressioni (Covell, Guadagnucci), non fossero stati aggrediti in quanto tali (era tuttavia arcinoto che nelle scuole Diaz vi era il media center frequentato da decine di giornalisti italiani e stranieri).
Quanto al Gsf la sentenza, del tutto ipocritamente, afferma che «nessuno dei reati accertati appare commesso in suo danno o dei suoi affiliati o simpatizzanti in quanto tali». Ci si chiede cosa stessero facendo coloro che si trovavano nelle scuole Diaz, se non partecipare alle attività del Gsf, ospitati in una delle sue strutture.
Altre aggressioni non furono commesse quella sera dalle forze dell’ordine, né altri arresti furono eseguiti, se non quelli in danno della totalità delle persone che si trovavano dentro la scuola affidata in gestione al Gsf. Altrettanto ipocritamente la sentenza afferma che alcun danno all’immagine del Gsf seguì dall’irruzione alle scuole Diaz, non tenendo in alcun conto della copiosa rassegna stampa dei giorni successivi prodotta in giudizio dal Gsf, che riportava le dichiarazioni dello stesso pr
esidente del Consiglio, in cui veniva accostato espressamente il Gsf ai Black bloc (la sede del Gsf era divenuto “il covo delle tute nere”) e che ne ha indicato il portavoce Agnoletto come il capo di una associazione a delinquere.
In conclusione, si tratta di un verdetto davvero limitato e irriverente.
Va comunque evidenziato che nella sentenza si leggono forti considerazioni sulla gravità di quanto avvenuto («Quanto accadde all’interno della scuola Diaz-Pertini fu al di fuori di ogni principio di umanità, oltre che di ogni regola e ogni previsione normativa […]. Quanto avvenuto in tutti i piani dell’edificio scolastico con numerosi feriti di cui diversi anche gravi […] appare di notevole gravità sia sotto il profilo umano che legale. In uno Stato di diritto non è accettabile che proprio coloro che dovrebbero essere i tutori dell’ordine e della legalità pongano in essere azioni lesive di tali entità») e sull’atteggiamento autoassolutorio e di scarsa collaborazione da parte delle forze dell’ordine, laddove si specifica che le violenze nella scuola non possono «trovare giustificazione se non nella consapevolezza di poter agire senza alcuna conseguenza e quindi nella certezza dell’impunità […] è invece certo che la loro propagazione così diffusa e pressoché contemporanea presupponga la consapevolezza da parte degli operatori di agire in accordo con i loro superiori che comunque non li avrebbero denunciati».
A tali affermazioni non corrispondono tuttavia conseguenze proporzionate sul piano penale.
Bisogna inoltre ricordare che alla inconsistenza delle conseguenze giudiziarie, si accompagna l’inesistenza di qualsiasi reazione da parte dell’amministrazione che non ha adottato alcun provvedimento sanzionatorio o di altro genere verso chi, indipendentemente da responsabilità penali, non può certo dirsi assolto sul piano etico o professionale. Se, durante il processo, era stato invocato il principio della presunzione d’innocenza per giustificare la mancanza di provvedimenti in tale senso (a cui aveva, al contrario, fatto da contraltare il fenomeno delle numerosissime promozioni interessanti gli imputati) neppure a condanna emessa si è registrata un’inversione di tendenza.
Significativa, da questo punto di vista, la promozione di Fournier, promosso ai vertici della direzione centrale antidroga della polizia dopo la sentenza che pure l’ha visto condannato a due anni per i fatti della Diaz.
Anche questo ultimo, vergognoso avanzamento di carriera, al pari delle promozioni di tutti gli altri funzionari, dimostra in modo evidente che chi guidò le forze dell’ordine la notte del 21 luglio 2001, stava facendo esattamente quello che gli era stato chiesto di fare, stava obbedendo a degli ordini.
Questa prova di “fedeltà allo Stato”, o meglio al potere autoritario dello Stato, è stata premiata, con riconoscimenti, avanzamenti di carriera, promozioni.
Mai vi fu una presa di distanza, un riconoscimento degli errori e degli orrori di quella notte, da parte del potere politico.
La sentenza Diaz, dimostra ancora una volta che neppure nelle sedi giudiziarie, lo Stato è stato in grado di giudicare se stesso; ancora una volta è emersa la debolezza dei principi cardine dello Stato di Diritto, per i quali il potere giudiziario dovrebbe costituire argine e limite agli abusi del potere esecutivo.
Con questa sentenza si è persa l’occasione di rendere giustizia a quella che Amnesty International ha definito «la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale».

(20 maggio 2009)



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