I CLASSICI DI MICROMEGA: ‘Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina’ di Olympe de Gouges presentato da Ginevra Bompiani

Ginevra Bompiani

Il pamphlet che Olympe de Gouges scrive nel 1791 sulla falsariga della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, redatta due anni prima dell’Assemblea nazionale francese, è uno dei testi più rivoluzionari che siano stati scritti, eppure non produsse alcun effetto tra i suoi contemporanei. L’autrice, nel delineare una donna nuova, nata dalla Rivoluzione, era convinta di trovare ascolto, ma non aveva tenuto in conto che dalla stessa Rivoluzione non era nato, anzi forse era morto, l’uomo nuovo creato dal pensiero dei filosofi del Settecento: quello di Voltaire, Rousseau, Diderot, Condorcet, D’Alembert, Fourier, Montesquieu.

Olympe de Gouges era una donna incerta del suo nome, della sua classe sociale, della sua vita, ma sicura di sé. Bella, morbida, settecentesca sotto la sua vaporosa parrucca bianca, le guance piene, il collo gentile, la gola coperta da un velo. Di lei abbiamo un solo ritratto, continuamente riprodotto con qualche variazione. Il suo viso è quello. Ma non ci dice molto di lei. È un viso classico, femminile. Ed era lei stessa molto femminile. Eppure trascurò la sua specificità per rappresentare le donne uguali agli uomini. E che proprio questa rivendicazione l’abbia condotta alla tragedia, non solo non sorprende, ma ricorda tanti miti e tanta storia passata.

A cominciare dal mito-storia delle Amazzoni, che si sono sempre battute per affrontare l’uomo faccia a faccia, hanno sempre perso e tuttavia conquistato una memoria perenne. Ma le Amazzoni combattevano insieme e usavano le frecce e l’ascia bipenne. Olympe combatté da sola e usò la parola a lama unica.

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Nata a Montauban, il 7 maggio 1748, da una coppia di commercianti, ma a quanto pare figlia naturale di un letterato aristocratico, Jean-Jacques Lefranc de Pompignan, Olympe esita subito fra lo stato borghese e la nobiltà. A sedici anni viene sposata a un uomo molto più vecchio, che le dà un figlio e poi muore. È ancora giovanissima e si lega a un piccolo aristocratico, Jacques Biétrix de Rozières, che segue a Parigi con il suo bambino. Qui comincia la sua vita, bella, effervescente e piena di amanti: addirittura forse il duca di Orléans, futuro Philippe-Egalité. Sebbene parli ancora nel dialetto meridionale di Montauban, si butta nella letteratura e si circonda di segretari a cui detta le sue opere (perché, come dice, «io scrivo male, ma penso bene»). E a questo punto cambia nome: lascia il semplice nome borghese di Marie Gouze, per prendere quello della madre, Marie Olympe, e mescolare il nome borghese del padre putativo con l’aristocrazia di quell’altro. Così diventa Olympe de Gouges. «La letteratura è una passione», dirà. Ma tutto è una passione per lei. Una passione impaziente. Infatti, il primo tentativo è quello di lanciare un giornale, L’impatient. Fallito questo, entra nella politica attraverso la scrittura. Il suo pamphlet più famoso, scritto nel 1791, s’intitola Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina ed è redatto sulla falsariga della dichiarazione dei princìpi di libertà, sicurezza e proprietà maschili da parte dell’Assemblea nazionale.

Questo, che è uno dei testi più rivoluzionari che siano stati scritti, non produce alcun effetto, sebbene segua di poco gli scritti di Nicolas de Condorcet e preceda di solo un anno A Vindication of the Rights of Woman di Mary Wollstonecraft. Condorcet – matematico, filosofo, rivoluzionario e massone, battutosi per la Rivoluzione da girondino, e come tale finito in prigione dove morirà dopo due giorni, nel 1794 – aveva preceduto Olympe su diverse questioni: dalla schiavitù dei negri (1781) all’«Ammissione delle donne al diritto di cittadinanza» (1790). Olympe non era dunque del tutto sola (preceduta del resto anche da Marie de Gournay, autrice, nel 1622, del trattato sull’«Eguaglianza degli uomini e delle donne»). Ma una donna che si comporta come un uomo è sempre sola.

Si dà quindi al teatro, facendosi aiutare finanziariamente dagli uomini a cui si lega, ragione per la quale verrà chiamata «cortigiana» e «puttana». Anche il teatro era una passione, particolarmente adatta a esprimere l’ardore politico, come avviene con la commedia L’esclavage des Noirs, che nel repertorio della Comédie française prenderà il titolo di Zamore et Mirza (1790), insieme al Marché des Noirs dello stesso anno. Entrerà così a far parte della società degli abolizionisti, creata dal girondino Brissot.

Al teatro (40 drammi), affianca la scrittura narrativa: tre romanzi, fra i quali Mémoire de Madame de Valmont – scritto alla morte del padre presunto, Lefranc de Pompignan, che racconta i torti del padre verso la figlia illegittima (1788) – ottanta pamphlet politici e altri scritti di varia natura.

Si definisce «un animale anfibio», «una donna al di sopra del ridicolo».

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La Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, presentata il 17 agosto 1789 dai cinque membri incaricati dall’Assemblea costituente, consiste di 19 articoli preceduti da un preambolo. Discussa, modificata e ridotta a 17 articoli, sarà votata il 27 agosto, e poi accettata e promulgata dal re Luigi XVI. Gli articoli hanno provenienze molto diverse: da Rousseau al duca de La Rochefoucauld, da Talleyrand al vescovo Gobel. Molti dei suoi redattori moriranno ghigliottinati pochi anni dopo.

Del resto, in questa come in ogni altra (a mia conoscenza) dichiarazione dei diritti umani, maschili o femminili, manca il diritto essenziale, che potremmo chiamare il diritto naturale all’incolumità. Il diritto dell’individuo a che nessuno, in nessun modo – e tanto meno lo Stato – attenti alla sua vita.

Anche la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne è costituita da 17 articoli. E anch’essa dimentica il diritto alla vita, o a una morte per cause intrinseche. Anzi, arriva a fondare il diritto della donna di «salire sulla tribuna» su quello di «salire sul patibolo». Questo che è forse il passo più famoso della Dichiarazione, è il più discutibile e rivela come l’oppressione maschile fosse (e sia) profondamente radicata nell’inconscio femminile, anche il più rivoluzionario. Come può il fatto di «salire sul patibolo» costituire un diritto? Quel che vuol dire Olympe è che se uomo e donna sono uguali nella morte devono essere uguali nella vita. O meglio, se la donna è considerata responsabile delle sue azioni, e quindi punibile con la morte, deve essere considerata responsabile anche nella legiferazione e amministrazione della società civile.

Un argomento d’effetto, ma incongruo. La donna è sempre stata considerata responsabile dei suoi atti, in particolare delle sue colpe (anzi, è la colpevole per eccellenza), e proprio per questo deve essere tenuta a bada, affinché non induca l’uomo in tentazione. Per di più, la ghigliottina non puniva tanto gli atti, quanto le condizioni e le opinioni. Olympe fu condannata, il 3 novembre 1793, non solo per i suoi scritti coraggiosi, le sue accuse, le sue denunce (nei confronti di Marat, di Robespierre, «caricatura di un grand’uomo»), la sua difesa della vita del re, ma ancor più perché aveva «dimenticato le virtù che convengono al suo sesso».

Di sé diceva: «Io sono la mia opera, e quando compongo sul mio tavolo, ho solo inchiostro, carta e penna». È con questi strumenti che scrive la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, dedicato alla regina Maria Antonietta. Alla dedica segue un preambolo, in cui Olympe invita l’uomo a cercare in tutta la natura un esempio di oppressione del maschio sulla femmina: ovunque troverà i sessi fusi insieme, che cooperano armoniosamente all’amministrazione della natura.

E qui comincia la Dichiarazione, che dovrà essere trasformata in decreto in una delle ultime sedute dell’Assemblea nazionale o nella prossima legislatura. Come dubitarne?

E dunque, le madri, le figlie, le sorelle della Nazione, chiedono di essere costituite in Assemblea nazionale. Così che «il sesso superiore per bellezza e coraggio» riconosca e dichiari i suoi diritti.

Quello che risuona con chiarezza e durezza in questi 17 capitoli è l’assoluta parità fra uomo e donna. Il principio ispiratore è l’uguaglianza, non la differenza. Che la donna abbia caratteristiche proprie, fisiologiche e spirituali, non è preso in considerazione, se non nell’articolo XI. La conquista è dunque piena di minacce quanto di promesse, quasi la donna fosse ansiosa di sta
bilire lei stessa il prezzo che dovrà pagare. L’altro aspetto interessante è che questa Dichiarazione ricalca fedelmente quella dei diritti dell’uomo, evidentemente considerata giusta ed esauriente, salvo l’omissione della figura femminile.

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Vediamo ora quali sono le variazioni, capo per capo, che la donna imprime ai diritti umani (in tondo la Dichiarazione dell’uomo e del cittadino, in corsivo la versione di Olympe de Gouges, fra quadre miei commenti):

– Art. 1: Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti.

La donna nasce libera e resta uguale agli uomini per diritti [libertà e uguaglianza per la donna non coincidono].

– Art. 4: La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla Legge.

La libertà e la giustizia consistono nel restituire tutto quello che appartiene agli altri; così l’esercizio dei diritti naturali della donna ha come limiti solo la tirannia perpetua che l’uomo le oppone; questi limiti devono essere riformati dalle leggi della natura e della ragione [libertà e giustizia partono da una prima offesa, che deve essere risarcita].

– Art. 7: Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge, e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che sollecitano, emanano, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente: opponendo resistenza si rende colpevole.

Nessuna donna è esclusa; essa è accusata, arrestata e detenuta nei casi determinati dalla Legge. Le donne obbediscono come gli uomini a questa legge rigorosa [la donna non è esclusa dalle pene più severe].

– Art. 9: Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge.

Tutto il rigore è esercitato dalla legge per ogni donna dichiarata colpevole [anche qui, l’accento è sul rigore della Legge, non sulla sua moderazione].

– Art. 10: Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge.

Nessuno deve essere perseguitato per le sue opinioni, anche fondamentali; la donna ha il diritto di salire sul patibolo, deve avere ugualmente il diritto di salire sulla tribuna; a condizione che le sue manifestazioni non turbino l’ordine pubblico stabilito dalla Legge [il diritto della donna alle sue opinione nasce dalla sua punibilità con la vita].

– Art. 11: La libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.

La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi della donna, poiché questa libertà assicura la legittimità dei padri verso i figli. Ogni Cittadina può dunque dire liberamente, io sono la madre di un figlio che vi appartiene, senza che un pregiudizio barbaro la obblighi a dissimulare la verità; salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge [il diritto alla parola della donna si esercita particolarmente nel diritto ad affermare l’appartenenza del figlio].

– Art. 13: Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d’amministrazione, è indispensabile un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i cittadini in ragione delle loro capacità.

Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese dell’amministrazione, i contributi della donna e dell’uomo sono uguali; essa partecipa a tutte le incombenze, a tutti i lavori faticosi; deve dunque avere la sua parte nella distribuzione dei posti, degli impieghi, delle cariche delle dignità e dell’industria [di nuovo, il diritto della donna, prima di essere esercitato, è pagato con la fatica].

Tre osservazioni generali: i diritti della donna sono gravosi e severi; da niente è esclusa, niente le viene risparmiato. La specificità della donna non è tanto nella generazione dei figli, quanto nel loro riconoscimento. La libertà della donna, limitata dall’oppressione maschile, non consiste nel fare tutto ciò che non nuoce ad altri, quanto nella restituzione di quel che è stato ingiustamente sottratto.

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La Dichiarazione si chiude con il Postambolo. Alla domanda maschile «Donne, che cosa abbiamo in comune noi e voi?», la donna deve rispondere «Tutto». E qui, sorprendentemente, Olympe rivela la propria opinione della donna, ancora più negativa di quella che ha dell’uomo: le donne hanno fatto più male che bene, perché hanno avuto in sorte la schiavitù e la dissimulazione; per ottenere quel che vogliono, si sono servite di astuzia e fascino; il governo francese è dipeso fino ad allora dall’amministrazione notturna delle donne: «Tutto si è inchinato alla cupidigia e all’ambizione di un sesso un tempo disprezzabile ma rispettato, e divenuto con la Rivoluzione rispettabile ma disprezzato». Ecco dunque che i diritti premiano una donna nuova, nata dalla Rivoluzione. E proprio per questo Olympe non dubita che verrà ascoltata. Non calcola però che dalla stessa Rivoluzione non è nato, anzi forse è morto, l’uomo nuovo creato dal pensiero dei filosofi del Settecento: l’uomo di Voltaire, Rousseau, Diderot, Condorcet, D’Alembert, Fourier, Montesquieu…

Non erano questi gli uomini che oggi si mandano reciprocamente sulla ghigliottina, che instaurano il Terrore, che specchiano nelle comari-streghe, le tricoteuses, il loro godimento per la sofferenza inflitta: gli ebbri di punizione. L’idea di Olympe de Gouges di un essere umano uomo e donna, unito e nuovo, piccolo borghese e aristocratico, esaltato e confidente, nasce da lei, in lei si rispecchia, è la sua illusione.

«Invano distolgo lo sguardo, il mio cuore è straziato; muoio a ogni istante, senza poter finire questa triste vita» sono le ultime parole da lei scritte, forse il 21 settembre 1793, il suo crudele disinganno. Tre anni dopo, Napoleone raccoglierà le vestigia della Rivoluzione, che si concluderà il 18 Brumaio del 1799. La voce della donna-uomo nuova si era spenta assai prima.

(13 maggio 2020)



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