Didattica a distanza e fascismo, un paragone fuori luogo

Teresa Simeone

Febbraio-marzo 2020: l’epidemia di covid-19, che aveva terrorizzato la Cina, si diffonde in Europa e nel mondo. È pandemia. Al 25 maggio 2020, la situazione in Italia registra quasi 33.000 decessi e oltre 230.000 casi di contagio. [1]

Agosto-ottobre 1931: con Regio Decreto-Legge del 28/8/1931, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia dell’8/10/1931, all’articolo 18, viene chiesto ai professori di ruolo e ai professori incaricati delle Università del Regno di giurare fedeltà al Re e ai suoi Reali successori e al Regime fascista.

Giorgio Agamben, in un articolo del 23 maggio scorso, scrive: “I professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono”.[2]

Con il DPCM del 9 marzo l’Italia diventa un’unica "zona protetta": si avvia una fase delle restrizioni delle libertà personali dovute al diritto prioritario di difendere la salute dei cittadini e, in particolare, come è stato chiaro fin dalle prime vittime, di quelli più esposti agli effetti letali del virus. In tale contesto si dispone altresì sull’intero territorio nazionale la sospensione delle attività didattiche. È di tutta evidenza, infatti, che il virus abbia vita facile in caso di vicinanza di persone: le scuole e le aule universitarie sono, perciò, tra i luoghi d’elezione della diffusione del contagio.

La conseguenza del decreto è una sospensione dei diritti fondamentali del cittadino che viene limitato negli spostamenti, nella libertà di associazione, nella possibilità di frequentare qualsiasi spazio che non sia quello della propria casa e di incontrare non solo amici e conoscenti ma anche fidanzati e addirittura parenti.

È lo stato di quarantena.

A tutti è chiesto uno sforzo enorme per contenere il contagio. Non si pretende alcun giuramento al governo né a un partito: soltanto il rispetto del protocollo di sicurezza e delle regole di distanziamento sociale. E non per rafforzare un sistema totalitario, ma per consentire a tutti di salvare i propri diritti per il futuro, rimanendo vivi.

Sono norme ostiche, difficili da seguire, anacronistiche, considerati i tempi nuovi; per costringere a rispettarle, si erogano sanzioni a chi trasgredisce. Nessun provvedimento è previsto, in questa fase, per i docenti della scuola di qualsiasi ordine e grado, primaria, secondaria e universitaria che rifiutino di lavorare on line. Al fine di garantire agli studenti la continuità didattica, di consentire la presenza degli insegnanti in un momento delicato per la loro crescita e di non lasciarli in balia di paure, ansie e interrogativi senza risposte, i diversi istituti avviano corsi di formazione, modalità di insegnamento a distanza, estenuanti dibattiti interni al corpo docenti, collegamenti alle chat o ai canali digitali 24 ore su 24. È un incubo, ma lo si accetta perché rappresenta un nulla rispetto alla situazione di chi sta vivendo in prima persona l’emergenza, col suo carico di malati e di morti. Ogni cittadino si sente chiamato a fare la propria parte: l’epidemia è storia che riguarda tutti.

Con il discorso del 3 gennaio 1925, dopo l’assunzione della responsabilità politica, morale e storica dell’assassinio Matteotti, il governo si trasforma in un vero regime: si avvia una fase che dal 1925 al 1929 vedrà una serie di leggi che, con il fine non di proteggere gli Italiani dagli effetti di una pestilenza o di una guerra o di qualsiasi altra catastrofe naturale, ma di attuare la completa fascistizzazione del paese, annullano progressivamente le libertà fondamentali e in cui lo sforzo prioritario di Mussolini è di annientare ogni ostacolo si frapponga alla realizzazione del suo disegno.

Il capo del governo è reso responsabile solo di fronte al re e non più al Parlamento, che viene svuotato progressivamente di ogni reale potere; sono messi fuori legge tutti i partiti eccetto quello fascista; chiusi tutti i giornali non allineati col governo; reintrodotta la pena di morte per reati contro lo Stato e i suoi rappresentanti, abolita nel 1889 dal codice Zanardelli; istituito il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato; introdotto il confino di polizia per gli oppositori; creata l’OVRA per controllare e reprimere il dissenso. Non si salva neppure la monarchia che Mussolini cerca di privare delle sue prerogative per assicurare tutto il potere al fascismo.

In questo disegno d’ingerenza in ogni sfera della vita dello Stato s’inserisce il tentativo, peraltro formalmente riuscito, della sua classe dirigente intellettuale. Dopo aver irreggimentato ogni settore dell’educazione e dell’istruzione e dopo quella riforma gentiliana del 1923 definita la più fascista delle riforme, si apre la strada per colpire la libertà d’insegnamento e portare a compimento il tentativo di annientare qualsiasi voce dissonante nel paese.

Ai docenti non viene chiesto semplicemente di insegnare la propria disciplina, ma di farlo consapevoli che qualsiasi espressione libera di dissenso nei confronti del fascismo sarebbe stata punita. Nel 1924 avevano dovuto giurare fedeltà al Re, allo Statuto e alle altre Leggi dello Stato cosa che, pur con qualche riserva mentale, era stato però accettato senza troppi traumi; nel 1931 il giuramento è diverso: ai docenti universitari (a quelli delle superiori era già accaduto qualche anno prima) si chiede col regime. L’identificazione tra Stato e fascismo deve essere totale e riguardare tutti, soprattutto la parte più colta e critica dell’Italia: solo così, nell’asservimento delle sue intelligenze, quelle che sole avrebbero potuto denunciare la brutalità e la volgarità di un sistema antidemocratico, violento e liberticida, si sarebbe ottenuta la resa delle coscienze. Di tutte le coscienze. A partire da quelle deputate, per natura e statuto, a essere autonome e a chiamare alla libertà le altre più passive, ignave, timorose, indifferenti.

Quello dei professori universitari non è, perciò, un semplice giuramento alle istituzioni, ma a un regime politico, a un’ideologia.

Al fascismo non basta più piegare i corpi, vuole le anime.

Con il DPCM del 10 aprile 2020 si è formalizzato il ricorso alla didattica a distanza e stabilito il prolungamento della sospensione delle attività didattiche per ogni ordine e grado. Non è stata chiesta alcuna dichiarazione in cui si sostenga la politica del governo o si escluda la possibilità di critica.

Nel 1931, il giuramento di più di mille e duecento professori è, dunque, una vittoria indiscutibile che accresce il prestigio del regime sullo scacchiere internazionale, tacitando voci diverse.

Nel 2020 la Didattica a Distanza è sicuramente uno dei temi di maggiore fragilità e di esposizione a critiche del Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca: la sottolineatura della confusione di norme, ritardi, rinvii e la fu
mosità sugli impegni successivi, tra scrutini ed esami, non ha di certo accresciuto il prestigio del governo, anzi lo ha decisamente indebolito.

Tra i dodici professori che, secondo la relazione del Ministro dell’Educazione nazionale, Balbino Giuliano, presentata al Consiglio dei Ministri, il 19 dicembre 1932, non giurarono (il numero non è certo e oscilla dai dodici, di cui scrivono Giorgio Boatti nel suo libro Preferirei di noe Helmut Goetz nell’opera “Il giuramento rifiutato. Docenti universitari e il regime fascistaai quindici/sedici che comprendono altri estromessi prima o dopo il ‘31) e quelli che hanno rifiutato di seguire la didattica a distanza o che lo faranno per il prossimo anno c’è davvero la stessa percezione del pericolo, la medesima angoscia per la certezza delle inevitabili punizioni?

La Didattica a Distanza presenta numerosi limiti e alla maggioranza dei docenti, com’è possibile verificare a chi si prenda la briga di dialogare con loro, non piace. Non piace perché la scuola è socialità, dibattito, interlocuzione, impegno relazionale, incontro d’intelligenze, scontro di visioni. Quale docente potrebbe mai preferire una lezione che si fa a uno schermo muto e asettico, che ne distorce mimica, indebolisce vis eloquendi e allenta pensieri, con una platea di ragazzi che potrebbe essere attenta ma anche riservare sorprese spiacevoli, registrazioni pericolose, prese in giro e sberleffi di ogni tipo? A quale essere umano potrebbe star bene spiegare la Critica della Ragion pura senza riuscire a utilizzare il linguaggio vivo della realtà, senza il ricorso a questioni e interrogativi, senza poter leggere sui volti interesse, curiosità, stanchezza e noia? Siamo esseri sociali, abituati a modulare il tono della voce, il registro linguistico, la forma della comunicazione sulla base di ciò che leggiamo sul viso di chi ci sta di fronte. Ai docenti, che stanno lavorando ininterrottamente, partecipato a corsi di formazione, preparato lezioni molto più impegnative di quelle frontali, fatto consigli-non-consigli, collegi-non-collegi, in un clima di totale sospensione dei diritti, si è chiesto un comportamento responsabile non in nome di un progetto politico ma di un’emergenza sanitaria.

Non si può, altresì, non prendere atto delle criticità emerse:

la DaD è una misura extra-ordinaria per una situazione extra-ordinaria: non si può pensare di equiparare un’ora di lezione frontale in aula con un’ora di diretta che richiede un intenso sforzo attentivo e una adattabilità non comune a tutti, considerando i limiti relazionali della comunicazione digitale;

il carico di lavoro per i ragazzi non è diminuito, solo peggiorato;

molti studenti hanno seri e irrimediabili (perché relativi all’organizzazione sui territori e al budget familiare disponibile) problemi di connessione che non possono essere accantonati, perché prefigurano situazioni di discriminazione;

si era, inizialmente, invitato ad agire nell’ottica del “sed multum non multa”. Col passare dei giorni, si è sempre più abbandonato il criterio formativo per fare spazio a quello sommativo, arrivando a un maggiore controllo sulle ore da svolgere e, in molti casi, a farle corrispondere numericamente a quelle del normale orario di servizio. La DaD è diventata, così, un pessimo surrogato della didattica tradizionale, con buona pace dello spirito sperimentale, esplorativo e “aperto” con cui si era, quando avviata, cercato di giustificarla;

gli studenti delle classi terminali hanno chiesto per settimane chiarezza sulle modalità d’esame, avvolte nella nebbia delle incertezze e che solo pochi giorni fa sono state affrontate con un’ordinanza che è arrivata a ridosso della prova più importante della loro vita scolastica;

tutti, inoltre, anche quelli delle classi intermedie, hanno invocato coerenza: i continui cambiamenti destabilizzano gli studenti come destabilizzano i docenti, continuamente “sospesi” sul da farsi.

A tali criticità è da aggiungere la non tanto remota eventualità che la DaD possa lentamente erodere diritti conquistati nel tempo, sottoponendo, è vero, a una sorta di dittatura soft che potrebbe richiedere prestazioni lavorative anche quando non si è in servizio.

Ora, sicuramente, abbiamo vissuto e stiamo vivendo una stagione difficile, in cui alla confusione si aggiunge la preoccupazione sul futuro: accanto alle voci di tanti intellettuali che rilevano l’aberrazione di una didattica a distanza come esatto opposto di ciò che dovrebbe essere un rapporto educativo profondo e realmente efficace, si rileva altresì il silenzio di chi, evitando di esporsi, è andato avanti, ascoltando e facendo, senza offrire alcuna riflessione critica, spesso dando esempio di uno stachanovismo deleterio per un’analisi a più voci.

È altrettanto vero, però, e deve essere ricordato onestamente, che c’è stato anche chi ha respinto ogni invito a lavorare on line e non per spirito critico o ribellione ma perché, in fondo, era preferibile rimanere in quel limbo. Scelta legittima, ma paragonarla a quella di un Ernesto Bonaiuti o di un Mario Carrara o di un Piero Martinetti sembra azzardato e riduttivo per Bonaiuti, Carrara e Martinetti. Oltre alle rappresaglie che dovettero subire in vita con la perdita della cattedra, alle ripercussioni economiche e familiari, all’ostracismo sociale, all’oblio in cui sono stati sepolti nel loro tempo e alla damnatio memoriae successiva, finalizzata a oscurare la codardia di chi firmò, è veramente una beffa che siano presi come modelli per chiamare eroi coloro che oggi, senza correre alcun rischio e in una condizione di dibattito democratico, rifiutano di adottare la DaD.

È evidente che sia necessaria una discussione seria soprattutto per il prossimo anno scolastico per rivedere l’intera organizzazione della didattica on line (in realtà sarebbe necessaria su tutto l’impianto di una scuola che si muove da anni in una logica aziendalistica mortificante per le sue reali finalità e in cui i docenti, invece di dedicare il tempo a studiare e a ricercare, sono costretti a compilare carte su carte che nessuno legge ma che tutti richiedono) che, nelle evidenti e non celate difficoltà, ha comunque rappresentato una modalità utile per gestire l’emergenza. L’alternativa, d’altronde, è necessario e onesto domandarsi, quale sarebbe stata? Il silenzio della scuola, la rottura del patto formativo e della continuità di rapporti tra docenti e studenti? L’indifferenza al destino dei propri alunni da parte di insegnanti che svolgono anche un ruolo di collettori di umanità, di mediatori di conflitti e di rassicuratori di ansie e di paure?

Il paragone di Agamben riguarda chiaramente i professori universitari ma lambisce tutti i docenti e può essere assunto, provocatoriamente, come chiamata alla resistenza a non cedere terreno di front
e all’avanzare acritico delle TIC e a considerare l’acquiescenza di tanti giuranti del ’31 come il comportamento conseguente a un allentamento del pensiero critico possibile in qualsiasi tempo e momento storico, ma non si può neppure accettare questo monito dogmaticamente e non calarlo in un contesto storico profondamente diverso e in continua evoluzione. È del 26 maggio, infatti, la precisazione che a settembre si tornerà, rebus sic stantibus, alla didattica in presenza.


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D’altronde la domanda che pure non possiamo non farci, considerata la non certo alta considerazione sociale riservata alla categoria docente nell’attuale società civile, riguarda il modo in cui sarebbero stati percepiti e si sarebbero sentiti gli insegnanti se, in un clima di dolore, di sofferenza, d’impegno straordinario da parte di operatori sanitari, farmacisti, commessi, lavoratori dei vari settori aperti, fossero stati inattivi. Non è solo il fatto di essere soggetti alla riprovazione sociale (il che non è del tutto ininfluente perché il docente rappresenta, nonostante tutto, un esempio per molti studenti), quanto di dover giustificare a se stessi di non aver cercato di dare un contributo: c’è qualcosa in ognuno di noi che ci fa immediatamente capire se stiamo facendo la cosa giusta o la cosa sbagliata e credo che, in una situazione grave come quella che abbiamo vissuto, la cosa giusta sarebbe stata impegnarsi, con tutti i limiti di una modalità non ordinaria, piuttosto che ritirarsi in un eremo, nobile e comodo, ma lontano dai ragazzi e dalla necessità di non interrompere il loro percorso, fosse concludere l’anno scolastico, sostenere l’esame di stato o riuscire a laurearsi.

NOTE

[1] Ministero della Salute, Covid-19 – Situazione in Italia, su salute.gov.it. URL consultato il 24 marzo 2020.

[2] https://alcesteilblog.blogspot.com/2020/05/requiem-per-gli-studenti-giorgio-agamben.html




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