Didattica a distanza ed equivoci digitali

Carlo Scognamiglio



Oltrepassato il varco temporale e psicologico del primo mese dall’interruzione della didattica in presenza, si predispongono le condizioni per una conclusione inedita dell’anno scolastico, e non si intravede certezza alcuna per il rientro autunnale. E fino alla fine di agosto, sarà improbabile avere notizie fondate. La scuola italiana continua nella modalità a distanza, con uno sforzo non omogeneo nel garantire l’effettiva e non formale validità dell’anno scolastico. Il 26 marzo il Ministero dell’Istruzione si è attivato con un finanziamento di 85 milioni per consentire alle scuole di dotarsi di piattaforme per la didattica a distanza, per formare il personale scolastico e rendere disponibili computer e tablet, da destinare a tutti quegli studenti che, come emerso dal monitoraggio effettuato dalle scuole, ne risultavano sprovvisti. A questi fondi sono stati aggiunti, il 17 aprile, altri 80 milioni derivati dai fondi PON “Per la scuola”. Rispetto ai tempi di reale consegna delle dotazioni individuali per poter partecipare alle attività scolastiche, capiremo l’efficacia dell’intervento nelle prossime settimane. Ma indubbiamente il Ministero ha rapidamente predisposto i finanziamenti, e oggettivamente si trattava di un atto dovuto. La scuola è un obbligo, oltre che un diritto. Se la devo frequentare a distanza, tocca allo Stato mettermi in condizioni di poterlo fare.

Oltre ai dispositivi, sussiste tuttavia un problema di connessione. Ci sono aree del Paese dove le informazioni viaggiano sulla littorina, e sebbene le principali compagnie telefoniche abbiano garantito la possibilità di ricevere Giga gratuiti, le cose non sempre procedono per il verso giusto. Persino il sottoscritto, titolare di un contratto telefonico perfettamente in regola con i requisiti di massima prestazione, vivendo in una città come Roma, ha visto comparire più volte sul proprio schermo la notifica: “connessione instabile”. Figuriamoci altrove.

Nonostante la dignitosa reazione, occorre segnalare che anche per quanto concerne l’amministrazione scolastica, come probabilmente accaduto nell’organizzazione sanitaria, il sistema pubblico è stato sorpreso in una condizione di sostanziale impreparazione.

Negli ultimi anni i governi hanno distribuito risorse per gli animatori digitali, per funzioni strumentali responsabili della digitalizzazione, per piani di aggiornamento del personale. In molte scuole i docenti che hanno dato la propria disponibilità a ricoprire tali funzioni, si sono fatti carico di supervisionare le acquisizioni di materiale informatico, di monitorare la Rete, il registro elettronico e quant’altro. Tutto in virtù del Piano Nazionale Scuola Digitale, definito un “pilastro fondamentale” de La Buona Scuola.

Ma chi ha mai realmente monitorato l’azione e le competenze degli animatori digitali? Il piano nazionale prevede un sistema di rendicontazione, che però si presenta come una mera auto-dichiarazione, una descrizione su come i fondi sono stati utilizzati, non un controllo sull’efficacia del lavoro svolto. E alcune voci di questo format sono talmente generiche da poter giustificare anche un uso dei fondi non ben canalizzato (ad esempio, tra i giustificativi di spesa si legge: “Percorso di sensibilizzazione sul corretto uso ICT”, oppure “Attività di collaborazione scuola-famiglia”, e non manca la solita opzione: “Altro”). Non sono sicuro che esistano o siano ipotizzabili sistemi di controllo più stringenti, e certamente colleghi di mezza Italia mi raccontano che molti docenti individuati come animatori digitali sono assai informati e capaci di promuovere una condivisione del loro know how all’interno delle scuole. Ma ce ne sono anche altri che ben poco hanno saputo o voluto fare per favorire una certa consuetudine degli insegnanti con alcune delle applicazioni che oggi si sono rivelate ineludibili.

E infatti nel mese di marzo è partita l’auto-formazione a distanza dei docenti, un po’ raffazzonata, nonostante le . Probabilmente (azzarderei un’ipotesi) sarebbe stato utile effettuare per tempo un serio controllo sulla ricaduta degli investimenti del PNSD. Un monitoraggio leggermente più accorto, avrebbe forse constatato che alcune scuole avevano più necessità di altre. Che magari erano stati acquistati tanti pc e molte LIM, ma che nessuno si era realmente premurato di promuovere una maggiore consapevolezza nell’uso di queste tecnologie, sia tra gli insegnanti che tra gli studenti.

Durante l’emergenza, inoltre, ciascun istituto ha adottato piattaforme di gestione della didattica a distanza sulla base dei gusti e delle conoscenze del proprio staff digitale; alcuni docenti hanno preferito questo o quello, e i medesimi insegnanti per un mese hanno lavorato su una piattaforma, e il mese dopo sulla successiva. Tanta confusione per le famiglie, tanti buoni affari per le multinazionali che gestiscono i dati. Molti problemi di privacy, poca pianificazione. In tutto ciò, i privati che in questi anni hanno ricevuto ingenti finanziamenti ministeriali per dotare le scuole di registro elettronico, non sono stati in grado di mettere a disposizione piattaforme efficaci per la condivisione dei materiali o per video-lezioni. Anche qui: tanti soldi pubblici spesi, per poi – al momento del bisogno – cedere tutte le informazioni dei nostri studenti a Google. Non sono un esperto, ma è mai possibile che con le stesse risorse non fosse possibile creare una piattaforma unica ministeriale? Uno spazio pubblico per una gestione pubblica delle informazioni personali?

Ma torniamo ai nostri guai. Per essere onesti, le competenze informatiche sono previste dal contratto di lavoro degli insegnanti, e costituiscono una porzione significativa del punteggio nei nuovi concorsi a cattedra. Se quelle competenze non erano richieste trent’anni fa, oggi il contratto le prevede (art. 27 c. 1): compito del datore di lavoro, e anche del singolo lavoratore, dev’essere l’adeguamento alle esigenze professionali. Tuttavia, per un effettivo recupero di competenze digitali di base, non è possibile – come è stato preteso in passato – seguire qualche corsetto pomeridiano dopo una giornata di attività scolastiche. Sarebbe necessario infatti impossessarsi di alcune conoscenze basilari per poter poi acquisire quella flessibilità tecnica, implicata da una prospettiva di aggiornamento permanente. Occorrerebbe un anno o almeno un semestre sabbatico. Diversamente, siamo alla solita scelta strategica: le nozze coi fichi secchi.

In ogni caso, un po’ di pigrizia o di diffidenza, rispetto al digitale, è radicata anche tra i docenti. È un fattore culturale che è inutile nascondere, occorre saper fare i conti anche con questo, se si vuole essere onesti. Ancora adesso, si leggono affermazioni apocalittiche e regressive, come quelle di Patrizia Buffa in un suo articolo recente, in cui si legge con dubbio senso del limite: “Il nuovo Moloch sono le piattaforme, le connessioni, le videoconferenze: non-luoghi, non-classi, non-relazioni. L
a connessione non avvicina, ma divide, non crea comunità, ma segmentazione, non accomuna
”.

La discussione tra la didattica “digitale” e la didattica “senza digitale” è una discussione superata. Ma non lo è da oggi, lo è da almeno quindici anni. La connettività è un dato probabilmente irreversibile della nostra società, occorre prenderne atto. La formazione dell’individuo passa anche e soprattutto attraverso azioni e strumenti nient’affatto digitali, ma quell’aspetto del processo educativo, fosse anche, o soltanto, per una consapevole abituazione all’utilizzo di strumenti e linguaggi della Rete, o della programmazione, non possono essere trascurati, sarebbe una grave lacuna pedagogica, come mi è capitato di ricordare in un mio , a commento delle tesi espresse da Alessandro Baricco nel saggio The Game.

Ho letto da qualche parte che l’attivazione in emergenza della DAD può essere considerata una scelta pretestuosa, e che in fondo siamo stati senza scuola anche durante la guerra, e avremmo potuto chiudere subito l’anno scolastico, senza gravi conseguenze. Può anche darsi che qualcuno concepisca l’occasione della pandemia come un pretesto per implementare un’accelerazione digitale. Ma è anche vero che molti la usano strumentalmente quale trampolino per ottenere facile visibilità e consenso, agitando complotti e pericoli catastrofici. Del tutto inappropriato è però l’esempio del “tempo di guerra”, quando la nostra società era dichiaratamente classista, e scarso effetto poteva avere sulla sensibilità collettiva la consapevolezza che mentre il figlio del borghese – in casa – era istruito a dovere, i contadini trascorrevano quei mesi nei campi e tra le bestie. All’epoca andava bene così: eredità di una società – in certe parti d’Italia – ancora culturalmente feudale. Debole o nulla la consapevolezza sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e, tanto per ricordarlo, non c’era ancora la Costituzione. Ma lasciamo stare il paragone con la guerra, che appare “sconcio” da molti punti di vista.

Il problema vero, da non eludere, è quello del digital divide, che esiste, e presto dovrebbe condurre a una revisione costituzionale. Tale divario separa nella società una porzione esigua di persone capaci di agire, creare e influire sui processi informazionali, da un’altra parte, che ne è completamente esclusa, con in mezzo un mare di soggetti intermedi, che fruiscono passivamente dei benefici di alcune applicazioni, senza comprenderne scopo, regole e struttura. I soggetti più a rischio, in realtà, sono proprio questi ultimi, perché sono agiti credendosi attori.

Ad ogni modo, il divario digitale sorge da due ordini di ragioni: una infrastrutturale, e un’altra culturale. Ci sono infatti settori della popolazione che non possono accedere alla Rete perché il sistema delle comunicazioni non raggiunge in modo efficace tutte le aree del Paese, o perché le condizioni socio-economiche impediscono ad alcune famiglie di firmare contratti di telefonia fissa o mobile, o di possedere i dispositivi necessari a un’adeguata partecipazione alla società digitale. Ma esiste anche un divario culturale, più complesso e stratificato. Una piccola porzione delle famiglie non utilizza per scelta, se non minimamente, le risorse online, in virtù di una forma di diffidenza nei confronti della tecnologia che può essere legata a un alto livello di istruzione (lo potremmo chiamare “snobismo” digitale o nostalgia analogica), ma assai più spesso per un livello di istruzione che è troppo basso per comprendere l’importanza del mezzo, e anche come utilizzarlo. Infatti l’espressione digital divide non si riferisce solo all’accesso o al possesso di strumenti digitali, bensì anche e soprattutto alle risorse culturali che un soggetto possiede o è in grado di procurarsi per muoversi con consapevolezza sulle piattaforme in Internet. Esiste poi un divario intergenerazionale (particolarmente grave in questa fase storica, poiché molto utile sarebbe per i più anziani saper usare con agilità le risorse di Rete in un momento di solitudine o limitata mobilità), un divario linguistico-culturale, che colpisce soprattutto gli immigrati, per i quali comprendere norme, modulistica o altre fonti di informazioni nel paese ospitante, ma anche partecipare banalmente alla vita sociale in Rete, è particolarmente escludente. Ma esistono anche forme di divario digitale legato alle condizioni di disabilità. Non a caso nel mondo no profit statunitense è stata coniata l’espressione digital inclusion.

Il punto è che tale forma di disuguaglianza, qualunque sia la sua origine, produce un processo di discriminazione in riferimento ai diritti esercitabili online, e ad accentua (soprattutto in prospettiva lavorativa) il divario socio-economico e culturale. Ricerche sociologiche hanno ormai superato il pregiudizio in base al quale l’iper-connettività determini forme di isolamento. È vero esattamente il contrario: il digitale viene definito, in modo poco gradevole, un moltiplicatore di “capitale sociale”, ma non occorre uno scienziato per intuire che nella società contemporanea rimarrà più isolato, linguisticamente, culturalmente, simbolicamente, razionalmente, chi si tirerà fuori o, peggio, verrà lasciato fuori dalla Rete. Luciano Floridi lo ha spiegato bene: non siamo noi che andiamo online, ma la rete è onlife. Penetra tutti gli aspetti della nostra vita. Gli oggetti che ci circondano sono in Rete. E allora bisogna capire che la distinzione tra reale e virtuale è subdola. Reale è tutto ciò che produce effetti. E allora il virtuale è una modalità del reale, e quel che accade “in presenza”, ha sempre – ormai – una sua tracciabilità in Rete. Hegelianamente, potremmo dire che in un certo senso tutto ciò che è virtuale è reale, e tutto ciò che è reale è virtuale.

Le relazioni in presenza sono oggettivamente diverse, e a mio parere molto più appaganti di quelle a distanza. Il valore del contatto, della prossemica, della ricchezza del mettersi in gioco in presenza, è incalcolabile. Ma è concettualmente sbagliato ricorrere alla contrapposizione reale-irreale. Anche quando scrivo una lettera, telefono a qualcuno, o converso in video-chiamata, sono immerso in una relazione sociale, umana e reale. Le relazioni a distanza sono relazioni, anche quelle didattiche. Altrimenti significherebbe negare d’un colpo l’importanza della formazione degli studenti ospedalizzati, che vengono spesso e pazientemente istruiti a distanza. Ma questo è un tema complesso, su cui dovremo necessariamente tornare in un successivo approfondimento.

Il dibattito scientifico è incerto sull’evoluzione del digital divide. Alcuni ricercatori confidano su un processo di “normalizzazione” in base al quale con il tempo si assottiglierà il divario, per necessità di cose, così come è accaduto con l’istruzione di massa. Secondo un’ipotesi diversa, invece, quando una parte della popolazione avrà recuperato lo svantaggio iniziale, gli altri saranno decollati verso nuovi approdi, determinando una rinnovata “stra
tificazione” delle diseguaglianze. Fatto sta che oggi la normativa internazionale ha le idee abbastanza chiare su quanto sta avvenendo. Da molti anni c’è la consapevolezza giuridica e costituzionale che il divario digitale è un vulnus rispetto all’accesso ai diritti. Già in una sentenza del Giudice di Pace di Trieste del 2012 si leggeva: “Ormai da tempo la giurisprudenza è orientata nel ritenere che il distacco o il mancato allaccio della linea telefonica e internet costituiscano un danno patrimoniale e esistenziale per il titolare del contratto e della sua famiglia, danno considerato particolarmente grave in un’epoca in cui la comunicazione è fondamentale in ogni aspetto della vita quotidiana” (Sentenza n. 587 del 30 luglio 2012). E Consiglio dei diritti universali dell’ONU in una sua risoluzione definisce Internet un diritto fondamentale, ricompreso nell’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Non a caso il think tank “Cultura Democratica” ha proposto l’introduzione nella Costituzione Italiana dell’articolo 34-bis: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in modo neutrale, in condizione di parità e con modalità tecnologicamente adeguate. La Repubblica promuove le condizioni che rendano effettivo l’accesso alla rete Internet come luogo ove si svolge la personalità umana, si esercitano i diritti e si adempiono i doveri di solidarietà politica, economica e sociale».

E allora vediamoli questi dati sul divario digitale in Italia. In base alle ricerche DESI del 2018, l’accesso alla banda larga fissa in Italia si limita al 22% della popolazione, e l’uso di Internet al 69%. I numeri dell’Istat citati ormai da tutte le fonti giornalistiche di questi giorni, fotografano inoltre una situazione in cui il 34% delle famiglie non possiede né un PC né un Tablet, una percentuale che scende però al 12,3% in famiglie in cui sono presenti minori tra i 6 e i 17 anni. Di quelli che però ne posseggono almeno uno in casa, il 57% deve condividerlo. Secondo i dati raccolti da Skuola.net, inoltre, il 61% degli studenti può contare su un tipo di connessione che non permette di seguire video lezioni senza interruzioni o blocchi.

Questi dati ci raccontano un’Italia che per molti versi segna il passo rispetto ad altri paesi europei.

Tuttavia dobbiamo essere ricercatori più meticolosi, per avere un quadro completo. Wired Italia infatti ha constatato che l’Italia è il terzo paese al mondo (dopo Corea del Sud e Hong-Kong) per possesso e uso di telefonia mobile, cui si ricorre per accedere a Internet, nella fascia 15-17 anni, con una percentuale del 94,7% (Giovani.stat). Quindi quei dati Istat riportati in questi giorni da tutti i quotidiani nazionali, da soli non dicono molto, se non li incrociamo con questi ultimi. E cercando tali misure, ho anche scoperto che quasi dieci anni fa l’utilizzo del cellulare per andare su Internet (dati Istat del 2011) riguardava ben l’82,7 per cento dei giovani nella fascia 11-17 anni.

Cosa ne possiamo dedurre? Che certamente sulla didattica a distanza c’è un grande equivoco, perché la si confonde e sovrappone con le video-lezioni, mentre invece esistono molte altre modalità di mantenere aperto il dialogo didattico anche solo con lo smartphone, con scarso impatto sulla Rete. Le attività sincrone sono una risorsa senz’altro utile e interessante per mantenere viva la relazione insegnante-studenti, e anche una certa socialità tra compagni di classe. Ma non dovrebbero costituire il cuore della didattica a distanza. Come ha infatti segnalato l’Autorità Garante per i diritti dell’Infanzia e l’Adolescenza (AGIA), si possono utilizzare quegli strumenti per un confronto, per discutere insieme, o per un semplice momento di socialità. Senza esagerare. Preferibile infatti, in ordine a uno spirito realmente partecipativo, privilegiare la presentazione asincrona dei contenuti didattici, ricorrendo a file audio o video, fruibili in qualsiasi momento della giornata, anche più volte. I libri, inoltre, restano un bene irrinunciabile. Ma l’importante è soprattutto richiedere e ricevere rielaborazioni personali delle proposte didattiche, cui rispondere meticolosamente con osservazioni, correzioni, commenti, incoraggiamenti.

Sulla base di queste premesse, risulta evidente la natura fuorviante di una didattica a distanza come prevalentemente o esclusivamente costruita attraverso iniziative a elevato impatto tecnologico. Una sensibilità “inclusiva”, per ricorrere a un’espressione spesso evocata retoricamente, dovrebbe riconoscere come un errore pedagogico – prima che didattico – quello di privilegiare le attività sincrone in video-lezione.

Ed escludere qualcuno, adesso più che mai, sarebbe la nostra peggiore lezione.

(28 aprile 2020)

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