Difendere gli intellettuali. Il dovere dell’Europa nelle democrazie a rischio

Elif Shafak

Il monito della scrittrice turca Elif Shafak: “La libertà di pensiero non è scontata, se non alziamo la voce rischiamo di lasciare i nostri Paesi ad autocrati e demagoghi. Un Paese che odia i propri intellettuali è un Paese infelice. E la Turchia, che è la mia patria, è tra questi”.

, da Repubblica, 17 luglio 2017

Un Paese che odia i propri intellettuali è un Paese infelice. E la Turchia, che è la mia patria, è tra questi. Sempre più spesso gli intellettuali vengono demonizzati sui media filo-governativi, derisi sui social, accusati di essere “traditori” e “collaborare con le potenze occidentali” e quindi processati, incarcerati o esiliati. Ma di certo non ignorati.

La Turchia, così come la Russia, ha sempre preso sul serio i propri intellettuali — facendoli soffrire perché osano pensare diversamente.

Qui, nel Regno Unito, le cose sono ben diverse: la libertà di parola trionfa e la democrazia è solida. Gli scrittori che affrontano temi controversi non rischiano la querela. Gli accademici non vengono espulsi a migliaia, e i giornalisti non vengono incarcerati in massa. Rispetto ai loro colleghi turchi, venezuelani, pachistani o cinesi, gli intellettuali britannici godono di una libertà enorme. Ci si aspetterebbe che fossero consapevoli di tale privilegio e prendessero la parola anche a nome di coloro che non possono farlo. Come mai in questo Paese gli intellettuali non sono più numerosi? La risposta la si può trovare nelle parole di uno studioso britannico, che una volta mi disse: «Noi riteniamo che autoproclamarsi intellettuale sia piuttosto arrogante. E che farlo pubblicamente lo sia ancora di più». Quel che a me appare arrogante è invece la presunzione che i Paesi arretrati abbiano bisogno di intellettuali mentre noi, che viviamo nell’Occidente progredito e democratico, siamo superiori a simili “sciocchezze”.

Nel nuovo ordine mondiale di Trump un numero crescente di persone si sta rendendo conto di come diritti e libertà che in Occidente abbiamo dato a lungo per scontati potrebbero richiedere una difesa appassionata e urgente. In quest’epoca di incertezza e di ansia diffuse la politica è troppo spesso guidata dalle emozioni. E il potere di tali emozioni è troppo spesso sottovalutato.
Nella nuova era della storia mondiale in cui ci troviamo, in molte parti del mondo la democrazia liberale è minacciata. Al di là dei confini dell’Europa cova una mentalità pericolosa, secondo la quale “la democrazia non è adatta né per il Medio Oriente né per l’Oriente”.

Gli isolazionisti propongono nuovi modelli sociali secondo i quali democrazia, diritti umani e libertà di parola sarebbero superflui, mentre l’unica cosa che conta è la stabilità economica. Non capiscono che le nazioni non democratiche sono profondamente infelici e assolutamente incapaci di raggiungere la stabilità.

Turchia, Ungheria e Polonia dimostrano che la democrazia è più fragile di quanto pensassimo: non si tratta di un bene materiale di cui alcuni Paesi dispongono e altri no, bensì di un ecosistema che esige di essere continuamente protetto, nutrito e curato. E che oggi, di fronte ai movimenti populisti e ai discorsi tribalisti, è minacciato.

La Turchia rappresenta un fulgido esempio di come un Paese possa compiere passi indietro a una velocità sorprendente. E ciò che è accaduto in Turchia può accadere ovunque. A un contesto tanto mutevole occorre opporre una solidarietà e una sorellanza globali, fondate su dei valori democratici condivisi. C’è bisogno di più attivismo e di più intellettuali.

Non dimentichiamo che in Europa l’ascesa dell’intellettuale “pubblico” avvenne in occasione dell’affaire Dreyfus, alla fine del XIX secolo: un’epoca in cui il nazionalismo, il fanatismo nazionalistico e l’isolazionismo erano in forte ascesa. Il J’Accuse, leggendaria risposta di Zola, rappresenta un geniale manifesto di coscienziosità.

Da Hannah Arendt ad Isaiah Berlin, gli intellettuali pubblici insegnavano nelle università perché, oltre a riconoscere il valore di tale istituzione, non avrebbero potuto mantenersi solamente scrivendo libri. Non è vero che quella degli intellettuali è una classe privilegiata. Dobbiamo abbandonare una volta per tutte il luogo comune che descrive gli intellettuali come arroganti e distaccati. Smettiamola di preoccuparci di ciò che gli altri potrebbero dire se rivendicassimo la vitalità dell’intelletto. Abbiamo cose più importanti di cui preoccuparci.

Il declino degli intellettuali, a cui si assiste in tutto il mondo, è un brutto segno che non farà che facilitare le cose ai demagoghi e agli autocrati ed accelerare il crollo della democrazia liberale pluralistica e dell’internazionalismo.

L’assenza di intellettuali ci catapulterà in un mondo di opposti: “noi” contro di “loro”. Le posizioni intermedie scompariranno. Già adesso possiamo vedere i primi indizi di questa tendenza: su ogni tema di rilievo viene imposta una polarizzazione artificiosa. Nei dibattiti pubblici, in tv e non solo, un esperto ateo viene messo a confronto con uno teista; un sostenitore della Brexit viene affiancato ad un suo detrattore; un “islamofobo” è invitato insieme ad un musulmano ortodosso e via dicendo. Da quando in qua il mondo è così bianco- o-nero?

Un intellettuale è una persona che sfida le opposizioni binarie, colma i divari culturali, possiede una flessibilità cognitiva tale da permettergli di collegare tra loro discipline diverse e difende strenuamente un modo di pensare ricco di sfumature.
Gli intellettuali dovrebbero dar prova di coraggio e far sentire la loro voce. Essere anche offensivi, se necessario. È giunto il momento di smetterla di denigrare gli intellettuali. Se non altro, per riguardo nei confronti di tutti quegli intellettuali che, in altre parti del mondo, pagano un prezzo molto caro per svolgere il loro ruolo.

© Elif Shafak — The Guardian (Traduzione di Marzia Porta)

Elif Shafak è una scrittrice, tra le più importanti in Turchia. I suoi libri sono stati tradotti in oltre trenta lingue

(17 luglio 2017)



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