Diffamazione e carcere per i giornalisti, la Consulta “pressa” la politica per una riforma. Gli scenari (e i rischi)
Lo scorso 9 giugno la Corte costituzionale ha invitato il Parlamento a modificare, entro un anno, le norme relative alla diffamazione e al carcere per i giornalisti. Le associazioni: «Attenzione a non sostituire il carcere con pesanti multe». Riccardo Iacona a MicroMega: «Inserire una penale contro le cause temerarie, chi querela e perde deve pagare».
di Daniele Nalbone
Lo scorso 9 giugno la Corte costituzionale, al termine di un’udienza pubblica in merito alla legittimità dell’articolo 595 del Codice penale e dell’articolo 13 della legge della stampa (47/1948) ha “invitato” il Parlamento a modificare le norme. Pur considerando necessaria «una complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero» e «la tutela della reputazione della persona», la Consulta ha rilevato l’urgenza di una rimodulazione di questo bilanciamento «alla luce delle indicazioni della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo» per tutelare adeguatamente la libertà dei media.
Di fatto la Corte costituzionale ha spostato la decisione finale di un anno: se il Parlamento non avrà cambiato la legislazione entro il 22 giugno 2021 sarà direttamente la Consulta ad abolire le pene carcerarie previste per il reato di diffamazione. Palla alla politica, quindi, che dovrà accelerare la riforma calendarizzando i diversi disegni di legge in materia che attualmente sono all’esame del Senato.
Attenzione, però: il rischio che questa decisione della Consulta – affidandosi alla politica – diventi un boomerang contro la libertà di stampa non è campato in aria. «Ogni nuova norma che sostituisca le pene carcerarie» avvertono dal Media Freedom Rapid Response [i] «dovrà evitare l’introduzione di pene pecuniarie sproporzionate o irragionevoli». E ancora: «Lo spettro di pesanti multe equivarrebbe per le emittenti e le testate giornalistiche alla minaccia di finire sul lastrico e avrebbe sui giornalisti lo stesso potenziale effetto di autocensura delle pene carcerarie».
Per leggere questa decisione della Corte costituzionale, MicroMega ha intervistato Riccardo Iacona, giornalista di inchiesta, autore e conduttore di Presa Diretta.
Come legge la decisione della Corte costituzionale di rinviare la questione a un intervento legislativo del Parlamento?
Il messaggio inviato dalla Corte costituzionale alla politica è sicuramente forte, in difesa del ruolo – sacro – che ha l’informazione che contribuisce, come poche altre professioni, a rendere il tessuto democratico più forte. Non esistono democrazie se si accetta una contrazione della libertà di pensiero. Un conto sono le responsabilità di chi è chiamato a fare un buon giornalismo, l’altro l’uso dei procedimenti giudiziari come mera sanzione. Io leggo nella decisione della Corte soprattutto un segnale in difesa di chi non ha le spalle forti, chi non ha dietro un editore “pesante”.
Perché?
Può sembrare banale dirlo, ma ci sono giornalisti con contratti “giusti”, importanti, che si possono difendere. Ma quella che è forse la parte più vivace dell’informazione è fatta da freelance, da giornalisti che lavorano per testate locali. Lo abbiamo visto anche recentemente: la “notizia” della gestione di Alzano Lombardo nasce prima sui giornali locali per poi rimbalzare sulle testate di quelli che, anche a torto, sono considerati Giornalisti con la G maiuscola. Ma quei giornalisti che hanno scoperchiato il vaso di Pandora possono difendersi con meno forza.
La Corte costituzionale chiama in causa la politica: il Parlamento ha ora un anno di tempo per cambiare la legislazione. Dovrà farlo entro il 22 giugno 2021. Se entro quella data non saranno abolite le pene carcerarie attualmente previste per il reato di diffamazione, allora la Corte interverrà. C’è però un elemento da analizzare: spesso sono proprio i politici a portare in tribunale i giornalisti.
In Italia si vive di conflitti e i politici, in una democrazia limitata come la nostra, non accettano l’ingerenza di altre autonomie: un giornalista che indaga su un politico è lesa maestà. La soluzione, però, ci sarebbe: inserire una penale contro le cause temerarie. Chi porta in tribunale non deve sostenere alcun costo, se non quelli legali, e non corre rischi. E siccome non costa niente, tanto conviene sparare alto per bloccare, per esempio, un’inchiesta sul nascere o la sua diffusione subito dopo la pubblicazione. La maggior parte delle cause mosse contro i giornalisti finisce in un nulla di fatto, ma intanto – magari per anni – il lavoro di un reporter è stato bloccato o quantomeno intimidito. Se invece ci fosse una penale da pagare in caso di “sconfitta”, sarebbe diverso. E si eviterebbe di affollare inutilmente le aule del tribunale. Con Presa Diretta non abbiamo avuto tante querele, ma quelle che ci sono state mosse sono morte prima ancora di arrivare al dibattimento. Però i giudici sono stati costretti a perdere tempo per accuse giudicate nemmeno meritevoli di andare a giudizio.
Il rischio, però, è che per far fronte a una depenalizzazione della diffamazione si vada verso un innalzamento delle sanzioni, non crede?
La sanzione economica, i risarcimenti, sono armi potenti – meno del carcere, certo – ma possono raggiungere lo stesso obiettivo: silenziare un giornalista. Esiste il diritto di replica a favore di chi è oggetto di un’inchiesta, ma dobbiamo anche dire che il giornalismo deve porsi una questione “etica”: la penna, o la telecamera, non può essere usata per infamare le persone inutilmente. Le poche volte che una simile cosa accade toglie credibilità all’intero settore: in un mondo in cui tutto è opinabile, perfino la magistratura, il giornalismo è sempre più ritenuto al servizio di qualcuno. Purtroppo, in Italia mancano gli editori puri. Il risultato è che per azzittire i giornalisti, in un momento in cui l’intero settore vive una difficile sfida economica, basta veramente poco.
Prima ha fatto riferimento all’importanza dei media locali. La “rivoluzione editoriale” innescata dal web ha portato alla nascita di tantissimi siti di informazione. Secondo lei andrebbero riviste le regole del gioco alla luce del fatto che ora, per fare un giornale, basta una connessione internet e un pc?
Partiamo da un presupposto: il giornalismo ha tante sfumature e non per questo è meno prezioso. Tra queste, ritengo che anche il giornalismo di propaganda abbia la sua dignità, penso ai giornali di partito che, quando ero più giovane, raccontavano una parte della realtà che altri non raccontavano, che parlavano a una comunità ben precisa. Ecco, ogni volta che viene stilata una classifica di buoni e cattivi mi vengono i brividi: non esiste un giornalismo di serie A e uno di serie B. Ed è proprio in rete che troviamo voci plurali, spesso su siti di informazione non fatti da giornalisti per come li intendevamo fino a “ieri”, ma che stanno sul territorio, seguono le storie con passione. Dall’altra parte, viviamo una stagione di continui tagli, una vera crisi. Ecco, la domanda da porci dovrebbe essere: chi dovrebbe giudicare cosa è giornalismo e cosa no? L’ordine dei giornalisti? Io direi che prima di preoccuparsi di questo, l’ordine do
vrebbe rimboccarsi veramente le maniche per tutti quei colleghi – migliaia di persone – che fanno questo mestiere senza avere un giusto contratto. Per me l’importante è non superare il limite: c’è una deontologia professionale e questa va rispettata sempre e comunque, è qualcosa di non derogabile. Mai.
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[i] "Consorzio" – il cui progetto è cofinanziato dalla Commissione europea – guidato dal Centro Europeo per la Libertà di Stampa e dei Media (ECPMF) che comprende ARTICLE 19, la Federazione europea dei giornalisti (EFJ), Free Press Unlimited (FPU), l’Istituto per informatica applicata dell’Università di Lipsia (InfAI), l’International Press Institute (IPI) e CCI/Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (OBCT).
(15 giugno 2020)
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