Il carcerato nero ammanettato col carcerato bianco. Bambini di razze diverse che si baciano o siedono sul vasino assieme. L’ebreo ortodosso col cappello e i sidelocks abbracciato al palestinese in kefiah. E infine, più di recente, migranti multietnici in abiti colorati, trasbordati dal gommone alla nave di soccorso nelle acque del Mediterraneo.
Sono decenni che la famiglia Benetton, con le sue campagne pubblicitarie, è protesa al magnanimo sforzo di infrangere le barriere di razza e colore (ma non solo) e di affratellare i diversi, secondo i nobili dettami multicolor della sua variopinta maglieria. Come raffinati mecenati rinascimentali, i de’ Medici da Ponzano Veneto hanno impartito al mondo la loro impronta culturale, imbastendo sulla policromia del tessile tutta una narrativa e una mitologia socio-politica del multicolor è bello, nonché Vero e Buono. Ai recinti mentali di chi vede la realtà in bianco e nero, come le seppie, hanno contrapposto il colorful, che prima ancora di essere una retorica mondialista un po’ patinata, era in origine solo uno stile di abbigliamento.
Non è certo da una seria e ponderata riflessione globalista che nasce il pensiero united colors, bensì dalla scoperta, straniante ed eccitante insieme, che una t-shirt fucsia si sposa benissimo con una mini verde petrolio e che non c’è nulla di vergognoso, anzi!, ad osare il rosso e il rosa nello stesso outfit. Solo col tempo, e col prezioso apporto del marketing pubblicitario, che tutto gonfia e sublima, l’outfit multicolor si è fatto Pensiero, l’abito si è fatto monaco, e quello che all’inizio era semplicemente un gusto per gli abbinamenti cromatici fuori dal comune è diventato un modello ideale di società.
Passano gli anni e i Benetton si espandono, dal tessile alla ristorazione, dall’immobiliare all’agricoltura, fino alle infrastrutture, settore in cui la famiglia controlla il 30% di Autostrade spa attraverso la holding Atlantia. Le loro campagne pubblicitarie sono sempre impregnate dei più alti valori dell’etica sociale (vedi la famiglia riunita al capezzale del congiunto ischeletrito dall’aids, il condannato a morte nero assieme al condannato a morte bianco, o le foto delle vittime delle stragi di mafia, united bloods of Benetton), e i loro sforzi sempre improntati ad ammaestrare il popolo-seppia chiuso nella sua meschina visione bicromica, e a catechizzarlo con i precetti dello stile Mix&match.
Portare l’etica nella pubblicità, unificando ciò che è diviso, gettando un ponte ideale tra versanti opposti, questa è l’augustea missione dei Benetton, almeno sulla carta (e sui cartelloni). Poi, una mattina di agosto, un ponte ‒ reale ‒ crolla: il ponte Morandi di Genova, il viadotto sul fiume Polcevera, quello che univa i quartieri di Sampierdarena e Cornigliano, e, più ancora, il Nord-Italia al Sud della Francia. Una città, un’autostrada (in concessione ad Autostrade spa, quindi anche ai Benetton) e un’intera area geografica si ritrovano improvvisamente divise, e mortalmente colpite. E assieme al ponte reale, crollano anche i ponti ideali delle ipocrite pubblicità di UCB.
Una catastrofe a responsabilità interamente umana, come mai nessun terremoto, nessun Vajont.
E ora cosa faranno i Benetton? Non è arrivato forse il momento di mobilitarsi per portare l’etica nel business, nel mondo vero dell’economia reale, anziché soltanto in quello fittizio della pubblicità?
(23 agosto 2018)
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