Documenta (13), dispersione spaziale e retorica della memoria

Luisa Lorenza Corna

Distribuita su quattro continenti, la tredicesima edizione di Documenta disorienta il visitatore più "sistematico". Per poi cercare di ricollocarlo nel suo tempo, attraverso lavori che rievocano traumi della storia recente ed enfatizzano la necessità della memoria.

Si svolge quest’anno, a distanza di cinque anni dalla scorsa edizione, la tredicesima Documenta, prestigioso evento d’arte contemporanea che riunisce, nella città di Kassel, le opere di più di duecento artisti per circa tre mesi. Nel disegno curatoriale di Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice artistica dell’iniziativa, ricopre – secondo quanto recita il testo introduttivo dell’ultimo dei tre cataloghi, quello che organizza, appunto, gli artisti a seconda della loro collocazione espositiva – un ruolo fondamentale la relazione tra opera e spazio. Il testo parla proprio dell’importanza attribuita “to the act of being emplaced”, ovvero alla capacità dell’arte di stare dentro (emplace) i contesti e di acquisire significato in base alla posizione assunta. La possibilità di stabilire un nesso tra opera e luogo sembra tuttavia complicata dalla moltiplicazione delle sedi dell’evento. Quest’anno, infatti, Documenta si divide tra diverse locations, rispettivamente, Kassel, Kabul, Alessandria d’Egitto e Banff. Da un lato, quindi, vi è volontà di posizionamento, di valorizzazione del locus, dall’altra estensione e delocalizzazione.

Al leggero disorientamento provocato dalla dispersione dell’evento nella città, si somma quello suscitato dalle opere che si collocano tra Kassel e le altre sedi dell’iniziativa. Più che appartenere ad un luogo (come suggerisce il testo iniziale, accennando al concetto di emplacement), parte delle opere sembrano mettere in relazione i vari luoghi su cui si distribuisce Documenta, i quali si trasformano, così, in connettori. Significativo a questo proposito è il lavoro Of What is, that it is;of what is not, that it is not 1-2 di Goshka Macuga, fotomontaggio collocato sulla superficie semicircolare della Rotunda del museo Federicianum. L’incompletezza del semi-cerchio allude ad una parte mancante, esposta nella sede di Kabul. Ma la complementarità non è solo formale. Se il fotomontaggio di Kassel infatti ritrae un banchetto organizzato dall’artista a Bagh-e Baur, sede dell’esposizione di Kabul, nell’opera esposta a Kabul, Makuga sovrappone al Karlsaue Park di Kassel un’immagine dei curatori e dello staff di Documenta durante la consegna del Arnold Bode Prize. In breve, Kassel a Kabul e Kabul a Kassel. Ma si tratta, in realtà, di connessioni tra art locations; ciò che viene messo in relazione è la Documenta di Kabul con quella di Kassel, non Kassel e Kabul.

Il luogo d’arte – o d’artista – come tema dell’opera si ritrova anche Have You Ever Seen the Snow? video in cui Garcia Torres naviga virtualmente tra le strade di Kabul in cerca del One Hotel, dove l’artista italiano Alighiero Boetti si trasferì nel 1971 e concepì quella che avrebbe dovuto essere il suo contributo a Documenta per l’anno successivo. Questa ricerca di tipo investigativo termina con una visita nella capitale afghana e il ritrovamento dell’Hotel, dove Garcia Torres si trasferisce per un breve periodo nel tentativo di restaurare la struttura e riattivarne la funzione. La scelta di lavorare su una porzione di Kabul già segnata dall’esperienza di Boetti, rivela un certo feticismo per gli spazi dove si è svolta la vita dell’artista, quei luoghi ispiratori dove ci si immagina, spesso romanticamente, che l’opera sia stata pensata, e da cui rimarrà inevitabilmente segnata. Garcia Torres sembra ridurre Kabul ad uno sfondo nebuloso ed evocativo, completamente subordinato all’esperienza dell’artista, piuttosto che rintracciare i nessi materiali tra Boetti e la sua città d’adozione. Non fu alla tradizione artigianale afghana che Boetti attinse per creare la serie di mappe che lo renderà famoso, e di cui il primo esemplare è esposto al Federicianum, come parte del lavoro dello stesso Garcia Torres? E poi, la riattivazione di spazi pubblici dismessi ad opera di singoli artisti, non rischia di imporre alla collettività una necessità di ricordare tutta personale?

L’imperativo a ricordare sembra essere tra le dominanti dell’evento, ma dai lavori in mostra non emerge una riflessione sulle ragioni da cui questo bisogno scaturisce, né sulla scelta degli episodi o degli spazi che si decide di riportare alla luce. Ne Il Processo Rossella Biscotti realizza un’installazione con i calchi di un luogo scomparso, l’aula bunker nella corte del Foro Italico di Roma, demolita qualche anno fa per lasciare spazio ad una struttura sportiva. Si tratta dell’aula giudiziaria che ospitò il processo del 7 aprile contro alcuni membri dell’Autonomia Operaia, la cui registrazione viene trascritta in un catalogo ed interpretata all’interno della mostra per tutta la durata di Documenta. Distribuendo per la sala della Neue Gallerie frammenti di pietra somiglianti a detriti costruttivi, su cui sono incisi, in negativo, i segni di uno spazio scomparso, Rossella Biscotti cerca suggestivamente di dar forma ai concetti di demolizione ed assenza. Sembra tuttavia mancare un momento rielaborativo dell’episodio che l’artista ha scelto di rievocare: il processo del 7 Aprile viene trascritto integralmente, dell’aula si prende il calco, come se la semplice rilevazione di un evento e il suo inserimento in un contesto museale fossero operazioni sufficienti. La procedura archeologica (termine utilizzato nel catalogo per descrivere il lavoro di Biscotti) non prevede invece, dopo la raccolta dei reperti (la rilevazione, appunto), una seconda fase di ricomposizione, che consiste nel tentativo di lettura ed interpretazione? E l’assenza di quest’ultima fase, non rischia di depotenziare il presente, riducendolo a mero depositario dei resti del tempo che lo ha preceduto? Sembra mancare il momento in cui ci si posiziona rispetto alla storia, nonostante il concetto il posizionamento artistico appaia così centrale nel disegno curatoriale di Documenta.

Nel lavoro di Korbinian Aigner, invece, pastore deportato a Dachau e Sachsenhausen per attività anti-naziste, il concetto di memoria assume tonalità tragiche e personali; più che desiderio di ricordare e far ricordare, il suo lavoro racconta infatti di una condanna a non poter dimenticare. Persistenza della memoria che si manifesta attraverso la reiterazione dello stesso soggetto per cinquant’anni, e cioè le mele che Aigner coltivò durante il suo periodo di reclusione. Nelle 900 cartoline dipinte dall’artista dal 1910 al 1960 si coglie una tensione tra ripetizione e differenza, tra serialità e ribellione, desiderio di vita. Mentre restano invariate dimensioni e composizione dei dipinti, tutti rigorosamente numerati in alto a destra, cambia il tipo di mela rappresentata. Varietà minima ma sostanziale, sempre legata alla biografia dell’artista, che durante la suo internamento coltivò quattro diversi tipi di mele, come a voler compiere un gesto di resistenza nei confronti di uno spazio pensato per omologare ed eliminare la vita. E la tensione tra vita e morte viene di nuovo confermata dal nome che Aigner assegna alle varietà di mele: KZ 1-2-3-4, abbreviazione del tedesco Konzentrationlager [campo di concentramento].

Sono in terza persona invece i racconti narrati dalla voce fuori campo del bel video di Willie Doherty presso la Hauptbahnhof. Secretion, questo il nome dell’opera, è girato in una foresta vicino a Kassel, la Marchenwald [foresta incantata], ma la scelta di close-up o riprese macroscopiche
piuttosto che viste totali, trasforma la location in uno spazio generico, quasi irreale, impossibile da identificare. Mentre la camera si insinua nella foresta apparentemente intatta, una voce racconta della fuoriuscita di una sostanza inquinante dispersasi nella natura. Quella che sembra una no man’s land si rivela uno spazio violato, saturo di una presenza umana ben celata, che il narratore onnisciente cerca di disseppellire. Il video di Doherty fa da contrappunto ad una generale inclinazione degli artisti di Documenta a privilegiare luoghi storicamente connotati, spesso recanti segni evidenti di guerra e distruzione (si vedano a proposito di lavori di Mariam Ghani e Tacita Dean). L’artista cerca di sfuggire all’ossessione monumentale e va in cerca di tracce umane annidate nello spazio, non ancora manifeste. Il video termina con un suggestivo close-up di una tappezzeria floreale che scompare lentamente ricoperta dalla muffa, mentre la voce fuori campo racconta della quarantena di un uomo avvelenato dalla sostanza inquinante. Lo spazio ripreso nel video non è quello dove si sono verificati gli eventi narrati, ma metafora di ciò che si racconta, ovvero il deperimento di un corpo contaminato. In mezzo ad una serie di opere che cercano di ritracciare spazi scomparsi o riesumare episodi passati, Doherty ci ricorda con questa sua metafora che gli avvenimenti si imprimono sui corpi prima che insorga il desiderio di rievocarli.



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