Don Antonio Sciortino: La fine della democrazia d’opinione

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L’antipolitica ‘non è quella di Grillo o dei girotondi, ma quella della politica intesa come mercato della soddisfazione dei desideri’. E quando ‘un governo ritiene di doversi scagliare contro le critiche di un giornale, forse qualcosa non va nella nostra democrazia’. Il direttore di Famiglia Cristiana ribadisce le preoccupazioni per il rischio di scivolare verso forme oligarchiche e autoritarie di governo.

di don Antonio Sciortino, da

La semplificazione del quadro politico alle ultime elezioni e l’ampia investitura popolare ottenuta dal Pdl (e di conseguenza dal governo del presidente Berlusconi) ha posto nel paese la questione del rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia di opinione. Il dibattito può assumere anche toni drammatici quando, invocando l’estesa legittimazione popolare al governo in carica, si mette in dubbio la possibilità altrui di esprimere opinioni e critiche sull’operato del governo. Quando poi gli attacchi vanno diritti contro un giornale e si dissente sul diritto all’opinione diversa e alla critica (non verso le istituzioni, ma verso le idee e le azioni che uomini delle istituzioni esprimono), è legittimo chiedersi se non sia in atto un ritorno all’autoritarismo, che disprezza il principio dell’uguaglianza delle idee, almeno nella loro possibilità di esprimersi.
Ciò che è accaduto di recente nei confronti di Famiglia Cristiana per le sue critiche ad alcuni provvedimenti del governo, è esattamente questo. Chi governa con ampio mandato popolare ritiene, forse, che è suo compito anche spalmare il paese di un pensiero unico e forte, senza ammettere alcun diritto di replica? In realtà, da sempre noi non abbiamo mai risparmiato critiche a governi e opposizioni, usando sempre lo stesso metro di giudizio, che è una visione solidale della realtà. Famiglia Cristiana si è comportata così con tutti i governi, anche quelli democristiani, quando ci sembrava giusto e cristiano farlo. Fedele al mandato del suo fondatore, il beato Giacomo Alberione, che diceva di «parlare di tutto cristianamente». Avverbio, questo, che connota la nostra missione di comunicatori, e ci spinge a giudicare la realtà alla luce del Vangelo.
In particolare, ci porta a giudicare la politica alla luce di quei pilastri che la dottrina sociale della Chiesa considera fondamentali, in nome di due valori: la solidarietà e la sussidiarietà. I pilastri sono la dignità di ogni essere umano, la famiglia, il lavoro, l’integrazione e il dialogo tra culture, popoli e religioni, la convivenza e la pace, l’educazione libera e responsabile, la promozione della vita dal concepimento alla sua naturale fine. Chi fa comunicazione in modo responsabile deve saper verificare la congruenza tra dichiarazioni e scelte concrete di ogni classe politica al governo e all’opposizione, offrirne i dati oggettivi e un criterio di lettura. Solo così un giornale trova interlocutori, stimola il dialogo, aumenta il tasso di democrazia di opinione nel paese.
È stato assai singolare che, dopo le nostre prese di posizioni sulla questione dei rom e sul cosiddetto «pacchetto sicurezza», il governo si sia scagliato con insolita veemenza contro Famiglia Cristiana. Già questo denota quanto il nostro paese sia poco normale. Quando si mette il coprifuoco alle idee, quando un governo ritiene di doversi scagliare contro le critiche di un giornale, forse qualcosa non va nella nostra democrazia rappresentativa.
In realtà, in Italia la gente ha una concezione sempre più leggera della democrazia rappresentativa. Sembra che basti solo assolvere al dovere del voto. E i politici (soprattutto quelli «nuovi», quelli che non provengono da una lunga formazione, ma dalle scuole del marketing), ritengono che i cittadini abbiano firmato loro una delega in bianco. Si sentono legittimati a fare tutto ciò che le regole della soddisfazione dei desideri impongono, quasi che l’esercizio nobile dell’arte della politica, sia definita dalla migliore e scintillante soluzione dei desideri di ognuno. Siamo al paradosso che, proprio oggi, quando la politica sembra aver preso il sopravvento su molte altre attività (al punto che tutti ci si buttano), la partecipazione invece cala.
È vero che la democrazia rappresentativa si risolve nella delega. Ma essa è intesa in maniera così forte dall’attuale classe politica (al governo e all’opposizione), che ha relegato in soffitta la democrazia di opinione. Siamo così all’antipolitica, che non è quella di Grillo o dei girotondi, ma quella della politica intesa come mercato della soddisfazione dei desideri. La classe politica italiana, ma anche gli intellettuali, hanno gravi responsabilità. L’eterna transizione cui è costretta l’Italia almeno da 15 anni e la promessa reiterata di riforme che non arrivano mai, hanno tolto credibilità alla politica e rafforzato chi, nella politica, vede un teatro da calcare con le sue truppe ordinate e ubbidienti a ogni ordine, senza discutere. Vale a destra come a sinistra. In un quadro simile, la partecipazione e, dunque, la democrazia di opinione spariscono.
Né il riconoscimento maggiore del leader serve ad aumentare la partecipazione. Lo dimostrano le continue incursioni di Berlusconi nelle piazze tra la gente che vive drammaticamente problemi seri, quasi volesse non tanto rassicurarla, ma rassicurare se stesso di averla (la gente) sempre vicina. In realtà, nessuno sa veramente quel che pensano i cittadini, al di là del vecchio e, talora, obsoleto metodo dei sondaggi. Neppure a livello amministrativo c’è più passione per la «cosa pubblica». Non ci si interessa nemmeno del proprio marciapiede o dell’autobus che non passa. Quando un giornale come il nostro suona la campanella d’allarme, che segnala la distanza tra la politica e le attese concrete della gente, e insiste sulle politiche familiari, su un fisco equo, o critica le ossessioni per la sicurezza e la giustizia… dice semplicemente che in democrazia le opinioni devono contare. Infatti, se cala la partecipazione e, al tempo stesso, non si ammettono critiche, il rischio di scivolare verso una forma oligarchica e autoritaria è davvero grande.
Fa scalpore che tutte queste cose, corredate di esempi concreti, le abbia scritte un giornale cattolico? È un’altra delle anomalie italiane. In Francia nel corso dell’estate il quotidiano cattolico La Croix ha criticato la nuova grandeur francese di Sarkozy sulla scena internazionale. Ma nessun membro del governo s’è sognato di rivolgersi al cardinale di Parigi o al Vaticano. Ciò che spesso difetta al nostro paese è l’idea che i cattolici (giornalisti e non) siano cittadini come gli altri, e abbiano il diritto di partecipare al grande gioco della democrazia di opinione.
La rivista francese Esprit (che, certo, non può essere bollata di «cattocomunismo» o di «criptocomunismo») si domandava questa estate se non ci stiamo avviando verso la fine del ciclo democratico. La scomparsa delle ideologie non ha assolutamente semplificato il quadro politico. Ha solo prodotto maggiore difficoltà nella comprensione e nell’elaborazione del pensiero politico, che sembra debba inseguire solo i desideri della gente. Oggi si tende a semplificare cose complesse, con risposte ai bisogni che saranno necessariamente inefficaci sul medio e lungo periodo, anche se al momento sono allettanti.
Ciò che accade attorno al pacchetto sicurezza, alla questione immigrazione, ma anche sui te
mi della giustizia, lo dimostrerà. La parola più indicata per definire tutto ciò è populismo, che insegue e accarezza i desideri. Una dimostrazione è l’ultima finanziaria, valida per tre anni e assai pesante, approvata in una manciata di minuti dal governo. Oggi la consapevolezza di tutto ciò sembra essere presente solo nel dibattito di opinione, mentre non trova casa (o ne trova una assai ristretta), nella classe politica e nelle istituzioni parlamentari. Ed è per questo che la classe politica, forte dell’investitura, tende a spazzar via il dibattito. Oggi, forse, non corriamo alcuni rischi del passato, ma c’è un allarme circa un progetto di Stato e di convivenza democratica, che non dà voce a chi non ha voce, a cominciare dalle famiglie e dai più poveri. Non è questione, questa, che riguarda e preoccupa solo i cattolici, ma tocca il paese intero. Quando Famiglia Cristiana bussa all’Italia bipolare, ricordando che i costi sociali di operazioni che semplificano eccessivamente la realtà possono essere altissimi, non fa altro che il suo dovere, a favore del «bene comune». Il passo dal populismo all’autoritarismo può essere, fatalmente, breve.

(30 settembre 2008)



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