Don Milani: l’esplosiva profezia del benecomunismo
Luca Kocci
, da il manifesto
Poco prima di essere trasferito dalla parrocchia di San Donato a Calenzano – un centro operaio tessile alle porte di Firenze – nella sperduta Barbiana – un gruppo di case sparse sul monte Giovi, nel Mugello – don Lorenzo Milani scrisse una lettera appassionata alla madre: «Ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni non smetteranno di scoppiettare per almeno 50 anni sotto il sedere dei miei vincitori».
Era il 1954, lo scontro Dc-Pci era aspro, il decreto con cui il Sant’Uffizio nel ‘49 aveva scomunicato i comunisti restava pienamente in vigore, e quel giovane prete – che comunista non era, ma aveva più volte confessato come errore il voto alla Dc il 18 aprile del 1948 («è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta», scrive a Pipetta, un giovane comunista calenzanese) – non allineato agli ordini della Curia, di piazza del Gesù e della Confindustria andava reso inoffensivo: esiliato sui monti, priore di una chiesa di cui era già stata decisa la chiusura, «parroco di 40 anime», come disse egli stesso. Eppure, nonostante il confino imposto dall’arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florit, la «superba convinzione» di Milani pare essersi realizzata: le «cariche di esplosivo» piazzate «sotto il sedere» dei vincitori, a 45 anni dalla sua morte (il 26 giugno 1967), continuano a «scoppiettare». Non hanno avuto la forza d’urto in grado di sovvertire il sistema, ma alcune intuizioni, per lo più inattuate, e molte denunce, inascoltate, conservano intatta la loro dirompenza. Per cui, se è vero che il valore di una vicenda si misura anche con la capacità di anticipare i tempi della storia, allora quella di Lorenzo Milani resta un’esperienza “profetica” che ancora parla alla società, alla politica e alla Chiesa di oggi.
La scuola rimane l’ambito principale, ma non l’unico. Insieme ai suoi “ragazzi” ne denunciò il classismo in Lettera a una professoressa e la sperimentò come prassi liberatoria, sia nella scuola popolare serale per gli operai di Calenzano, 20 anni prima delle “150 ore” conquistate con lo Statuto dei lavoratori del ‘70, sia nella scuola di Barbiana per i piccoli montanari del monte Giovi. I ministri, sia politici che tecnici, che negli anni si sono avvicendati a viale Trastevere, con qualche eccezione, si sono mostrati devotissimi all’idea milaniana di una “scuola per tutti” – il 26 giugno è in programma l’ennesimo convegno al ministero: “Salire a Barbiana 45 anni dopo” – e contemporaneamente abilissimi ad ignorarla nella prassi. Magari immaginando una didattica multimediale 2.0 in istituti con classi di 30-35 alunni o inventando premi speciali a pochi studenti apparentemente meritevoli – l’ultima idea di Profumo –, mentre si tagliano risorse, maestre, prof, insegnanti di sostegno e ore di lezione per tutti, così da trasformare la scuola in «un ospedale che cura i sani e respinge i malati», «strumento di differenziazione» piuttosto che ascensore sociale, si legge in Lettera a una professoressa. E «se le cose non vanno, sarà perché il bambino non è tagliato per gli studi», anche in prima elementare, come i 5 alunni bocciati nella scuola elementare di Pontremoli, pochi giorni fa. È dimenticata la lingua, «la lingua che fa eguali», e le lingue che, in un’ottica “internazionalista”, consentono agli oppressi di tutto il mondo di unirsi: a Barbiana studiamo «più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi. Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre». Milani mandava all’estero i giovanissimi studenti del Mugello, bambine comprese, vincendo paure e resistenze delle famiglie: ne è testimonianza vivente Francesco Gesualdi, ex allievo di Barbiana, a 15 anni spedito in Nord Africa ad imparare l’arabo, oggi infaticabile animatore del Centro nuovo modello di sviluppo per i diritti dei popoli del sud del mondo.
Non c’è solo la scuola. Ci sono anche i beni comuni: acqua e casa. È poco nota, ma di grande significato, la lotta fatta insieme ai montanari barbianesi per la costruzione di un acquedotto che avrebbe dovuto portare l’acqua a nove famiglie. Una battaglia persa, perché un proprietario terriero rifiutò di concedere l’uso di una sorgente inutilizzata che si trovava nel suo campo, mandando così all’aria, scrive Milani in una lettera pubblicata nel ‘55 dal Giornale del Mattino di Firenze (allora diretto da Ettore Bernabei) «le fatiche dei 556 costituenti», «la sovranità dei loro 28 milioni di elettori e tanti morti della Resistenza», madre della Costituzione repubblicana. Di chi è la colpa? Della «idolatria del diritto di proprietà». Quale la soluzione? Una norma semplice, «in cui sia detto che l’acqua è di tutti». E la casa, col piano Ina-Casa di Fanfani che avrebbe dovuto assicurare un tetto ai lavoratori, ma che venne realizzato solo in minima parte, mentre continuavano gli sgomberi di chi occupava le ville di ricchi borghesi che di abitazioni ne avevano due o tre, tenute vuote «per 11 mesi all’anno». «La proprietà ha due funzioni: una sociale e una individuale», e «quella sociale deve passare innanzi a quella individuale ogni volta che son violati i diritti dell’uomo», scrive Milani nel ‘50 su Adesso, il giornale di don Mazzolari. Queste parole «domenica le urlerò forte. Vedrete, tutti i cristiani saranno con voi. Sarà un plebiscito. Faremo siepe intorno alla villa. Nessuno vi butterà fuori». Ma non succederà nulla, noterà Milani, che ripeterà: «Mi vergogno del 18 aprile».
La guerra e la storia, attraversate dalla responsabilità individuale – «su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I care», ovvero «me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”» –, altri temi forti dell’esperienza di Milani: la difesa dell’articolo 11 della Costituzione, l’obiezione di coscienza agli ordini ingiusti soprattutto se militari («l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni»), l’opposizione alla guerra e alla guerra preventiva, 40 anni prima di Bush, perché «in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa». E una rilettura della storia che prende le distanze da ogni suo “uso pubblico” nazionalista e patriottardo, passando in rassegna le italiche guerre, tutte «di aggressione»: da quelle coloniali di Crispi e Giolitti, al primo conflitto mondiale, fino a quelle fasciste di Mussolini, passando per il generale Bava Beccaris, decorato da re Umberto, che nel 1898 prese a cannonate i mendicanti «solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare le tasse». Ma «c’è stata anche una guerra giusta (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana». Quindi, scrive ai cappellani militari che avevano chiamato «vili» gli obiettori di coscienza, se voi avete diritto «di divi
dere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto».
Non è stato un “cattolico del dissenso” Milani – il ‘68 era ancora lontano –, ma un “ribelle obbediente”, forse proprio per questo guardato con ancora maggiore ostilità dall’istituzione ecclesiastica a cui il prete fiorentino rimproverava di aver perso di vista il Vangelo per inseguire il potere: «Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi Congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare», si legge nella visionaria Lettera dall’oltretomba di un «povero sacerdote bianco della fine del II millennio» ai «missionari cinesi» che nel futuro arriveranno in un Europa senza più preti, uccisi dai poveri, pagina conclusiva di Esperienze pastorali, il volume di Milani giudicato «inopportuno» dal Sant’Uffizio nel ‘58 e non ancora riabilitato. «Insegnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano 2000 non parlate loro dunque del nostro martirio. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringrazino Dio. Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato».
(12 luglio 2012)
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