Donald Trump e la Bibbia
Chiara Migliori
Il primo giugno 2020 Donald Trump ha posato per i fotografi di fronte all’ingresso della St. John’s Episcopal Church a Washington, D.C., a pochi passi dalla sua abitazione ufficiale. Il sotterraneo dell’edificio, un national historic landmark definito “la chiesa dei presidenti”, aveva subito danni minori la notte del 31 maggio, quando vi è stato appiccato un incendio nel corso delle manifestazioni per l’uccisione di George Lloyd a Minneapolis il 25 maggio.
Donald Trump si è concesso ai flash a distanza, mostrando la solita espressione risoluta e rigirandosi il libro tra le mani. Nel breve tempo che ha trascorso posando davanti alla chiesa, Trump si è limitato ad affermare che riporterà il paese alla grandezza. La visita, se così si può chiamare l’azione del presidente, è stata duramente criticata da Mariann Budde, presidente della diocesi episcopale della capitale, che, tra le altre affermazioni, ha definito il comportamento di Trump nei confronti dei manifestanti una contraddizione con gli insegnamenti della Bibbia e di Gesù Cristo.
L’arrivo di Trump nei pressi della chiesa non poteva essere più rappresentativo degli eventi che stanno sconvolgendo gli Stati Uniti in questi giorni. Per aprire la strada al presidente, gli agenti hanno allontanato un gruppo di manifestanti con l’ausilio di gas lacrimogeni, così che Trump potesse compiere la sua passeggiata trionfale, portando con sé uno dei simboli dell’etnocentrismo bianco cristiano che dilaga ancora oggi nella società statunitense e che è stato esacerbato dal suo ingresso sulla scena politica americana.
Pochi altri tra gli slogan urlati da Donald Trump durante e dopo la sua prima campagna presidenziale, iniziata a giugno 2015, hanno avuto una risonanza pari a “Nothing beats the Bible!” (fatta eccezione, forse, per “Drain the swamp!”). Definita da lui stesso addirittura migliore della sua stessa opera, The Art of the Deal, la Bibbia è stata l’accessorio di scena di Trump da ben prima che egli diventasse l’inquilino della Casa Bianca. Inserita nei suoi discorsi basati sull’autoritarismo e sul populismo di destra, e infarciti della retorica del noi contro loro e della rivalsa, sventolata a favor di telecamera e di pubblico in visibilio tra una promessa di annientare la Corea del Nord e quella di ritornare a dire “Merry Christmas.”
Lo stretto rapporto ideologico e di collaborazione politica tra partito Repubblicano e cristiani è una consuetudine ufficiosa dalla nascita della destra religiosa alla fine degli anni Settanta. Non deve quindi creare stupore il sostegno garantito a Trump da prominenti organizzazioni anti-abortiste pro-famiglia – tradizionale – nonché dall’81 % dell’elettorato bianco evangelicale (gruppo che ha continuato a mostrare il più alto grado di sostegno al presidente nei primi anni del suo mandato). Trump ha portato divisione all’interno del movimento della destra cristiana; una divisione che, comunque, non ha impedito ai suoi maggiori esponenti (Tony Perkins del Family Research Council, Jerry Falwell, Jr., tra gli altri) di appoggiare a pieno la sua candidatura e di guadagnarsi un posto di rilievo all’interno di quella Evangelical Advisory Board creata dal presidente, prima di novembre 2016, al fine di segnalare all’elettorato cristiano il suo allineamento ideologico ai loro interessi politici.
Se quindi Donald Trump ha agito, e continua ad agire, come ci si aspetterebbe da un presidente eletto all’interno del partito Repubblicano, ciò che non manca di creare stupore, non solo nella presidente della diocesi episcopale di Washington, D.C., è il contrasto stridente tra le sue parole e
l’immagine di uomo di fede che lui stesso e i suoi sostenitori cercano costantemente di creare. A un’osservazione più attenta, tuttavia, questo stupore ha vita breve.
Il modo in cui Donald Trump ha sfruttato simboli e discorso religioso nella sua scalata alla presidenza è perfettamente in linea con il pensiero nazionalista cristiano che anima una parte consistente di quell’elettorato – principalmente di mezza età – ormai noto come “white Evangelicals” (definizione tuttavia impropria, in quanto al successo di Trump hanno contribuito in maniera sostanziale anche molti bianchi cattolici e cristiani che non si identificano nella corrente evangelicale). Il nazionalismo cristiano di Trump, sebbene inserito in una tradizione politico- ideologica ormai consolidata, si è fortemente differenziato da quello dei suoi predecessori, in particolar modo Ronald Reagan e George W. Bush. Trump, infatti, ha privato il discorso religioso- politico di ogni riferimento alla mitologia nazionale e al ruolo della nazione nei piani divini, nonché di ogni menzione convincente alle Sacre Scritture che non fosse una citazione imboccata dal teleprompter.
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Donald Trump è diventato il difensore e l’esaltatore della cristianità proprio perché la religione è diventata un mero accessorio di un’identità e di uno status sociale da difendere e riaffermare. Questa è l’identità che caratterizza il gruppo demografico che ha trovato in lui un megafono del proprio risentimento dato dalla diversificazione etnica e culturale del paese e dalle conquiste ottenute dalle lotte per i diritti civili di afroamericani, donne e omosessuali. Lo stesso gruppo demografico che ha percepito il doppio mandato di Barack Obama, primo presidente afroamericano della storia del paese, come un colpo fatale alla propria predominanza etnica, sociale e culturale.
La passeggiata mattutina di Donald Trump fino alla St. John’s Episcopal Church va quindi osservata attraverso questa lente. Le poche e trite parole sul programma di donare al paese una rinnovata grandezza erano superflue e non certo necessarie ad aggiungere simbolicità al momento. Abbagliato dai flash, Bibbia alla mano, Donald Trump ha semplicemente rinnovato la sua promessa di mantenere i confini tra quelli che molti ancora considerano l’unico gruppo demografico legittimo all’interno degli Stati Uniti e il resto dei cittadini di serie b. E il presidente non ha mancato di esplicitare nuovamente a chi verrà garantito il sostegno della Casa Bianca.
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