Donne in Tunisia: la lunga marcia per la liberazione

Annamaria Rivera



Tra i modi non convenzionali di celebrare l’ormai banalizzata Giornata internazionale della donna v’è quello di sfatare miti e retoriche basati sulla dicotomia che opporrebbe il luminoso cammino di emancipazione compiuto dalle nostre donne alle tenebre patriarcali di altri mondi: soprattutto quelli a maggioranza musulmana, nei quali l’oppressione del genere femminile sarebbe eterna, assoluta e totale.

La Tunisia è un buon esempio (il più facile, si obietterà) per demolire una tale retorica. E non solo perché questo Paese ha ben due giornate dedicate al tema della liberazione femminile: infatti, in aggiunta all’8 marzo, v’è la Giornata nazionale della donna, che si celebra il 13 agosto per ricordare il famoso Codice dello statuto personale varato nel 1956, su cui ritornerò. L’8 marzo di quest’anno vede un combattivo corteo sfilare nel centro di Tunisi, oltre a varie manifestazioni culturali. Tra le altre: per iniziativa della Lega tunisina dei diritti umani (LTDH) e dell’Associazione tunisina delle donne democratiche (ATFD), viene rappresentato Ferite a morte di Serena Dandini e Maura Misiti, in presenza della stessa Dandini, Emma Bonino e numerose personalità femminili tunisine.

Vi sono altre ragioni, più profonde, per soffermarsi su questo Paese. Una di queste è costituita dal ruolo importante che le donne hanno svolto nel corso della sollevazione popolare che ha rovesciato il regime benalista. Ancor oggi, in una fase di difficile transizione, per certi versi di restaurazione, la loro presenza sulla scena pubblica e nella società civile è del tutto evidente, in particolare nel campo dell’attivismo sociale e politico. Che non si è spento, nonostante la confisca della rivoluzione, le violenze dei salafiti, gli episodi di terrorismo alla frontiera con l’Algeria, la legge antiterrorismo, il conseguente incremento della repressione, soprattutto ai danni di giovani proletari, attori principali dell’insurrezione popolare. Per non dire dell’inferno carcerario tunisino, che tale è rimasto, ove la maggior parte dei detenuti lo sono in ragione del semplice consumo di stupefacenti, di solito cannabis.

Si tenga presente che la vittoria elettorale dei ‘laici’, tanto esaltata dalla stampa nostrana, anche di sinistra, corrisponde al ritorno dei vecchi arnesi dei regimi passati. L’attuale primo ministro, Habib Essid, è stato funzionario di spicco del ministero dell’Interno sotto il regime benalista. Il presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi, ha ricoperto anch’egli incarichi importanti per Ben Ali e non solo. Al tempo di Habib Bourguiba (il primo presidente della Repubblica dopo l’indipendenza), da direttore generale della Sicurezza nazionale e poi ministro dell’Interno, è stato uno degli artefici della feroce repressione contro la sinistra.

Ma torniamo alla condizione e al ruolo delle donne tunisine. In un Paese con un tasso d’istruzione di circa il 70%, fra i più alti nell’ambito dei Paesi a maggioranza arabofona, le donne hanno livelli medi di scolarizzazione più elevati degli uomini: in particolare, il numero delle laureate è superiore a quello dei laureati. Esse, inoltre, costituiscono quasi la metà della forza-lavoro e partecipano attivamente alle istituzioni politiche.

La nuova Costituzione, approvata il 26 gennaio 2014, pur non esente da limiti e difetti -essendo il frutto di un compromesso tra laici e islamisti-, almeno proclama che le cittadine e i cittadini sono uguali davanti alla legge (art. 20); che lo Stato garantisce la rappresentatività delle donne nelle istituzioni elettive (art. 33); che ne tutela i diritti, le conquiste, la parità e l’uguaglianza di opportunità e che assume le misure necessarie per sradicare tutte le forme di violenza sessista (art. 45).

Questi avanzamenti sono il frutto della mobilitazione e delle pressioni della società civile, soprattutto delle associazioni di difesa dei diritti delle donne, ma s’iscrivono anche in una lunga tradizione politica. Infatti, rispetto ad altri Paesi a maggioranza arabofona, la Tunisia ha una vicenda storica contrassegnata da conquiste importanti nel campo della laicità e della parità fra i generi, risalenti al riformismo-modernismo di Bourguiba, sia pur di stampo nazionalista e autoritario.

Il Codice dello statuto personale, promulgato il 13 agosto 1956, addirittura prima della proclamazione della Repubblica e dell’entrata in vigore della Costituzione (poi riformato nel corso degli anni), è considerato il più avanzato nel mondo ‘arabo’. Infatti, ha abolito la poligamia, il dovere dell’obbedienza, il ripudio, il matrimonio forzato; ha legalizzato il divorzio; ha conferito alle donne il diritto di voto: quest’ultimo, ben prima della Svizzera, dove sarà introdotto a livello federale solo nel 1971, e del Portogallo, che aspetterà ancora tre anni. Più tardi, nel 1973, le tunisine otterranno pure la depenalizzazione definitiva dell’aborto: anche in tal caso, ben prima di tanti Paesi europei. Inoltre, la Tunisia ha reso obbligatoria la scolarizzazione per entrambi i sessi e favorito in ogni modo il controllo delle nascite.

Tuttavia, nonostante questa tradizione e l’ulteriore progresso costituito da alcuni articoli della nuova Costituzione, permangono incoerenze, paradossi, rischi d’interpretazioni sfavorevoli ai diritti delle donne. Per esempio, poiché l’art. 7 della Costituzione stabilisce che la famiglia è “la cellula essenziale della società e lo Stato deve garantirne la protezione”, il divorzio potrebbe essere considerato una minaccia alla famiglia stessa. Così, il diritto d’interrompere la gravidanza potrebbe essere inficiato dall’art. 6 che proibisce “ogni attentato al sacro”, ma anche dall’art. 22 che recita: “Il diritto alla vita è sacro e non può essere violato se non in casi estremi fissati dalla legge”. Per non dire della permanenza di norme del tutto inegualitarie: da quella che regola l’eredità alla norma che identifica il domicilio coniugale con quello del marito, considerato anche il capo-famiglia. Per non dire dell’articolo 121-3 del codice penale, che punisce gli atti che turbano “l’ordine pubblico e i buoni costumi”.

Ovviamente in Tunisia, come da noi, non tutto ciò che riguarda le donne ha un segno positivo. Per esempio, le leggi e le politiche messe in atto non sono riuscite a proteggerle dalle più varie forme di violenza sessista. Ma in ciò la Tunisia non è lontana dall’Europa, ove si assiste a un incremento allarmante di violenze, stupri e femminicidi, anche in Paesi avanzati quali gli scandinavi. Infatti, secondo un’indagine sui ventotto Paesi dell’Unione, realizzata nel 2014 dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali, al vertice della triste classifica sono la Danimarca, con il 52% di donne che racconta di avere subìto violenza fisica o sessuale dall’età di 15 anni, seguita dalla Finlandia (47%) e dalla Svezia (46%). Questo dimostra che non sempre c’è un rapporto inversamente proporzionale tra la conquista della parità di genere e la violenza contro le donne.

Per tornare alla Tunisia, qui è solo nel 2010 che viene condotta un’inchiesta nazionale ufficiale sulla violenza di genere. Secondo questa inchiesta, il 47% delle donne fra i 18 e i 64 anni ha dichiarato di aver subito qualche forma di violenza almeno una volta nella loro vita: il 31,7% è costituito da violenze fisiche; il 28,9% da violenze
psicologiche; il 15,7%, da violenze sessuali, cioè meno della Danimarca e al pari della Finlandia odierne.

Qui come altrove, gli ostacoli all’eliminazione della violenza di genere sono di ordine politico, legislativo, ma anche socio-culturale. Oggi, però, questa realtà drammatica perlomeno non è più occultata e censurata; è anzi oggetto di grande attenzione, di continue denunce pubbliche, di frequenti mobilitazioni della società civile, soprattutto dell’associazionismo femminista.

Lo dimostra, nel bene e nel male, il caso, esemplare e molto mediatizzato, di Mariam (uno pseudonimo), accaduto a settembre del 2012. La giovane, all’epoca ventisettenne, fu fermata insieme al suo fidanzato e violentata a turno da due poliziotti, mentre il terzo teneva lontano il suo compagno. Dopo le violenze, un terzo agente costrinse il giovane a prelevare danaro da uno sportello automatico e a consegnarglielo.

Quando Mariam ebbe il coraggio di denunciare i suoi stupratori, da vittima si trasformò in colpevole. Infatti, per ritorsione, fu accusata di oltraggio pubblico al pudore (al governo c’era a quel tempo Ennahda, il partito islamista). Ci fu allora una grande mobilitazione delle associazioni femministe e per i diritti umani, tunisine come internazionali. Cosicché, infine, caduta l’accusa contro di lei, i due agenti sono stati condannati a sette anni di carcere e il terzo a due per estorsione. E, questo, appena un anno e mezzo dopo il loro crimine. Dico “appena” pensando a quali siano i tempi della giustizia italiana, soprattutto in casi di tal genere.

Da 24 al 28 marzo è a Tunisi, come nel 2013, che si svolgerà il Forum sociale mondiale. Sarà una buona occasione, si spera, per dare più concretezza al sempre auspicato spazio comune euromediterraneo e per unificare la battaglia contro il dominio patriarcale e per la liberazione del genere femminile.

(8 marzo 2015)



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