Donne, islam e sport: quando l’elogio della “diversità” sacrifica le donne

Monica Lanfranco

Nel corso di una maratona a Karachi, in Pakistan, una donna corre con il viso completamente coperto. E c’è chi, qui da noi, esulta perché “a Karachi si è celebrata la festa delle diversità”, di cui questa foto sarebbe l’emblema. E pazienza se la donna respira, forse, un po’ meno bene degli altri.

La foto e l’articolo sono del 17 gennaio 2020: nella sezione sport di Repubblica.it il collega Enrico Sisti commenta lo scatto che ritrae una donna che corre con il corpo, il capo e il viso completamenti coperti (non solo con il velo, come recita la didascalia) durante una corsa svoltasi a Karachi, in Pakistan, qualche giorno prima.

Il pezzo viene presentato con questo titolo: “La ragazza con il velo e la fratellanza del running più forte dell’odio”, e l’occhiello è ancora più celebrativo dell’evento, perché sostiene che l’immagine in questione “rappresenta l’emblema dell’energia integrante della corsa. Perché il valore dell’impresa collettiva è ben più cruciale dei destini individuali”.

Veramente? Quindi stiamo dando per scontato che i valori del gruppo sono sempre da mettere davanti a quelli individuali? E se il gruppo è quello dei fondamentalisti islamici che impone alle donne il burka per correre noi celebriamo la bellezza della corsa comunque, dal momento che i valori del gruppo sono da anteporre a quelli della donna perché il gruppo ha sempre ragione?

Su questo delicato argomento sarebbe meglio che Sisti si documentasse: l’intellettuale e attivista Maryam Namazie, fondatrice tra l’altro di One Law for All per far mobilitare pubblicamente il dissenso contro le leggi religiose, sostiene: “Quanto è machiavellico promuovere la difesa dei fondamentalisti come difesa di una presunta ‘comunità’ di minoranze omogenee! Quanto è accondiscendente supporre che quelli di noi appartenenti a minoranze siano così ‘diversi’ da tutti gli altri che ci si può aspettare di vivere solo all’interno dei confini di strutture patriarcali predefinite. In qualsiasi tribunale religioso o tribale le donne sono viste come proprietà e oggetto d’onore degli uomini, non come cittadine con diritti”.

Davvero il fatto che, mentre gli uomini corrono come si deve correre, quindi senza impedimenti al viso e con abbigliamento comodo, per questa atleta la condizione per partecipare sia che si copra, secondo i dettami degli islamisti?

Non è finita: l’articolo sostiene che il vero traguardo della corsa era quello di “nascondere per una volta (o magari per sempre) le differenze”. Veramente? Voi non la notate la ‘differenza’ tra i corpi degli uomini che corrono e quello della donna che corre?

Ma non basta, le affermazioni strabilianti non sono finite: l’articolista, dopo avere descritto come in quella bella mattina fresca tutte le persone che correvano si somigliassero afferma, entusiasta per la (presunta) meraviglia della libertà intrinseca dell’occasione sportiva: “A Karachi si è celebrata la festa delle diversità. La ragazza immortalata con testa e viso coperti ne è diventata il simbolo. Forse respirava meno bene degli altri, ma quanta aria le arrivava ai polmoni e ai muscoli dalla certezza di aver rispettato il proprio ‘vangelo’? E le è bastato. La sua foto ha fatto più chilometri di lei”.

Poi la chiosa finale: “La piccola ‘maratona’ di Karachi è l’ennesima conferma di questa ‘anima mundi’ che va spavalda, che scende in strada ovunque senza pensare al tempo, a nessun tempo. Una gigantesca fratellanza fatta di sudore, serenità prima e stanchezza dopo. Nonostante l’odio della società malata, qualcosa continua a funzionare soltanto a condizione che si determini il sentimento opposto, soltanto a condizione di sentirsi tutti sulla stessa barca: o meglio dentro un’arca di passione chiamata maratona, lunga o corta che sia. Amore per la corsa. Amore per le cose. E visto che come dice lo psicanalista e scrittore Luigi Zoja ‘siamo nell’era della morte del prossimo’, anche amore per gli altri. Scusate se è poco”.

Dall’altra c’è lo sgomento nel leggere l’affermazione, francamente sconcertante, su quanto poco importi che, a causa della copertura del volto, alla donna arrivi (forse?) meno ossigeno rispetto agli uomini.

Penso che chiunque, con leggerezza, glissi sulla questione dell’imposizione sul corpo delle donne di coperture secondo i dettami religiosi debba provare cosa significa, per un giorno soltanto, indossare qualcosa che ti copre e impedisce anche di respirare bene perché altrimenti non è possibile abitare lo spazio pubblico. Se si tratta di correre, poi, che il collega faccia l’esperienza: magari ci ripensa.

(11 febbraio 2020)





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