Dopo l’indignazione, il conflitto sociale

Pierfranco Pellizzetti

Dalle mobilitazioni di pura testimonianza degli indignados al conflitto sociale dei gilet gialli. Siamo davanti a una seconda fase dell’indignazione? Una riflessione sui movimenti di resistenza alla ristrutturazione reazionaria del mondo a partire da due saggi di Manuel Castells (“Reti di indignazione e speranza”) e del Collettivo EuroNomade (“Gilets Jaunes”).

«La rifondazione delle democrazie, ferite dalla
terapia anti-crisi, è un bene pubblico che i cittadini
possono fare proprio e influenzare. Chi si batte su
ambedue i fronti è chiamato populista perché si è
messo semplicemente in ascolto dei popoli indignati,
grandi assenti nelle oligarchie che fanno e disfano
l’Unione»[1].
Barbara Spinelli
«The real tragedy is that this deep social unease
is currently not producing any focal point for
aggregation and representation»[2].
Pierfranco Pellizzetti

Manuel Castells, Reti di indignazione e speranza, Università Bocconi Editore, Milano 2012

Collettivo EuroNomade, Gilets Jaunes, Manifestolibri, Roma 2019

Sovranismo fuorviante

Mentre gli scenari mutano incessantemente, troppo spesso alla ricerca della comprensione di quanto sta accadendo viene anteposto l’arzigogolo citazionista, al fine di propugnare tesi aprioristiche per partito preso: dall’assunto castellsiano di vent’anni fa sulla «opposizione tra due logiche spaziali: quella dello spazio dei flussi e quella dello spazio dei luoghi»[3] alle analisi coeve di Saskia Sassen in materia delle disconnessioni urbane come enclosures di ritorno; questa volta divides tra quartieri vetrina e periferie precarizzate, le contrapposte concentrazioni di ricchezza e degrado[4]. Il tutto al fine (teorico o ideologico?) di smentire insieme a un geografo francese – Christophe Guilluy – «la rappresentazione dei conflitti che da qualche anno dilaniano le maggiori società occidentali in termini di antagonismo fra popolo ed élite, alto e basso, super ricchi e gente comune»[5].

À quoi bon, dunque?

Un’acrobazia argomentativa per sostenere che l’odierna lotta di classe non sgorga secondo prassi dalle sperequazioni distributive, acuite dalla disuguaglianza postindustriale, bensì dall’antagonismo tra confini e spazio globalizzato. Tesi che consente il passaggio successivo: l’affermazione di un sovranismo di sinistra come ritorno salvifico al passato. In questo caso le “piccole patrie”, quale uscita di sicurezza rispetto ai presunti guasti prodotti dal superamento dell’assetto vestfaliano nel cosiddetto network-State: la governance multilivello sub-statuale, statuale e sovra-statuale; sperimentata in sede europea a fronte della crisi dello stato-nazione.

Un ritorno al passato – quello sovranistico – che suona a riflesso condizionato imputabile al peggiore marxismo “volgare”, inteso quale mentalità scolastica, in cui determinismo fa rima con semplicismo: l’idea balzana (consolatoria e demagogica) che il ripristino di vecchie perimetrazioni comporterebbe l’automatica riaffermazione di una sovranità “popolare” del tutto onirica. L’idea naif della democrazia come rito ecumenico (unanimistico) pacificato; nell’oblio di quanto – in una antico dibattito su il Marxismo e lo Stato – Norberto Bobbio illustrava della sua natura “sovversiva”: «tanto sovversiva è la democrazia che, se fosse pienamente realizzata, sarebbe essa, e non la ipotetica società senza classi, la fine dello Stato, la società senza Stato»[6].

Quel mito ingenuo del popolo, soggettivizzato nel partito “moderno principe”, fatto a brandelli da una preziosa tradizione critica sulle manipolazioni sistematiche di siffatta sovranità, da parte di quanto Michel Foucault denominava Potere-Verità (per cui «la critica designa il movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità»[7]). Binomio potenziato dagli odierni arsenali della comunicazione informatizzata. A fronte dell’infantilizzazione sovranistica che presume dietro l’angolo quanto mai fu dato esistere: “la democrazia degli angeli”, in cui la volontà collettiva si afferma senza fare ricorso a fisiologiche pratiche conflittuali per superare blocchi e sconfiggere antagonismi, in un improbabile clima di benevola cooperazione. Visione rassicurante smentita dalla scoperta machiavellica della “disunione” quale alimento della vita pubblica (ma prima del segretario fiorentino vi era già arrivato Eraclito) fino alla precisazione carlschmittiana che le categorie del politico sono “hostis/amicus”. La persistenza dei rapporti di potere che rendono la presunzione dell’unanimismo una pericolosa finzione totalitaria, da Jean Jacques Rousseau a un ipotetico comunismo catechistico, inverato come fine della storia. Con le parole dello storico di Chicago Charles Tilly, «la democrazia origina da, mobilita e ridà forma al conflitto popolare. Eppure c’è una caratteristica fondamentale di questa interdipendenza […]: limita in modo consistente le forme di rivendicazione collettive e pubbliche tali da minacciare la vita e la proprietà, sostituendole con una varietà di interazioni altrettanto visibili ma molto meno distruttive»[8].

Per cui, se invece che al geografo francese volessimo prestare attenzione a un suo collega britannico (David Harvey), scopriremmo l’immutabile natura del conflitto come contrapposizione di classe, tra insiders e outsiders (vogliamo dire establishment e subalterni?). Dunque storia e non geografia (Paul Virilio commenta: «più che a una ‘fine della Storia’ assistiamo a quella della geografia»[9]); come si evince dalla citazione, contenuta – appunto – nel saggio di Harvey L’enigma del capitale, dell’immortale sentenza di Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi al mondo: «c’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo»[10].

Il conflitto oltre la classe?

Probabilmente la visione anni Cinquanta alla Wright Mills delle élites del potere come vertice della gerarchia plutocratica, che si tramanda tale potere di generazione in generazione, mostra un pericoloso livello di ingenuità e schematismo; a fronte di un “mondo Davos” che una volta all’anno fa capolino dai palazzi del potere e mette il naso fuori dalle stanze esclusive dei circoli per selezionate minoranze, accomunate da quei codici culturali che «aprono l’accesso alla configurazione del potere senza che sia necessaria una cospirazione dell’élite per bloccare l’accesso alle sue reti»[11].

Indubbiamente aveva ragione Ralf Dahrendorf quando, nel lontano 1967, decretava il superamento del conflitto industrialista e del lavoro operaio come “classe generale”, levatrice di una società senza classi: «la politica e la società erano piacevolmente semplici al tempo in cui la scena del conflitto sociale era dominata da due gruppi di interesse principali, dei quali l’uno difendeva il privilegio mentre l’altro rivendicava il diritto di cittadinanza»[12]. Ma non, come riteneva il sociologo anglo-tedesco (e andava profetizzando un certo Situazionismo), per la transizione “dalle ineguaglianze produttive a quelle distributive”. Semplicemente a seguito dell’epocale mattanza del lavoro come soggetto costituente, nel passaggio dal modo di produrre industriale a quello post-industriale; dalla fabbrica situata in un luogo all’impresa senza piedi, delocalizzata. Mentre – come avrebbero teorizzato a posteriori i due bourdivins (allievi di Bourdieu) Luc Boltanski ed Ève Chiapello – la condizione sociale nel Capitalismo maturo involveva dallo sfruttamento all’esclusione: il primo «era anzitutto sfruttamento attraverso il lavoro. La nozione di esclusione, diversamente, designa soprattutto forme diverse di allontanamento dalla sfera dei rapporti di lavoro»[13]. E gli esclusi sono anzitutto i disoccupati di lungo periodo (una categoria statistica impostasi già negli anni Ottanta).

Ma per analizzare le ragioni del contendere – quelle nuove non meno delle vecchie – non c’è alcun bisogno di ricorrere a conflitti spaziali fantasiosi quanto inafferrabili. Basta e avanza l’analisi dei rapporti di forza e delle poste in gioco nelle pratiche di dominio plutocratico, mentre i processi di finanziarizzazione in atto nell’ultimo quarantennio sanciscono la moltiplicazione della ricchezza mediante strategie (post-industriali) di accaparramento al posto della riproduzione del capitale attraverso l’investimento (industriale). Come sempre pratiche “situate”. Nelle stanze segrete sovrastanti “la sfera rumorosa del mercato”. E non inganni l’attuale centralità logistica nell’economia-mondo, rispetto a quella vecchia manifatturiera: sono sempre élites del potere che continuano a segnare i confini. Questa volta predisponendo le reti trasportistiche e la tracciatura dei “corridoi”: si tratti della Nuova via della Seta o la TEN trans-europea, la logistica s’impone come principio organizzatore che determina tanto le aree di sviluppo quanto quelle condannate al declino economico e occupazionale, secondo disegni pianificatori che esulano dal processo decisionale democratico; come dal controllo degli Stati, piccoli o grandi che siano.

In base ai diktat di un’astratta “ragione logistica” dietro la quale si materializzano concretissimi vertici tecnocratici che perseguono i propri disegni di potere politico e gatekeeping economico, attraverso riorganizzazioni del lavoro «il cui obiettivo strategico è sincronizzare le dissonanze del mondo globale al ritmo costante delle catene del valore e della produzione»[14]. Operazioni in cui i grandi players sono sempre di più i centri finanziari coi loro alleati operativi. Dunque, banche, top manager e grandi investitori. A Oriente in sinergia con le ambizioni egemoniche dei vertici politici di Stati continentali emergenti, nel declino del secolo americano.

Il fatto nuovo è che a Occidente gli sfruttati/emarginati incominciano a inquadrare correttamente le matrici del proprio malcontento; a mettere nel mirino i veri nemici. Dal fatidico 2011, l’anno dell’indignazione.

Capire l’oppressione

Appunto, quanto il sociologo di Harvard Barrington Moore jr. definiva in un celebre saggio “le basi sociali della disobbedienza e della rivolta”. Un fatto mentale collettivo liberatorio, indispensabile per vanificare gli effetti mimetici del Potere che non solo si ammanta di Verità ma che si prospetta “naturale”. Nella retorica del TINA: there is no alternative, non ci sono alternative.

Sicché «uno dei principali compiti culturali che si pongono a qualsiasi gruppo oppresso è di minare o screditare la giustificazione del ceto dominante»[15]. L’opera planetaria di demistificazione che, a partire dalla madrilena Puerta del Sol e il newyorkese Zuccotti Park, vide accampamenti ribelli al dominio truffaldino della finanza globalizzata in 950 città di 80 Paesi. E il New York Times scrisse: “è stato il ritorno sulla scena della seconda superpotenza mondiale”. La mobilitazione della società civile su scala planetaria.

Quasi in presa diretta il catalano Manuel Castells analizzò l’imponente fenomeno che nasceva sotto i suoi occhi, individuandone l’essenza in una sorta di metanoia sociale, un mutamento collettivo nel modo di pensare: «la vera trasformazione stava avvenendo nelle menti delle persone. Se le persone pensano in modo diverso, se mettono in comune la propria indignazione e custodiscono la speranza di cambiare, la società alla fine cambierà secondo i loro desideri»[16]. Quindi, «la transizione dall’indignazione alla speranza viene raggiunta tramite la deliberazione nello spazio dell’autonomia. Normalmente il processo decisionale avviene nelle assemblee e nei comitati da queste designati. Si tratta per lo più di movimenti senza leader. Non certo per la mancanza di un possibile leader, bensì per la profonda, spontanea sfiducia della maggioranza dei partecipanti verso ogni forma di delega del potere»[17].

In terra iberica si parlò di irresistibili mareas ciudadanas, grazie alle quali il mutamento sociale sarebbe stato deciso nella testa delle persone rinnovando le policy operative per il cambiamento politico, ricreando le condizioni per una democrazia effettiva. Rigenerata, liberata dall’intermediazione dell’establishment.

Produsse un certo turbamento scoprire alla fine dell’anno “indignato” che le logiche egemoni dall’ultimo quarto del XX secolo non ne erano state neppure scalfite; l’antagonismo insito in tali mobilitazioni, era rimasto confinato nella dimensione sterile della mera testimonianza. Politicamente inerte. E il 2011 si concluse con lo spettacolo dei vari governi che correvano in soccorso dei vertici bancari minacciati dal crollo di Wall Street, spargendo finanziamenti a pioggia. Largamente dirottati a benefit per i Top di tali istituti.

La bellezza della lotta

“Questa non è una crisi, è che non ti amo più”, la scritta che campeggiava in uno striscione nella Plaza del Sol di Madrid occupata nel maggio 2011 ”Que les gros payent gros et les petits payent petit” la parola d’ordine dei tumulti creati in tutta la Francia dai gilets jeunes a partire dal 17 novembre 2018.

Siamo davanti a una seconda fase dell’indignazione, dopo lo smascheramento della grande mistificazione da parte dei ceti medi tartassati? Quella del conflitto tendente all’insurrezionale dei nuovi poveri creati dall’aggressione plutocratica (confessata da Warren Buffet)? Dunque, la conferma che in questi otto anni la ristrutturazione reazionaria del mondo è andata inesorabilmente avanti, sicché la resistenza non può limitarsi alla fase mentale della concettualizzazione; è giunto il momento dell’azione. Il conflitto sociale.

Il collettivo EuroNomade (promosso da Toni Negri col suo alter ego Michael Hardt e un po’ di firme de il Manifesto) ha testé pubblicato un instant book sul tema.

«Che cosa succede in Francia? C’è una rivolta che in un primo sabato (17 novembre) blocca gli incroci e le rotonde delle strade dipartimentali, gli ingressi delle autostrade, e che si presenta assai combattiva, sugli Champs-Elysée parigini, elevando barricate e chiedendo di incontrare il Presidente della Repubblica. In un terzo sabato (1 dicembre) i manifestanti investono i quartieri ricchi della metropoli. Scontrandosi furiosamente con la polizia, svaligiando boutiques e ristoranti…»[18].

La narrazione dell’instant book si ferma alle ultime settimane dell’anno scorso, ma è sufficiente per tratteggiare un’insorgenza nutrita di tanta Francia – comunarda come poujadista – ma che fornisce molti spunti di riflessione sullo stato dell’arte dell’intero sistema-mondo: gramscianamente, l’odierna fase di “interregno”, in cui si vagola «quando il vecchio finisce ma il nuovo ha difficoltà a manifestarsi»[19].

Comunque, se il 2011 degli indignados aveva aperto una crepa nella maschera falsamente inclusiva dell’ordine finanziarizzato, il 2018 ras-le-bol – degli esasperati – attacca la natura truffaldina “di classe” (sempre dalla parte plutocratica) della rappresentanza istituzionale. Di cui non ci si po’ assolutamente fidare. Sinistra ufficiale inclusa, da Melenchon alla CGT.

I Gilets Jaunes come contropotere indisponibile a forme partecipative, che apprende nel calore della lotta quanto segnalava, agli albori dei Quaranta ingloriosi (copy Thomas Piketty), un vecchio maestro di analisi politica; Alessandro Pizzorno: riguardo all’emergere delle nuove identità collettive, «il terreno pluralista favorirebbe il loro sorgere continuo. Ma lo strutturarsi della rappresentanza tende ad assorbirle e limitarle». Sicché, «ogni volta che il sistema si ristabilizza ci appaiono più insopportabili lo spreco e la perdita di ricchezza umana, quasi gli anelli del feed-back di riequilibrio operassero con maggiore durezza e, dissipando sempre più preziose energie, si allontanassero a spirale dal terreno di una democrazia accessibile a tutti. L’orgoglio dell’invenzione politica occidentale, il pluralismo, ci appare destinato ad accrescere il cinismo tra i potenti, la segretezza fra i governanti e l’indifferenza tra i membri della città»[20].

Però – stando a quanto ci dicono le pur contraddittorie mobilitazioni francesi (e sebbene ora – fine febbraio 2019 – si percepiscano i primi sintomi di entropia, segni di stanchezza nella mobilitazione) – il tasso di combattività resta alto. A fronte di un Presidente Macron, creazione della banca parigina e della Massoneria dell’Esagono, imbambolato innanzi alla per lui imprevista fine della luna di miele con l’elettorato; mentre l’apparato ideologico al suo servizio e le forze globali che lo promuovono si difendono maldestramente demonizzando le violenze di piazza, l’inevitabile medium di ogni antagonismo “duro”. In effetti quello che spiazza l’establishment politico, mediatico e soprattutto finanziario è la ricomparsa sulla scena del soggetto cancellato dalla precarizzazione (dal decentramento produttivo transnazionale alla gig-economy dei lavoretti coordinati dalle piattaforme digitali); lo storico contrappeso del comando capitalistico: il lavoro come forza costituente. Il suo riapparire in tutta la concretezza evidenziata dalle istanze avanzate dai Gilets: restaurazione dell’ISF (l’imposta sulle grandi fortune), rivalutazione dello SMIG (il salario minimo oltre i 100 euro), blocco del prezzo del carburante, aumento delle pensioni, maggiore tassazione delle grandi imprese, divieto di delocalizzazione, investimento nei settori pubblici, abbassamento delle tasse sui generi di prima necessità.

Un “pacchetto” che va ben oltre intenti risarcitori riproponendo come per incanto il “punto archimedico novecentesco”, dove il lavoro fa leva per contrastare con successo le strategie della controparte: le sedi di riproduzione del capitale ritornate tangibili, sotto minaccia di essere bloccate dalle tattiche rivendicative/antagonistiche.

Grazie alle nuove spinte dell’indignazione evoluta in conflitto, gli EuroNomadi prefigurano radicali inversioni di tendenza, da incorreggibili storicisti: «è già scritto che tra un decennio o due, l’ondata dei governi reazionari cui stiamo assistendo sia destinata a fallire»[21]. Tesi per ora azzardata, appurato che all’orizzonte non si scorge traccia di una plausibile alternativa.

Semmai il momento ci rammenta un’altra storia francese, che ha raccontato Reinhart Koselleck: nel lontano 1774, mentre già si intravvedevano i segni di prossimi sommovimenti tellurici, alcuni allievi si rivolsero perplessi a Denis Diderot: «Maître, quelle sera la suite de cette révolution?». Il grande illuminista stette per qualche istante in silenzio e poi rispose: «On l’ignore»[22].

NOTE

[1] Barbara Spinelli, “Il mito del volo di Ulisse”, la Repubblica 24.4.2013

[2] P. Pellizzetti, “Autumn of the Second Republic”, in M. Castells (a cura di) Europe’s Crisis, Polity Press, Cambridge 2018 pag. 378

[3] M. Castells, Il potere delle identità, Università Bocconi Editore, Milano 2003 pag. 136

[4] S. Sassen, Le città nell’economia globale, il Mulino. Bologna 1997a pag. 157

[5] C. Formenti, “”La guerra tra metropoli e periferie”, www.micromega.net 12 febbraio 2019

[6] N. Bobbio, “Quali alternative alla democrazia rappresentativa?”, Mondoperaio 10/1975

[7] M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997 pag.40

[8] C. Tilly, Conflitto e Democrazia in Europa, Bruno Mondadori, Milano 2010 pag. 39

[9] P. Virilio, La bomba informatica, Cortina, Milano 2000 pag. 9

[10] D. Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli. Milano 2011 pag. 261

[11] M. Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2002 pag. 477

[12] R. Dahrendorf, Uscire dall’utopia, il Mulino, Bologna 1971 pag. 479

[13] L. Boltanski e È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Sesto S. Giovanni 2014 pag. 401

[14] G. Grappi, Logistica, Ediesse, Roma 2016 pag. 219

[15] B. Moore jr. Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, Ed. di Comunità, Milano 1983 pag. 113

[16] M. Castells, Reti di indignazione e di speranza, Università Bocconi Editore, Milano 2012 pag. 115

[17] Ivi pag. 187

[18] Collettivo EuroNomade, Gilets Jaunes, Manifestolibri, Roma 2019 pag. 83

[19] Ivi pag. 63

[20] A. Pizzorno, “Il sistema pluralistico di rappresentanza” in L’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale (a cura di Suzanne Berger), il Mulino, Bologna 1983 pag. 413

[21] Collettivo, Gilets, cit. pag. 135

[22] R. Koselleck, Futuro passato, Marietti, Genova 1986 pag. 28

(1 marzo 2019)




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