Dopo Torino, un appello all’Onda: un’altra disobbedienza è possibile

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Gli articoli, i resoconti dalla piazza, gli editoriali del 20 maggio erano già scritti da tempo, pronti nei cassetti delle redazioni delle varie testate, dettati dalle minute della questura. Il solito bollettino: la dimensione e la portata di una manifestazione misurata nel numero di contusi. Esauriti da tempo anche i posti in prima fila per godersi lo spettacolo. Il problema non sono tanto i giornali, le televisioni: conosciamo la loro natura, le dinamiche e le logiche che ne determinano le linee editoriali. Non meno nota è la propensione repressiva di uno Stato, quello italiano, e della sua polizia. Il vero fatto tragico è la disponibilità, da parte di frange del movimento, ad essere comparse di una sceneggiatura scritta per loro dal potere.

A Torino, il 19 maggio, il copione era già scritto; gli attori già selezionati da tempo. Non male, ad essere sinceri, la colonna sonora e la location.

Il potere, le istituzioni che lo rappresentano, hanno tracciato il percorso nel quale il desiderio della rivolta può, e deve, incamminarsi. Una sorta di binario, rigorosamente morto, che disegna una ritualità delle contestazioni.

Viene da sorridere nel rilevare la falsa indignazione da “eterni innocenti” di alcuni, il piagnisteo di altri, l’ipocrisia ostentata dai molti. Tutto prosegue nel plauso generale senza interrogativi di sorta, paiono mute le menti, le coscienze rivoluzionarie che nella pratica del dubbio si sono formate.

Nessuno ha la pretesa di redimere coloro che al potere, ed alle sue logiche, sono supini. Battaglia persa, quest’ultima. Poco importa allora ribattere e contestare i fiumi di parole scritti per condannare le violenze di piazza, le poco lucide analisi del movimento, le letture paternalistiche degli editorialisti.

Quello che mi interessa è rivolgere un appello al movimento e a tutta l’intellighenzia che rivendica, in misura diversa, il senso e lo spirito del suo esistere. Quando vi accorgerete, ci accorgeremo, di essere in trappola? Quando capirete, e capiremo, che ci stiamo comportando esattamente come coloro che combattiamo desiderano? Quanto aspettate, aspettiamo, a ribellarci a questo gioco? Ad uscire da una storia già scritta?

Provo rabbia, impotenza, nel vedere compagni e compagne che con me hanno scelto di non rimanere indifferenti schiantarsi contro un muro costruito ad hoc. E’ arrivato il momento di espellere dalla retorica della ribellione l’equazione radicalità uguale numero di scontri in piazza. Non sarà dalla quantità di poliziotti feriti, dall’entità dei danni che arrecheremo nelle varie città il vero valore della nostra lotta. La sfida reale si gioca su un piano sicuramente più complesso e ambizioso per cui vale la pena spendersi: praticare o meno una concreta alterità, essere noi stessi l’alternativa. A monte un’analisi, un’elaborazione capace di disegnare l’uscita da un imbuto in cui la nostra civiltà si è infilata. Potremo per mesi, anni, decenni gridare nelle piazze che abbiamo ragione: non basterà.

L’uscire dal rituale è il vero atto rivoluzionario, l’inserire sabbia negli ingranaggi di un sistema che opprime i nostri desideri, sporca il nostro futuro. Dobbiamo avere il coraggio di praticare il vero atto di disobbedienza che scompagina le carte in tavola, coglie di sorpresa i manovratori, confonde la sceneggiatura. Rosa Parks in un giorno di dicembre del 1955 decise di rimanere seduta, quel posto su di un autobus divenne in quell’istante metafora del rifiuto all’oppressione e allo sfruttamento. Rosa Parks aveva con sé la forza di essere nel giusto, la consapevolezza che la verità era lì seduta con lei in quel seggiolino di pullman.

Oggi noi siamo consapevoli che la battaglia contro la privatizzazione dell’istruzione, la volontà di non pagare una crisi, l’urgenza di un’alternativa hanno la stessa potenza di quella verità. Mancano i gesti, le pratiche, le modalità capaci di dare dignità alla nostra rabbia.

Nel mio criticare l’utilizzo della violenza, nelle perplessità in merito ai metodi della contestazione, vi è la tipica amarezza nel vedere la grandezza delle nostre idee e dei nostri valori sminuita nella pochezza di una prassi stanca, incapace di comunicare. E’ datato il dibattito sulla relazione conflitto e consenso, su violenza e non violenza: oggi più che mai necessario. Il mio non è un intento strumentale, non vi è nessuna volontà di dividere tra buoni e cattivi. Nessuna è la voglia di giudicare e sentenziare dallo scranno di una presunta superiorità. Vi è invece, alla radice, l’insopportabile palesarsi di certe logiche, il ripetersi di alcune dinamiche che non possono più rimanere interrogativi rinchiusi nel privato. E’ impellente affrontare la questione nello spazio pubblico in un processo di catarsi essenziale al movimento. Voglio parlare soprattutto a quell’Onda anomala che senza la maturità che questo passaggio richiede rischia di perdere la propria anomalia. L’appello è però anche rivolto a tutti coloro che quotidianamente impegnano la propria vita, in “direzione ostinata e contraria”, nel costruire un’alternativa all’esistente.

L’uso della violenza, oltre che inutile, risulta essere funzionale al potere e alla sua forza repressiva nonché elemento centrale del rituale. La scelta della nonviolenza, nella sua visione più complessa e profonda, è quell’atto di disobbedienza che disorienta, è la faticosa presa di responsabilità di una radicalità che non concede passi indietro. Sono convinto che risieda nella coerenza tra mezzi e fini il vero spirito rivoluzionario.

Il sistema a cui ci opponiamo, i dis-valori che porta con sé, sono talmente entrati nelle coscienze, nelle menti di tutti e tutte noi che anche nel ribellarci ad esso ne ripetiamo le bruttezze. La nonviolenza, come dottrina, come visione del mondo, è il tentativo di rifiutare tutto ciò. Siamo a noi gli artefici delle nostre vite, sta a noi decidere come.

Aimar Andrea

(21 maggio 2009)



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