E continuavano a chiamarlo… giustizialismo. Il Caimano “riabilitato” e la patria del rovescio

Giuseppe Panissidi

Gli organi d’informazione si sono limitati a prendere atto della “riabilitazione” di Silvio Berlusconi dalla condanna per frode fiscale e dai suoi effetti, aderendo passivamente alle motivazioni poste a sostegno di essa. Un’analisi giuridica mette invece in luce, con tutta evidenza, il vizio di nullità del provvedimento per invalidante difetto di motivazione.


Il Paese continua a crogiolarsi, in modo impudico e voluttuoso, dietro e dentro le sorprendenti raffinatezze e trovate politico-intellettuali di due noti personaggi, ora in cerca di un comune autore, dopo essersi reciprocamente e lungamente accreditati come soggetti di “nullità, ignoranza, distruttività”, e quant’altro. Finalmente. La pace, si sa, si stipula sempre tra ex nemici e, ora, è il momento di reperire un autore condiviso, immaginato come un “premier esecutore”. Se questa nobile aspirazione confligge, in modo grottesco e clamoroso, con il letterale tenore del dettato costituzionale, poco importa, se ne faranno una ragione. Bisogna mostrare comprensione verso questi bravi ragazzi, e la loro sublime intenzione di guidare la nazione, anche se appaiono troppo scalmanati per comprendere che un (improbabile) premier esecutore – di preventivi contratti tra le parti – presuppone un (inverosimile) capo dello Stato “notaio”.

Ciò nonostante, il fiato non può restare sospeso. Come un fatidico fulmine nel limpido cielo di maggio, infatti, una notizia inopinatamente impatta su questo felice angolo di mondo. Un evento oggettivamente tanto improbabile, da indurre a supporre una fake. In realtà, non lo è, honni soit qui mal y pense. Vero è che Silvio Berlusconi è stato appena riabilitato dalla condanna per frode fiscale e dai suoi effetti. Per la gioia del popolo italiano, in nome del quale, appunto, la giurisdizione penale costituzionalmente, e non solo formalmente, deve pronunciare.

Come di consueto, l’universo mediatico, immerso nella profonda superficie dell’evento, lo sfiora a volo d’uccello, vuoi mediante accese reazioni polemiche, suscitate anche dall’anticipazione della decisione, rispetto al tempo previsto; vuoi con pubbliche dimostrazioni di soddisfazione quasi libidica, a seconda dei punti di osservazione e ricezione, nonché del livello di comprensione e faziosità.

Se non che, nella culla del diritto, in costanza di un provvedimento giurisdizionale di siffatta portata, sembrava legittima l’attesa di proficue analisi e dilucidazioni d’indole giuridica, ancor prima che di elucubrazioni (più o meno) stravaganti o interessate, quanto alle conseguenze politiche, dirette o collaterali, nell’odierna, e particolarmente delicata, fase della vita politico-istituzionale nazionale.

In breve, pur riportando il testo integrale dell’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Milano, gli organi d’informazione non si sono minimamente curati di approfondire i termini della questione. Si sono, cioè, limitati a prendere atto della decisione, aderendo passivamente alle motivazioni poste a sostegno di essa. Ché, anzi, hanno esibito un qual certo entusiasmo, in alcuni casi scoperto, malcelato in altri, a fronte dei puntuali rimandi, presenti nel provvedimento, agli orientamenti giurisprudenziali della Suprema Corte di Cassazione. Leggi: di fronte alla parola della Corte Suprema… Eppure, a prescindere dalle funzioni ‘tecniche’ degli organi dell’impugnazione – nel caso che occupa, la Procura Generale di Milano – il controllo sociale sull’attività giurisdizionale rappresenta il necessario e democratico contrappeso all’indipendenza e all’autonomia della magistratura. 

Ebbene, per quanto possa apparire inesplicabile, il giudice della legittimità, ossia il supremo organo regolatore della giurisdizione, sancisce regole e principi di valutazione di tali fattispecie profondamente diversi da quelli dedotti nel provvedimento in parola. Per la precisione, principi e regole assai più complessi e completi, sotto il profilo logico-giuridico. E pour cause.

Quando si conviene che, sul punto cruciale concernente il requisito della “buona condotta”, i giudici hanno seguito la linea della Cassazione, secondo la quale “la mera pendenza di un procedimento penale per fatti successivi a quelli per cui è intervenuta la condanna non costituisce di per sé ostacolo all’accoglimento dell’istanza di riabilitazione, in ragione della presunzione di non colpevolezza”, letteralmente non si sa di che cosa si parla. Infatti, se è vero che “le pendenze [di denunce e procedimenti] non escludono di per sé la regolarità della condotta”, come quelle relative ai processi per “corruzione giudiziaria” che discendono dal caso Ruby – anche lì, la prima volta assolto, dunque e sostanzialmente… riabilitato! – è altrettanto vero che si omette di annettere il giusto valore alla locuzione “di per sé”.

Con tutta evidenza, e senza scomodare la linguistica, essa significa che le pendenze non debbono essere considerate nei puri termini della materiale esistenza, “di per sé”, per l’appunto, ossia nella vuota separatezza e singolarità, ovvero in sconnessione dal proprio specifico contenuto. Infatti, al giudice di merito incombe il tassativo obbligo giuridico di condurre “una penetrante indagine sui fatti posti a base dei relativi procedimenti e sull’esito del giudizio … con un ragionamento esauriente ed immune da fratture logiche”. Tale il giudizio inequivoco della Corte di Cassazione, I Sez. Pen., 27 gennaio 1992, addirittura in un caso di rigetto dell’istanza di riabilitazione in capo al tribunale. Il giudice supremo, insomma, sancisce l’obbligo di indicare “gli specifici elementi da cui è tratto il giudizio”.

Il giudizio, difatti, deve fondarsi su tutti gli elementi di conoscenza desumibili dalle condotte complessive del soggetto aspirante alla riabilitazione, pur nel rispetto della presunzione di non colpevolezza, principio capitale benché fuori argomento, posto che non si tratta di formulare giudizi di colpevolezza. Inoltre, la valutazione dei fatti concernenti le pendenze processuali compete unicamente al giudice, non mai agli organi di polizia, i quali, all’esito degli accertamenti di competenza, pare che abbiano dipinto l’interessato puro come un giglio, quanto ad amicizie, frequentazioni, dichiarazioni, etc., com’è, peraltro, universalmente noto. 

Se e proprio perché le pendenze, in quanto tali – in quanto tali – non rilevano ai fini del requisito della buona condotta, il giudice di merito deve motivare, in modo “penetrante”, cioè ampio e approfondito, in merito alle ragioni, per le quali, vedi caso, i fatti presupposti di una “corruzione giudiziaria” (sic), oppure di altre fattispecie legali, sarebbero irrilevanti sotto il profilo della regolarità della condotta. Il factum, dunque, a prescindere dal titolo del reato della res iudicanda. L’obbligo della congrua motivazione esclude la possibilità del “semplice riferimento”, se formalistico e tautologico, alle pendenze, in quanto che esso non consente di rilevare eventuali controindicazioni rispetto al concetto di “ravvedimento”. Alla stregua di tale singolare mancanza, è patente, al giudice non è possibile stabilire la qualità effettiva della condotta, né ai fini dell’accoglimento dell’istanza, né ai fini del rigetto. E l’affaire si colora di mistero… buffo. 

Invero, pur rivoltata come un calzino, la pronuncia in tema omette non solo un’analisi “penetrante”, ma persino una pur vaga deduzione sul punto, un cenno, una parola, limitandosi a ribadire apoditticamente che le pendenze non ostano, e ignorando completamente il pregnante valore logico-giuridico, specificativo nella sua essenzialità, della locuzione avverbiale “di per sé”, viceversa e intensamente valorizzato, tra l’altro, dalla se
ntenza di legittimità del 1992, sopra richiamata.

Sotto tale decisivo profilo, è inteso, a nulla rileva il principio costituzionale di “presunzione di non colpevolezza”. Basterà considerare che anche a un imputato di strage, in ipotesi, in attesa di sentenza definitiva, spetta il beneficio costituzionale della presunzione di non colpevolezza. Una domanda, però, non può non intrigare. Ai fini della riabilitazione in ordine ad altre vicende giudiziarie, nelle more, quell’imputato può essere tout court riabilitato, in assenza di un’”analisi penetrante” dei fatti presupposti dell’accusa o, persino, della condanna per il delitto di strage, ancorché non ancora irrevocabile?  

Ne discende, con tutta evidenza, il vizio di nullità del provvedimento per invalidante difetto di motivazione.

Stranezze. Da patria del rovescio. Oppure, da Paese in… fibrillazione?   

(15 maggio 2018)
PANISSIDI La riabilitazione di Silvio. Note a margine di uno strano affaire di giurisdizione penale




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