È giusto dire sempre la verità?

Carlo Scognamiglio

In un libretto pubblicato da Cortina, alcuni brevi scritti di Kant e una salace riflessione di Constant ci inducono a chiederci se e in quali circostanze è lecito mentire.

Domandiamoci in primo luogo se l’essere sinceri costituisca una forma di dovere inderogabile; e poi, qualora ci ritrovassimo in accordo di massima con il principio dell’assoluta veridicità, deriviamone un’ulteriore domanda sul valore dei principi generali per la vita concreta. Questi i due interrogativi fondamentali, che emergono dal libricino pubblicato da Cortina, intitolato: “Bisogna sempre dire la verità?”, e che raccoglie alcuni brevi scritti di Immanuel Kant sull’imperativo morale della sincerità (ma anche una salace riflessione di Benjamin Constant sul medesimo tema). Il volumetto, presentato da una bella introduzione di Andrea Tagliapietra, non è un saggio filosofico di difficile lettura, nonostante l’annunciato peso metafisico della parola “verità”. Una parte dei testi qui raccolti sono piccoli scritti d’occasione, non tutti degni di considerazione filosofica, che possono incuriosire più che altro i lettori affezionati al grande Kant. Tuttavia, il volume include tre perle, che da sole valgono l’intero libro.
In apertura, c’è un intervento pubblico del filosofo francese Constant, pienamente immerso nella coda di assestamento della Rivoluzione (con la sua adesione alla politica del Direttorio), che può essere letto seguendo diverse chiavi interpretative, comunque interessanti. Constant prende le mosse dalla tesi kantiana dell’obbligatorietà di dire il vero in qualunque circostanza, come imperativo morale a priori, per negarne l’applicabilità concreta. Vi sono circostanze, infatti, in cui occorre mentire per salvare la vita di un altro essere umano. In tal caso, la menzogna non può avere il carattere di ingiustizia, ma corrisponde al suo opposto. Sulla scorta di questa osservazione, Constant solleva un altro problema, forse per lui più sensibile, che concerne la natura dei principi generali. Bisogna pensare al giacobinismo, nascosto tra le righe di Constant, quando egli rileva che solo chi non è in grado di ripristinare ciò che è stato spazzato via dalla storia, se la prende con la responsabilità dei principi astratti come causa del fanatismo rivoluzionario, e per altro verso chi non è in grado di portare avanti i propri propositi, accusa i principi astratti di impotenza. Tutti se la prendono con i principi. Il problema è che in molti sono convinti di scorgere con chiarezza la giustezza di alcuni principi, e di riconoscerli come puri, ma non è facile scorgere i principi “intermedi”, quelli che ne regolano la pregnanza pratica.

Riprendiamo un esempio proposto da Constant. Ammettendo come giusto il criterio in base al quale nessuno dovrebbe obbedire a leggi che non abbia contribuito a concordare secondo un processo democratico, è altrettanto vero il principio intermedio, e cioè che quella procedura può funzionare in piccole comunità, ma in un ampio consesso si muterebbe nel suo opposto, cioè nell’immobilismo o nel caos. Lo stesso vale per la questione della verità: in generale la menzogna è una prassi che mina ogni socialità, però anche l’assoluta sincerità rischia di compromettere molte dinamiche intersoggettive concrete. Con una formula sibillina, Constant ritiene di aver trovato la quadra: “Dire la verità è un dovere solo in rapporto a coloro che hanno diritto alla verità”, per cui, se un assassino bussasse alla mia porta per domandarmi il luogo in cui si nasconde la sua vittima, non avrebbe con ciò diritto a una risposta sincera.

Se ne deve dedurre che i principi sono astrazioni inutili, e che occorre solo un po’ di buon senso? Non è così, secondo il filosofo francese: “Dicendo che i principi astratti sono solo teorie vane e inapplicabili, essa enuncia, a sua volta, un principio astratto, perché, appunto, questa opinione non è un fatto particolare, ma un risultato generale” (p. 85). Non si può lasciare tutto all’arbitrio. Senza punti d’appoggio, conclude saggiamente Constant, tutto vacilla.
Immanuel Kant resiste pochi giorni alla tentazione di replicare all’articolo in cui era stato chiamato polemicamente in causa (senza essere mai stato citato direttamente, ma riconoscibile sotto la semplice etichetta “un filosofo tedesco”, adoperata da Constant), e pubblica un articolo di risposta a strettissimo giro. Lo stile di Kant è sempre fulminante, e coglie immediatamente il difetto tecnico del suo bersaglio: “è da rilevare, innanzitutto, che l’espressione ‘avere diritto alla verità’ è priva di senso” (p. 88). E ha ragione. In punta di logica, le obiezioni di Constant al principio di veridicità non reggono. Dire la verità, osserva Kant, è un diritto e un dovere, di tipo incondizionato. Nel caso dell’assassino, la conseguenza drammatica di un’eventuale risposta sincera non dev’essere attribuita a chi sceglie di non mentire, ma a circostanze altre mai completamente controllabili. Ad esempio, può darsi che il delitto venga commesso, ma anche che mentre il padrone di casa dice ciò che sa, il perseguitato riesca a fuggire da una finestra e salvarsi. Vale lo stesso in caso di bugia: l’assassino si allontana, ma magari nel frattempo la sua preda era uscita di soppiatto e incontrando il carnefice che si allontana potrebbe restarne ucciso. Mentire è in contraddizione con l’umanità stessa. Chi mente, riduce sé stesso a meno di una cosa. Delle cose infatti si può riconoscere un’utilità. Di un mentitore, nessuno sa cosa farsene. Kant sembra aver ragione, ma quell’appello di Constant a cercare anche i principi intermedi per l’applicazione alla prassi di regole generali, continua a stuzzicare il nostro animo, perché non si può non scorgere un pezzo di verità anche in quel punto di vista.

C’è un altro saggio, molto intrigante, in questa raccolta. Si tratta di una Lezione sulla veridicità, del 1775, recuperata dagli appunti degli allievi di Kant. Non vi ritroviamo particolari approfondimenti filosofici, ma un’interessante carrellata di considerazioni su reticenza, menzogna, simulazione e quant’altro. Un piccolo saggio di pragmatica filosofica.

Vale la pena di chiudere con una bella citazione che mi è capitato di ritrovare nel libro, in una lettera inviata da Kant alla signorina Maria Von Herbert: “Il valore della vita in generale, come quantità di bene di cui possiamo godere, è sopravvalutato dagli uomini. La vita è invece degna di valore per ciò che noi possiamo fare di buono e occorre conservarla con rispetto e cura e servirsene lietamente per buoni scopi” (p. 141). La prima cosa buona che possiamo fare, evidentemente, è essere e rimanere persone sincere. E non è affatto una cosa da poco, né semplice.

(29 ottobre 2019)






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