É morto Maradona, “dio è morto”

Fausto Pellecchia

Perché a Napoli, come e forse più che a Buenos Aires, si piange la morte di Maradona, il genio del calcio, divinità assoluta e dissoluta, ad un tempo esaltante ed eccessiva? Probabilmente per due ragioni che affondano le loro radici nel carattere dionisiaco dei popoli diseredati e martoriati del sud del mondo.
La prima, ovviamente, riguarda le sue memorabili imprese calcistiche: perché, diversamente dal Dio del culto religioso, era sufficiente assistere alle sue scorribande, inframmezzate da accelerazioni sovrumane, tra i lampi di gloria di un gol inverosimile, ottenuto nel momento stesso in cui, con una levità e una grazia divine, sembrava soccombere stremato al suolo. Ma ad essa è strettamente connesso il simbolo di un riscatto e di una redenzione profana degli ultimi della terra. Maradona ha incarnato il dio sognato da Nietzsche, innocente e amorale, in grado di prendersi gioco delle leggi della fisica e del diritto. In un’epoca come la nostra, in cui si venerano la sorveglianza e il controllo degli individui, egli impersonava quella pulsione ctonia, divinamente ludica, a cui noi uomini del terzo millennio non avremmo voluto rinunciare: la libertà sovrana di creare al di là del bene e del male.
“Dio è morto” potrebbe essere il titolo che riassume le odierne commemorazioni dei media; naturalmente, anche di quelli che non hanno mai brillato per i loro scoop metafisici e, meno che mai, per simpatie nietzscheane. Bisognerebbe immaginare un dio calciatore, e raccontare che si incarnò in Argentina, nelle miserabili favelas di Lanus, nei pressi di Buenos Aires, e che prese precocemente a fare miracoli dentro un rettangolo erboso. Contrariamente al suo omologo sempiterno, dall’esistenza inverificabile, la vita e le opere di Maradona sono ampiamente verificate, e i suoi miracoli sono stati riconosciuti universalmente. Non c’è bisogno di alcuna indagine della Santa Sede o di avviare un procedimento di beatificazione. Sta di fatto che questo dio era un uomo terragno e grossolano, talvolta incontenibile come un selvaggio. Si chiamava Maradona, Diego per gli amici: un nome che i tifosi del Napoli hanno dato a migliaia di bambini nati ai piedi del Vesuvio, quando Maradona regalò ai napoletani l’insperata soddisfazione della conquista di due scudetti.
In che senso era Maradona era un dio? In omaggio al suo genio, tutto gli è stato perdonato: non solo per la genialità dei suoi piedi ma, a ben guardare, anche della sua testa e di tutto il suo corpo. Il genio che abitava in lui, tanto sottile quanto brutale, era in grado di creare attraverso lo sbilanciamento e la sproporzione. Sapeva mantenersi sul filo imprevedibile nella velocità come nella direzione della sua corsa: quando credevi che stesse finalmente per scivolare, con un’improvvisa piroetta, riusciva a capovolgere la situazione andando in gol. Ed anzi faceva le due cose contemporaneamente: mentre cadeva sotto il placcaggio o la spinta di un avversario, nell’attimo di capitolare al suolo cadendo, usava la sua caduta come artifizio per segnare. La caduta non equivaleva per lui alla fine, ma alla prosecuzione del gioco con altri mezzi. Se c’è una lezione che Maradona ci lascia, e che si può scoprire solo osservando i suoi movimenti al rallentatore, è proprio questa: creare è possibile solo se si è in procinto di cadere. Nello squilibrio, si cela la possibilità del nuovo. A quei rari detrattori che deplorano gli eccessi di Maradona, bisogna ricordare questa equazione vitale che è stata la sua formula esistenziale. Non era un calciatore, né un uomo, e neppure un dio come gli altri. Egli esisteva nel senso etimologico dell’ek-sistere, del tenersi costantemente al di là di sé stesso. Quanto a coloro (più numerosi) che ora sono rattristati dalla sua morte, si può azzardare un estremo tentativo di consolazione, considerando che non si riesce a cogliere fino in fondo ciò che la morte può togliere o aggiungere a colui che era un dio già in vita. E tuttavia, questa incertezza di noi spettatori non può significare misconoscere o screditare la fondatezza del lutto dei napoletani.
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Ci sono buone ragioni per chi piange Maradona. Non soltanto perché sapeva dribblare in corsa sei o sette giocatori prima di andare in rete (anche se questo è un elemento rilevantissimo) ma perché, in un mondo di controllo politico e di sorveglianza, in cui la prevenzione e le precauzioni hanno preso il sopravvento su ogni rischio e in cui l’indennità ha la precedenza sulla libertà, in questo vecchio mondo affetto da un infantilismo di ritorno, Maradona è stato davvero l’ultimo fanciullo. Un enfant terrible che si faceva beffe degli uomini e delle regole, dribblandole e sfiorandole mentre le sorpassava.

Per noi, devoti del conformismo di massa, quel ragazzo che ignorava le regole, che procedeva d’istinto, seguendo la propria legge, offriva lo spettacolo irresistibile del libero gioco delle facoltà. Niente poteva ostacolare la sua vitalità. Del resto, ad un fanciullo non si può fare una colpa della propria nativa sregolatezza: è innocente per principio. È per questo che a Maradona tutto fu perdonato, dentro e fuori del terreno di gioco. In un certo senso, agli innocenti è permesso avere le mani sporche: della terra del campo di pallone, come di cocaina o di alcol, ma anche di gioia, di follia e di libertà. Maradona era questo dio che fu soltanto un uomo e che si incarnò integralmente, ancor più dello stesso Cristo, perché non c’è stato bisogno di credere in lui, di scrutarlo con l’occhio della fede. È stato sufficiente vederlo, per cogliere in lui la facies del dio sognato da Nietzsche: innocente, creativo e giocatore, come il fanciullo dionisiaco. Non un vecchio saggio, con una lunga barba, non un profeta; piuttosto, appena un ragazzaccio o un indomito furfantello, uno scugnizzo dei vicoli di Napoli. Per questo lo piangiamo: poco importa se siamo uomini di poca fede o zeloti del pallone, perché oggi abbiamo perso il figlio di un mondo che non c’è mai stato.
 

(27 novembre 2020)




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