Economia, un punto di vista dominante
Pierfranco Pellizzetti
metodi contabili sono convenzioni sociali
in evoluzione. […] Che riflettono le idee,
le teorie e le ideologie dell’epoca in cui
sono concepiti»[1].
Mariana Mazzucato
curva esponenziale della produzione è anche
la curva esponenziale dei rifiuti»[2].
Giorgio Ruffolo
Albert O. Hirschman, Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano 1993
David Pilling, L’illusione della crescita, il Saggiatore, Milano 2018
Novembre 2008. A meno di due mesi dal crollo della banca d’affari newyorkese Lehman Brother, dimostrava di averlo capito perfino la regina Elisabetta II d’Inghilterra quando, durante il tradizionale incontro con gli economisti della London School of Economics, pose loro la domanda decisiva (e ferale): «come è possibile che nessuno si sia accorto che stava arrivandoci addosso questa crisi spaventosa?»[3].
Una crisi che «affonda le sue radici nella deregolamentazione al ribasso, in una fede ingenua nella capacità dei mercati di correggersi da soli e nella perversa ideologia del ‘valore per l’azionista’, che ha consentito a poche migliaia di banchieri padroni dell’universo di saccheggiare i propri istituti senza sentirsi in colpa»[4]. Cocktail micidiale, cui va aggiunta la bomba a orologeria della cosiddetta cartolarizzazione, ossia la tecnica con cui una banca trasforma crediti illiquidi in titoli cedibili sul mercato, liberandosi del rischio relativo a scapito dell’acquirente, nonché la serie infinita degli altri “derivati”; titoli che – appunto – derivano il loro valore da un altro asset finanziario oppure da un indice specifico.
Giochi di puro prestigio, che funzionano fino a quando non esplodano le bolle speculative conseguenti. Come nel fatidico 2007/2008.
Già scriveva Luciano Gallino a tale proposito: «una sola cifra può dare un’idea del volume di titoli che non hanno altra base se non un’ipotesi su un futuro scollegato da qualsiasi attività produttiva: per il 2010 si stimava che il valore nozionale o nominale dei derivati in circolazione ammontasse a 1,2 quadrilioni di dollari. Il PIL mondiale di quell’anno arrivava a malapena a 60 trilioni di dollari»[5].
La follia emersa e dilagata a fine Novecento, sommatoria all’ennesima potenza di avidità e incoscienza, percepita compiutamente soltanto nel corso del primo decennio successivo, e che comincia a essere oggetto di crescente esecrazione: a partire dai movimenti dell’indignazione, acquartierati dal 2011 nelle civiche piazze di oltre 950 città, per poi assurgere a vere e proprie icone cinematografiche; quali The Wolf of Wall Street, diretto nel 2013 da Martin Scorsese con Leonardo Di Caprio, o The Big Short di Adam McKay con Brad Pitt e Christian Bale (2015).
Tragica epopea che – come ormai iniziamo a rendercene conto – ruota attorno alla declinazione distorta del concetto di crescita. Ossia l’idea che la corsa a un ininterrotto accumulo quantitativo materiale – in altri termini “lo sviluppo” – sia l’essenza e la missione della civiltà occidentale. Per dirla con l’editorialista economico del Financial Times David Pilling, non solo il metro di misura ma anche le lenti con cui vediamo tutto, a partire dalla politica[6]. L’ideologia che guida le classi dirigenti nel ridisegno sviluppistico del mondo; dal tempo in cui il Capitalismo è assurto a one best way della Modernità. Appunto, nel rapporto collusivo tra tale ideologia e la politica. Come già altre volte ricordato, «una delle ragioni per cui i politici amano tanto la crescita economica è che consente di accantonare lo spinoso problema della distribuzione»[7]. Mistificazione smascherata dall’imprudente (o piuttosto proterva?) dichiarazione dell’ex dirigente di Federal Resetve Henry Wallich: «la crescita è un sostituto dell’eguaglianza di reddito. Finché c’è crescita c’è speranza, e questo rende tollerabili grandi differenze di reddito». La ragione subliminale per cui ancora non esplodono le ricche società del mondo “avanzato”; in particolare il suo capofila americano, dove i salari medi sono in stagnazione dagli anni Settanta, mentre le dimensioni della sua economia solo negli ultimi quindici anni erano cresciute dell’80%. A unico vantaggio dei detentori di capitale.
Sia come sia, secondo il professore emerito all’Institut universitaire de hautes études internationales et du développement (IHEID) di Ginevra Gilbert Rist, «questa credenza ha permesso in primo luogo di giustificare l’incredibile ‘progresso nella prosperità’ dei paesi del Nord; essa è poi servita da garanzia a cinque decenni di entusiasmi messianici nel corso dei quali si è fatto di tutto per accelerare e realizzare la generalizzazione di un benessere materiale ricalcato su quello dei paesi detti sviluppati»[8]. L’omologazione planetaria come globalizzazione finanziarizzata: l’assiomatica dell’interesse che esclude qualsivoglia forma di benevolenza; con la sua illusione di rappresentare l’estensione del mercato autoregolantesi all’intero orbe terraqueo. Un altro mito di cui aveva fatto piazza pulita l’economista ungherese Karl Polany nel lontano 1944 («non vi era nulla di naturale nel laissez-faire. I mercati liberi non avrebbero mai potuto esistere se si fossero lasciate le cose al loro corso»[9]).
Eppure questa storia plurisecolare era iniziata con premesse ben più rassicuranti; come ci ha raccontato uno straordinario “irregolare” quale Albert Otto Hirschman, grazie al suo sapiente zizzagare tra economia, storia e psicologia sociale, nel suo aureo libello sottotitolato “argomenti in favore del capitalismo prima del suo trionfo”.
Un ragionamento che riformula la classica domanda che già si era posto Max Weber nel celebre saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo («come poterono nell’età moderna acquistare rispettabilità il commercio e la banca e le altre attività dirette al solo guadagno, dopo che per secoli erano state condannate o disprezzate come forma di cupidigia, amore del lucro e avidità?»[10]); dandosi una risposta assi diversa da quella weberiana.
Secondo Hirschman il punto di intersezione non avviene nella sfera religiosa, ma concerne l’esaurimento (con relativo discredito) dell’ideale cavalleresco, la sua ideologia dominata dal principio aristocratico dell’onore. Sicché la ricerca di una nuova base di ancoraggio portò alla scoperta che «una categoria di passioni sino ad allora note come avidità, cupidigia, amore del lucro potesse essere utilmente impiegata per contrastare e imbrigliare altre passioni come l’ambizione, la brama di potere, la lussuria»[11]. La conseguente riclassificazione del “fare denaro” a “interesse”, contrapposto alla mentalità eroica dominante al tempo in cui egemone era la noblesse d’epée, divenne oggetto di apprezzamento, per essere investito del compito di arginare i devastanti effetti del perseguimento spasmodico di gloria e altre ambizioni. Mentre il commercio e il profitto – intesi come doux commerce – venivano valutati del tutto innocui.
Anzi, agenti universali di pacificazione, come riaffermerà ancora alla fine del XVIII secolo Immanuel Kant, nel suo progetto cosmopolitico di Pace Perpetua: «in questo modo parti del mondo lontano entrano in pacifici rapporti tra loro, e questi rapporti diventano col tempo formalmente giuridici e avvicinano sempre di più il genere umano a una costituzione cosmopolitica»[12].
Ecco quindi – con le parole dello stesso Hirschman – la presa di distanza dalla classica tesi sul rapporto Calvinismo e Capitalismo: «Weber e i suoi seguaci si interessavano primariamente ai processi psicologici in forza dei quali alcuni gruppi di individui si erano esclusivamente concentrati nella sistematica accumulazione capitalistica. Io, per mio conto, do per concesso che alcuni individui furono appunto tesi a questo scopo, ma ho piuttosto cercato di illustrare la reazione al nuovo fenomeno da parte di quelle che oggi si chiamano le élites intellettuali, manageriali e politiche. La reazione fu positiva non perché fossero di per sé approvate le attività lucrative, ma perché si pensava che queste avrebbero avuto uno straordinario effetto benefico collaterale: quello di tenere ‘fuori dalle tentazioni gli individui dediti a tali attività, ed in secondo luogo più specificatamente quello di imporre un freno ai capricci del principe, agli arbitri del governare, alle avventure di politica estera. […] Weber ritiene che il comportamento e le imprese del capitalismo erano l’indiretto e inizialmente fortuito risultato di una disperata ricerca della salvezza individuale. Io ritengo invece che la diffusione del sistema capitalistico molto dovette a una altrettanto disperata ricerca di un modo per evitare la rovina della società [13]».
Il capitalismo mercantile come salvezza attraverso lo scambio e la crescita. Poi le cose non sono andate come ci si prefigurava…
Questo perché dallo spirito mercantile si era generato un nuovo assetto pervasivo e intrinsecamente monomaniacale, centrato sull’accumulazione di ricchezza come ragione esclusiva dell’agire umano; attraverso due accadimenti epocali: la rivoluzione industriale che faceva seguito a quella scientifica, nell’emergere di ceti manifatturieri che applicavano le scoperte tecnologiche alla produzione, il trionfo della borghesia che imponeva la propria egemonia nelle modalità capitalistica della ricchezza che si riproduce attraverso l’investimento. Il doux commerce diventato forza selvaggia[14]. E – al tempo stesso – l’imposizione del paradigma accumulativo come chiodo fisso collettivo a Occidente: la prospettiva “unica” della Modernità.
Se le economie agricole erano fondamentalmente statiche, ora la Gran Bretagna, poi l’Europa e infine il Nuovo Mondo scoprivano quella moltiplicazione delle risorse che prende il nome di crescita. Un concetto relativamente nuovo, che si porta dietro quello di economia. E – dunque – la necessità di quantificarne gli apporti alla smithiana “ricchezza delle nazioni”. In una sequenza di tentativi che il saggio di Pilling pone in sequenza: da quello pionieristico di William Petty del 1652 di censire l’economia irlandese al Compte rendu au roi a Luigi XVI, redatto nel 1781 dal ministro Jacques Necker; per arrivare al 1933, quando Franklin Delano Roosevelt affidò all’economista bielorusso americanizzato Simon Kuznets il compito di creare una contabilità nazionale La data di nascita del paradigma contabile noto come PIL (nella definizione di Eurostat del 1995, “il conteggio annuale come attività economica di ogni transazione monetaria che le parti accettano volontariamente di partecipare”, registrata su base nazionale).
Con un vizio di fondo concettuale: «Uno dei problemi della crescita è che richiede una produzione infinita e (suo parete stretto) un consumo senza fine. Dobbiamo desiderare sempre più cose e sempre più esperienze a pagamento, se non vogliamo che la crescita, prima o poi, si fermi. Se vogliamo che le nostre economie continuino a progredire, dobbiamo essere insaziabili. La scienza economica moderna parte dal presupposto che il nostro desiderio di beni sia illimitato. Eppure, in fondo al cuore, sappiamo che questa strada conduce alla follia»[15]. Una presunta quanto folle insaziabilità formalizzata dai criteri di raccolta e organizzazione dei dati nei format del PIL. Strumento rivelatosi non solo imperfetto ma anche distorsivo fin dall’inizio (la sua attitudine a conteggiare come positive voci quali la droga, la prostituzione o più banalmente l’inquinamento e a lasciarsene sfuggire altre, come attività domestiche o le cure gratuite del servizio sanitario pubblico); oggi reso del tutto obsoleto dall’irrompere dell’economia digitale, che rende sempre più sfumata la distinzione tra lavoro, tempo libero, condivisione (sharing economy) e servizi a costo zero. La frontiera dello sfruttamento al tempo dei comportamenti colonizzati, in cui il fruitore dei servizi diventa lui la merce (l’estrazione dei big data a insaputa dell’utente, operata dai “signori del silicio” che controllano i social).
Le nuove modalità con cui viene diffuso lo storytelling illusorio della crescita. Alimentato dalle rappresentazioni della realtà indotte dal PIL. Se – come scrive Pilling – «una delle conseguenze più importanti della Seconda guerra mondiale fu l’invenzione della bomba atomica […]. Proprio come la bomba atomica, l’invenzione del PIL ebbe un impatto terribile»[16].
Non è dato sapere se in un futuro più o meno prossimo verrà presentato, in sede penale presso il tribunale dell’umanità, l’immane conto per il massacro di esistenze consumato sotto l’altrettanto immane illusione della crescita economica. In particolare, le mattanze di quest’ultima fase storica; compiute mediante la monetizzazione di qualsivoglia “valore”; dalla salute (di chi non può permettersi cure mediche a pagamento) all’acqua che beviamo.
Nel frattempo, il nostro amico Pilling, in procinto di terminare l’excursus, preferisce concentrarsi sulla questione abbastanza minimale di come andare oltre il meccanismo vigente di rilevazione; quel PIL a cui ora addebita carenze derivate dal fatto «che la L [dell’acronimo] sta per lordo, che tiene scarsamente in conto il deprezzamento dei beni, specialmente quelli naturali, e anche gli effetti collaterali della produzione»[17]. Un po’ l’obiezione scontata, normalmente attribuita a Robert Kennedy: «il PIL misura tutto, meno le cose che rendono la vita degna di essere vissuta».
C’è ben di peggio, come ci si chiedeva nelle pagine precedenti; meno pompieristiche: a fronte dell’attuale compromesso in corso tra crescita e inquinamento, «quelle parti della ‘crescita’ che rendono un inferno la vita delle persone e le uccidono prematuramente sono davvero degne di essere chiamate crescita?»[18].
Tuttavia l’abito mentale del pensiero economico mainstream (dice Thomas Piketty: «la disciplina economica non è mai guarita dalla sindrome infantile della passione per la matematica») ci riporta sul luogo del delitto, limitandosi a proporre l’adozione di nuovi metodi di misura capaci di ridurre in cifre – a una cifra – le dimensione della ricchezza sociale: il “PIL verde” sperimentato in Cina, una “Economia della felicità” studiata negli atenei londinesi o il sistema IPO applicato nel Maryland, e così via.
Comunque dando ennesima conferma che l’economia e i sui monozigotici gemelli crescita&sviluppo sono eminentemente punti di vista. E la scienza che vi si applica una sorta di genere letterario che – parafrasando Freud – soffre di “invidia della fisica”. E qui torniamo a Hirschman: «data l’importanza del ferro – simbolo dell’industria e della potenza – nell’Ottocento, per i primi economisti non era abbastanza uscirsene con una legge: doveva essere una ‘legge ferrea’. L’imitazione di Newton – e specialmente della sua meccanica – si spinse ancora più avanti con la scoperta addirittura di ‘leggi del moto’. […] Per questa via lo stesso cambiamento sociale fu assoggettato a regolarità immaginarie, ben presto contraddette dal corso degli eventi»[19]. Sicché – come ebbe già a scrivere anni prima il decano di Princeton – «altri scienziati sociali hanno criticato questo modo di concepire la ricerca di soddisfazione e felicità da parte dell’uomo. In primo luogo, accusano gli economisti di aver immaginato, estendendo a tutte le altre attività umane un’analisi che à appropriata solo per il mercato, che la coda possa dimenare il cane».[20]
[1] Mariana Mzzucato, Il valore di tutto, Laterza, Roma/Bari 2018 pag. 83
[2] G. Ruffolo, “Il fischio di Algarotti ovvero la Sinistra congelata”, MicroMega 1/1992
[3] Cit. in R. Petrini, Processo agli economisti, Chiarelettere, Milano 2009
[4] D. Pilling, L’illusione, cit. pag. 64
[5] L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino 2015 pag. 39
[6] D. Pilling, L’illusione, cit. pag. 38
[7] J. Hickel, The Divide, il Saggiatore, Milano 2017 pag. 285
[8] G. Rist, Lo sviluppo, storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1996 pag. 238
[9] K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974 pag. 178
[10] A. O. Hirschman, L passioni, cit. pag. 15
[11] Ivi pag. 36
[12] I. Kant, Antologia di scritti politici (a cura di G. Sasso), il Mulino, Bologna 1977 pag. 125
[13]A. O. Hirschman, Le passioni, cit. pag. 94
[14] Ivi pag. 92
[15] D. Pilling, L’illusione, cit. pag. 12
[16] Ivi pag. 29
[17] Ivi pag. 198
[18] Ivi pag. 138
[19] A. O. Hirschman, Autosovversione. Il Mulino, Bologna 1997 pag. 171
[20] A. O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, il Mulino, Bologna 1995 pag. 27
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