Educazione di un neonazista. Raffaele e le anime nere di Verona

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VERONA – Nicola e Raffaele – Nicola dieci anni prima di Raffaele, dieci anni prima di essere ucciso da Raffaele – hanno studiato nello stesso liceo, lo "Scipione Maffei", fiero di essere il più antico liceo d’Italia. Nato nel 1804, promosso da Bonaparte, il "Maffei" è orgoglioso della sua storia bicentenaria, ma anche delle virtù custodite, generazione dopo generazione, in una carta dei valori che onora "lo spirito critico; la laboriosità; la legalità; l’assunzione di responsabilità; la coscienza dei diritti e dei doveri".

È un impegno che si respira nelle aule dell’antico convento domenicano annesso alla Chiesa di Santa Anastasia, a due passi da Piazza Erbe, da Piazza dei Signori, dal cuore storico di Verona. Il liceo non è un luogo abitato da svuotati, sprecati. Né è attraversato dall’"analfabetismo emotivo", dalla "follia morale", dall’"ospite inquietante" del nichilismo, o come più vi piace definire l’infelice condizione giovanile del nostro Paese. Al "Maffei" si discute molto. Si lavora molto. Si impara a dare forma di parola alle emozioni, nutrimento e argomenti per le passioni e le idee.

Qui è radicata la consapevolezza che la democrazia sia "ars dubiae". Si ha fiducia "nella tolleranza, nel rispetto, in una solidarietà generosamente disponibile, in un reale e radicale rispetto di se stessi e degli altri". Sono pratiche quotidiane e non predicazione (gli studenti, per dire, si tassano ogni anno di 250 euro e quest’anno hanno deciso spontaneamente di aumentare l’obolo di solidarietà). E allora bisogna chiedersi dove nasce la muffa aggressiva che ha rovinato i giorni di Raffaele e spezzato la vita di Nicola?

"Ce lo siamo chiesti – dice con "doloroso stupore" il preside Francesco Butturini – e ancora ci interrogheremo con i docenti, gli studenti, i genitori. Ci siamo chiesti se abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per educare gli studenti alla buona cittadinanza. Noi crediamo di aver sempre cercato attraverso l’insegnamento quotidiano e le attività educative complementari, che qui non sono poche, di inculcare negli allievi i principi della civile convivenza. Non è stato sufficiente per insegnare a Raffaele ciò che è lecito, ciò che non lo è, ciò che non è nemmeno pensabile o ipotizzabile. Mi sento sconfitto, come ho detto ai ragazzi, ma non complice. Non siamo stati né indifferenti né distratti. Quando Raffaele si rifiutò di entrare in sinagoga durante un viaggio di studio; quando affrontò il presidente dell’associazione vittime della strage di Bologna rivendicando l’innocenza di Luigi Ciavardini, segnalammo quell’atteggiamento alla famiglia. Al contrario, la questura non ci informò che Raffaele era indagato da un anno. Avremmo potuto fare di più e continueremo a farlo nel dialogo e nel confronto con i ragazzi. Senza dimenticare Raffaele. Non intendiamo abbandonarlo in questo momento e speriamo che Raffaele accolga il nostro invito; comprenda il suo tragico errore; accetti di incamminarsi su una strada radicalmente differente da quella finora seguita".

Il preside non vuole e forse non può dire di più. Il deficit del circuito istituzionale e mediatico (perché la Digos non allertò la scuola? perché i giornali cittadini non diedero conto, come d’abitudine, dei nomi degli indagati?) descrive un’occasione perduta di "recupero", di disvelamento, ma non spiega le ragioni della "caduta" di Raffaele in un "rito della crudeltà", per nulla occasionale o impulsivo, che nel tempo si è esercitato nel cuore di Verona contro "i negri"; i capelluti "comunisti" dei centri sociali; tre paracadutisti delle Folgore nati al Sud; un povero cristo con la maglia del Lecce; un tipo che mangiava un kebab; un ragazzino maldestro nell’usare lo skateboard. Pedina, "soldatino" – Raffaele – di una cerchia che, visitata dai poliziotti, disponeva di manganelli, pugnali, coltelli, un’accetta e di libri che negavano l’Olocausto, di bandiere con la croce uncinata, di foto di Hitler e Mussolini. L’aula della II E, che Raffaele frequenta (o frequentava), è al di là dell’antico chiostro in fondo al corridoio. I compagni e le compagne di Raffaele hanno come il muso. In questi giorni i giornalisti, protestano, hanno manipolato le loro opinioni, le hanno rimaneggiate per creare uno sciocco sensazionalismo. Non vogliamo difendere Raffaele, dicono, perché quel che ha fatto è gravissimo e se ne deve assumere tutto il peso, ma se ci chiedete se fosse un mostro, allora no, noi dobbiamo rispondere che non lo era, che non si è mai comportato da mostro. Era in modo radicale di destra e discuteva con chi non lo era, o era di sinistra, senza aggressività. Si è rifiutato di entrare in sinagoga, ma siamo abbastanza certi che, se avesse avuto un compagno di banco ebreo, non lo avrebbe maltrattato o deriso a scuola, dove il suo comportamento è stato sempre corretto. Questo vuol dire, chiedono, assolvere Raffaele? Vuol dire raccontare, dicono, quel che sappiamo di lui. Che non era tutto. Purtroppo.

Accanto alla fontana senz’acqua del chiostro, Giulia Tombari e Simone D’Ascola provano a ragionare – ancora una volta, in questi giorni – su quei perché. Come è potuto accadere a un loro compagno di scuola? Giulia è minuta, nervosa, stanca. Dice parole secche e sincere. Le accompagna con un gesto. Indica il grande arco che dà sulla strada. "Qui non c’è spazio per l’ignoranza che produce l’ottusa violenza senza scopo di Raffaele. Raffaele è stato travolto da quel che c’è là fuori, oltre quel cancello. Se un responsabile e una responsabilità si deve cercare, va trovata non in questo liceo, ma nella città. In quella Verona dove può capitare – e capita spesso – che si senta dire in autobus "non siedo qui, accanto a questo negro" e nessuno che, intorno, disapprovi o censuri quelle parole… Magari chi le ascolta, non oserebbe mai pronunciarle, ma le giustifica". Simone è alto, allampanato, meno disinvolto di Giulia. Come Giulia, ha idee lucide e asciutte. "In questa storia, si usano le parole per nascondere quel che è accaduto e ancora può accadere. Si dice: Raffaele era un bullo. Non lo era. Si dice: è un delinquente. Non lo era. Si dice: è solo una mela marcia, è un caso isolato. È falso che sia la sola mela marcia del cesto, il caso non è isolato ma addirittura, nella sua assurdità, ordinario. Si dice: la politica non c’entra. E invece, c’entra, eccome, se politica è l’odio per il diverso, se politica è un’ideologia diffusa là fuori – anche Simone indica l’arco, il cancello, la strada – che legittima chi vuole liberarsi di chi non è uguale a te, per colore della pelle, per convinzioni, per religione, per la lunghezza dei capelli. Tutto questo ha un nome: razzismo, xenofobia. Se si usano le parole appropriate, le ragioni della morte di Nicola – e di quel ha combinato Raffaele con i suoi amici – saranno evidenti. È quel che dovreste fare: chiamare le cose con il proprio nome".

Chiamare le cose con il loro nome. È naturale pensare che sia un buon consiglio mentre si risale via Massalongo e poi corso Santa Anastasia verso Piazza Erbe. Come appare necessario rimettere insieme la realtà di un corpo sociale che solitamente si offre frammentata, sconnessa, quasi in penombra, occultata da parole accortamente ambigue. Chiamare le cose con il loro nome, dunque. Le violenze e i pestaggi nel cuore di Verona sono comuni e ritualizzati. Piazza Viviani, via Mazzini, Veronetta, Volto San Luca, Corso Cavour, piazza Erbe ne sono state le sce
ne negli ultimi mesi.

Puoi essere picchiato per un nonnulla. Puoi prendere una bottigliata in testa per un amen. Non importa la ragione occasionale. Non è quello che conta. Non è per lo spino rifiutato che muore Nicola. Nicola muore, dicono, "perché ha il codino", perché dunque è diverso, perché "non è conforme" e gli (improvvisati o professionali) addetti al futuro della città e alla custodia del suo passato e delle sue risorse escludono i diversi: "diverso – dice il procuratore Guido Papalia – è non solo il diverso per razza, ma diverso perché si comporta il mondo diverso; pensa diversamente; ha un atteggiamento diverso; si veste in modo diverso e quindi non può convivere nel centro della città che i razzisti vogliono chiusa ai diversi". In uno stato di smarrimento sociale, si radunano per difendersi le persone spaventate – la paura è coltivata con sapienza a Verona che molto ha faticato per raggiungere il benessere di oggi. Passano all’azione in nome di "un’identità minacciata". Identità, insegna Zygmunt Bauman, è un concetto agonistico. È come un grido di battaglia. Fragile e perversamente "coraggioso", Raffaele sente quel grido, lasciata l’aula del "Maffei" e le fatiche democratiche di "maffeiano".

Lo sente allo stadio dove impiccano il fantoccio di un calciatore "negro". Lo ascolta forte nella propaganda dei "nazistoni" del "Blocco studentesco". Lo intende nello stile di vita dei suoi compagni di bevute e di scorribande notturne tra le stradine della città. Afferra quel sentimento nella pianificazione del prossimo pestaggio, nelle risate, nella soddisfazione che segue. Raffaele avverte soprattutto che quel che fa, quel che pensa è condiviso perché in città c’è un sentimento che non lo biasima e non lo biasimerà. Hanno ragione Giulia e Simone.

È "politico" tutto questo? Quale ipocrita può negarlo: certo che lo è. E non vuol dire che ci sia un partito politico, una fazione di un partito politico, un gruppuscolo che organizza o programma quelle violenze. Vuol dire che c’è a Verona una "cultura" dell’esclusione che irrigidisce e sorveglia il confine tra "noi" e "loro" e "loro" diventano anche quei veronesi – moltissimi, e tra i moltissimi Nicola – che rifiutano o non avvertono il "potere seduttivo" di quell’"appartenenza".

Chiamare le cose con il loro nome. È difficile contestare che il sindaco di Verona, Flavio Tosi, alimenti la "naturalezza" di quel grido di battaglia "identitario". Che diffonda il presupposto che "si appartiene per effetto della nascita". Non per altro, qualsiasi cosa tu sia e faccia. Flavio Tosi non è un fascista. È un leghista che ama i fascisti, li coccola, li asseconda, forse cinicamente se ne serve. Oggi che la tragedia si è consumata, è evasivo, a volte frivolo, a volte ringhioso quando gli si ricorda che appena in dicembre ha sfilato accanto a nazisti del Veneto Fronte Skinheads; che appena qualche anno fa (11 settembre 2005) offrì le sue parole solidali – con una visita in carcere – a cinque giovani fascisti che avevano massacrato e accoltellato due ragazzi di sinistra, frequentatori di un centro sociale.

Tosi ha grandi ambizioni politiche (sarà il nuovo governatore del Veneto nel 2010?) e questa storia tragica, da cui non riesce a uscire senza danno pubblico o con un alleato in meno, può azzopparlo. L’opposizione gli ha chiesto che si scusi di quelle spensieratezze. Tosi non ha trovato ancora la forza di farlo. Chiamare le cose con il proprio nome. Verona – città straordinariamente generosa nella solidarietà e nel volontariato – assiste al suo incrudelimento distratta, indifferente, senza rimorso o colpa. Guarda da un’altra parte per non vedere, per non vedersi, per non interrogarsi. Come il vescovo, monsignor Giuseppe Zenti. Scrive ai giovani della città. Immagina di inviare sms per conto di Nicola. Scrive: "Abbiate fiducia nelle grandi vette. Valorizzate i giorni della giovinezza. Fatevi onore. Fateci vedere quanto valete. Realizzate una vita di grande qualità, degna dell’essere giovani".

Come se esistessero soltanto le scelte personali e non anche le responsabilità collettive, i modelli culturali, i quadri pubblici, l’assenza della benché minima opera di manutenzione sociale (senso civico, legalità). Come se Nicola e Raffaele non fossero caduti su quella "trincea profonda e invalicabile scavata in città tra il "fuori" e il "dentro" di un territorio e di una comunità". Al portone del Bra, ricorda Francesco Butturini, è scolpita una frase dell’Amleto: "Non c’è mondo, fuori di questa città". C’è a Verona chi sembra crederlo per davvero. Raffaele lo ha creduto. Troppo facile ora dirlo solo un delinquente. Troppo ingiusto dire, la morte di Nicola, "un caso isolato".

da Repubblica, 8 maggio 2008

(9 maggio 2008)



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