Effetto Covid. Donne sull’orlo della crisi
Maria Concetta Tringali
Le donne rischiano di pagare di più il conto della crisi. Per fare in modo che non si allarghi ulteriormente la forbice delle disuguaglianze di genere sono necessarie misure urgenti (e ingenti). Come quella chiesta a gran voce con l’hashtag #halfofit: metà dei fondi anticrisi per provvedimenti tesi a colmare il gap di genere.
Si chiama #halfofit. L’hashtag lancia un messaggio inequivocabile: la metà dei fondi anti-crisi Covid-19 per le donne. Si tratta di una petizione – gestita da Alexandra Geese, Membro del Parlamento europeo, Verde/EFA – che porta la firma di femministe, rappresentanti del mondo accademico internazionale, di quello dell’arte e della politica. Tra questi, anche Rossella Muroni, parlamentare di LEU, e Lia Quartapelle, deputata del Partito democratico.
L’iniziativa è fin troppo chiara, nella definizione di obiettivi e di strategie. Persino la scelta della piattaforma non è casuale, si chiama You Move Eu ed evoca uno spazio in cui costruire l’Europa del cambiamento. Destinatari sono la Commissione e il Consiglio, istituzioni davanti alle quali #halfofit richiama la Carta europea dei diritti fondamentali, che all’art. 23 impone la parità tra donne e uomini, in tutti i settori, compreso l’impiego, il lavoro e la retribuzione. “Chiediamo che garantiscano che almeno la metà del Fondo per la ripresa e la ricostruzione sia spesa per l’occupazione e la promozione dei diritti delle donne, nonché per la parità tra i sessi. Ciò dovrebbe essere in linea con la strategia per l’uguaglianza di genere della Commissione europea adottata nel marzo 2020”.
Ma, andiamo a monte. Il motivo per cui chiedere la destinazione di metà delle risorse a favore delle donne qual è? La risposta è nei dati e nelle prospettive del prossimo futuro. Gli effetti della pandemia cominciano a delinearsi. Il rapporto di Oxfam, pubblicato nel mese di aprile, si intitola “Dignità, non miseria” ed è una conferma di quanto la crisi seguita al Covid-19 ci impoverirà tutti. Lo studio – che elabora dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, come dell’Osservatorio dei diritti umani – finisce per rilevare come mezzo miliardo di persone stia scivolando sotto la soglia di povertà. Ma c’è di più. La pandemia rafforza e accresce le disuguaglianze di genere. “Sebbene il virus paia uccidere in misura maggiore gli uomini, le donne soffrono di più e in molti altri modi”, il report chiarisce uno scenario che conosciamo bene. “Oltre il 70% di chi lavora in ambito sanitario – i più esposti al virus – è costituito da donne. Le lavoratrici sono per lo più precarie e dunque non hanno tutele. Nei paesi più poveri il 92% delle donne lavora in nero”. Completano il quadro il lavoro di cura, mai retribuito, e che è cresciuto esponenzialmente con il lockdown, come anche l’incremento delle violenze domestiche, degli stupri e delle conseguenti gravidanze precoci, cui inevitabilmente sono esposte le vittime rinchiuse in casa.
Il salvataggio e la ricostruzione, insomma, non possono e non devono ignorare il gap di genere. Non ci sarà vera ripresa altrimenti, per nessuno.
In Italia è il Censis che prova ad indagare gli scenari che seguiranno alla pandemia. Con il contributo del Dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri nasce Respect: Stop violence against women che consegna un resoconto perfettamente in linea con quanto detto. Il progetto parte da una fotografia – “Lontane dagli uomini, lontane dall’Europa” – evocativa e drammatica: “In Italia le donne che lavorano sono 9.768.000 e rappresentano il 42,1% degli occupati complessivi. Con un tasso di attività femminile del 56,2% siamo all’ultimo posto tra i Paesi europei, guidati dalla Svezia, dove il tasso raggiunge l’81,2%. Le donne italiane sono molto lontane anche dal tasso di attività maschile, pari al 75,1%. E sono indietro anche nel tasso di occupazione, che nella fascia di età 15-64 anni è del 49,5% per le donne e del 67,6% per gli uomini”. Nel confronto europeo per il tasso di occupazione femminile, l’Italia è seguita solo dalla Grecia.
Il rilevamento accende insomma il faro sulla discriminazione che pervade la nostra struttura sociale, in ogni ambito e a ogni livello. L’istantanea è quella di un mondo che mortifica il talento delle donne.
La sintesi di quei risultati dà poi l’idea di quanta strada si debba ancora fare “In Italia solo un dirigente su quattro è una donna: 159.000 in valore assoluto, mentre gli uomini sono 468.000; le donne manager sono appena il 27% del totale (quando il valore medio è pari al 33,9%)”.
Ecco perché non si possono sottovalutare le parole di Massimiliano Valerii. Un vero e proprio segnale d’allarme, quello lanciato dal direttore del Censis che ricorda come la componente femminile sia già in partenza una delle più fragili del mercato del lavoro. Per fare un passo indietro ci vuole davvero pochissimo: “Nell’immediato il rischio è che lo smart working, il lavoro da casa, si traduca in una trappola. E nel medio termine, poi, saranno verosimilmente proprio le donne a pagare il prezzo più alto”. Il capo del Centro Studi Investimenti Sociali si riferisce al pericolo concreto e reale di espulsione dal mercato del lavoro. Per contro la critica va all’assoluta inadeguatezza di provvedimenti tampone quali i temporanei bonus bebè o i voucher per le collaboratrici familiari, o i congedi parentali al 50% della retribuzione: tutte misure inefficaci. Se solo consideriamo che una donna – quando riesce a lavorare – mediamente guadagna il 25% in meno rispetto a un uomo, è chiaro come ci sia bisogno di politiche di ben altro calibro.
Ma il problema – non bisognerebbe stancarsi di dirlo – è di origine culturale.
La prova del nove ce la fornisce sempre Censis, attraverso un’indagine – in Respect 2019 – sul grado di accordo con l’affermazione: “A volte è necessario/opportuno che una donna sacrifichi un po’ del suo tempo libero o la carriera per dedicarsi di più alla famiglia”. Questa la restituzione: Molto d’accordo il 28,6%; Abbastanza d’accordo il 35%. Gli intervistati ritengono perciò – in misura più che massiccia – che la realizzazione professionale e l’indipendenza economica di una donna siano un privilegio da posporre alle esigenze di cura della famiglia, necessità che gravano dunque unicamente e tutte su di lei. Poco d’accordo è il 21%. Per niente d’accordo solo il 15,5%.
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Cosa si desume dagli studi? Intanto che il post Covid potrebbe portare le donne a dover scegliere tra famiglia e lavoro. Il rischio che ciò accada è altissimo.
Conferme arrivano anche dall’Università di Pavia che in collaborazione con la Queen Mary di Londra e con l’ambasciata britannica a Roma consegnano un’indagine sulla presenza femminile nell’imprenditoria. Regno Unito e Italia arrancano e relegano le donne ai margini di quel settore: cinque su dieci uomini; mentre in paesi quali gli Stati Uniti o il Canada la proporzione è otto su dieci.
Prevedibile conseguenza, tanto del successo quanto del fallimento di una strategia politica di questo tipo, sarà una ricaduta inevitabile sulla questione della violenza domestica che è sempre drammaticamente aperta e che la quarantena ha anzi acuito e aggravato. L’Istat fa una fotografia che traduce in un’infografica eloquente: “Durante il lockdown sono state 5.031 le telefonate valide al 1522, il 73% in più sullo stesso periodo del 2019. Le vittime che hanno chiesto aiuto sono 2.013 (+59%)”.
Ecco che, delineato in questi termini il quadro, vista la fotografia di partenza, ciò che risulta evidente è che ci si debba battere. Occorrerà chiedere a gran voce un intervento adeguato nella fase di ricostruzione che ricomponga la disuguaglianza e ricucia il gap. Direzione in cui si muove appunto #halfofit.
(22 maggio 2020)
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