Elezioni in Spagna: chi ha vinto e (soprattutto) chi ha perso

Steven Forti

Nel voto iberico ad arrivare primo è il Psoe di Sánchez che, archiviata la stagione del blairismo, ha rappresentato l’argine all’avanzata delle destre. Ma se i commentatori nostrani – senza capire le ragioni del successo socialista – chiedono l’intesa con Ciudadanos, così come vogliono establishment ed UE, la strada più probabile sarà quella di un accordo politico con la sinistra di Podemos, i nazionalisti baschi e, forse, gli indipendentisti catalani. Diplomazie al lavoro, si capirà dopo le Comunali ed Europee del 26 maggio.

e Giacomo Russo Spena

Pericolo scampato. I populisti xenofobi italiani ed europei erano già pronti a gioire. Nell’ultimo giorno di campagna elettorale Matteo Salvini aveva augurato (senza vergogna) a Vox – un partito di ultradestra, antifemminista e che inneggia alla dittatura franchista – di portare in Spagna “lo stesso cambiamento che la Lega ha portato in Italia”, mentre l’economista Claudio Borghi, il fantomatico guru no euro del Carroccio, aveva preannunciato in Europa una nuova vittoria per i sovranisti. D’altronde, da quel 15 febbraio – giorno in cui cadeva il governo Sánchez a causa del mancato appoggio degli indipendentisti alla legge di bilancio – tutti i commentatori politici davano la destra già al governo. Così non è stato. Non si è ripetuto l’esito del voto regionale andaluso di dicembre.

Le terze elezioni politiche in meno di quattro anni, una cosa nuova per un Paese che fino a non molto tempo fa veniva considerato come uno dei più stabili politicamente dell’intera Unione Europea, hanno sancito la vittoria del Psoe, anche se senza una maggioranza assoluta. Il primo dato da evidenziare è, quindi, la sconfitta delle (tre) destre che pur unite si fermano a 147 seggi, quando la maggioranza è a quota 176. La batosta è stata incredibile per il Partido Popular, vincitore delle ultime tre elezioni, che ha perso più della metà dei seggi (passando da 137 a 66), ottenendo il peggior risultato di sempre (16,7%). I voti dei popolari sono andati sia a Ciudadanos che ha aumentato i suoi consensi (15,8%, 57 deputati), sia all’estrema destra di Vox (10,3%, 24 deputati).

Come ben ricorda il collega Stefano Ceccanti, “nella storia elettorale della rinata democrazia spagnola c’è una correlazione stretta tra alta partecipazione e successo della sinistra”. In questo senso ha funzionato la strategia di Sánchez di rappresentarsi come l’argine all’avanzata della peggior destra convincendo anche storici astensionisti a recarsi alle urne. La partecipazione, infatti, ha raggiunto quasi i massimi storici per il paese iberico (75,7%, + 6% in comparazione con tre anni fa), toccando picchi del +12%, come in Catalogna. Rispetto alle ultime elezioni Unidas Podemos (che ha femminilizzato il suo nome) ha perso, invece, 1,3 milioni di voti e quasi 7 punti percentuali. Attestandosi al 14,3%, con oltre 3,7 milioni di voti, dimostra però di contenere la sconfitta. Qualche mese fa, infatti, il partito di Iglesias era dato per morto, mentre dimostra, oggi, di essere ancora decisivo per eventuali maggioranze e, soprattutto, in leggera ripresa anche per le capacità mediatiche del coleta che è uscito rafforzato dai due scontri elettorali con gli altri leader. Le ragioni della debacle di Unidas Podemos sono dovuti a diversi elementi. Innanzitutto non ha più quel fattore “novità” che inizialmente aveva dato un messaggio dirompente sullo scenario spagnolo. Sono ormai passati cinque anni dalla sua inaspettata irruzione alle europee del 2014. Poi sicuramente ha pesato la questione indipendentista, dove Podemos è accusato di avere una posizione equidistante – difende un referendum sul modello scozzese – che scontenta molti, da una parte e dall’altra. È stata una posizione coraggiosa quella di Podemos, senza ombra di dubbio, visto che in Spagna, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, era considerata più controproducente che altro, vedendo il clima politico del paese e la reazione generalizzata alla rottura catalana che ha favorito il rinascere del nazionalismo spagnolo. In Catalogna, ha pesato anche la vittoria di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), il partito guidato da Oriol Junqueras, attualmente in carcere e sotto processo per i fatti dell’ottobre del 2017: Erc si è convertito nel primo partito – la prima volta in assoluto per una formazione indipendentista – scalzando dal primo posto la confluenza catalana guidata dalla sindaca di Barcellona Ada Colau. Infine vanno considerate le divisioni interne – l’ex numero due Íñigo Errejon ha rotto di fatto con Iglesias, lanciando un suo movimento, Más Madrid, insieme alla sindaca della capitale Manuela Carmena per correre alle amministrative di maggio – e lo spostamento a sinistra del Psoe, che ha saputo capitalizzare la paura ad un governo delle tre destre. Secondo uno studio pubblicato dal Cis un elettore su cinque di Podemos ha scelto i socialisti. In molti casi, si tratta di un voto di rientro: vecchi elettori socialisti che nel 2015 e nel 2016 avevano abbandonato il partito fondato un secolo e mezzo fa da Pablo Iglesias Posse – non è un trisavolo del coleta – per scegliere Podemos e che ora sono rientrati all’ovile. 

Il Psoe di Sánchez, negli ultimi tempi, sembra aver archiviato la stagione del blairismo e delle larghe intese. Ricordiamo che Pedro Sánchez e Pablo Iglesias siglavano lo scorso 11 ottobre una vera “manovra del popolo”. L’accordo prevedeva oltre 5 miliardi di euro di spesa in più nel 2019 destinati principalmente ai soggetti che più hanno sofferto durante la crisi: si aumentava il salario minimo – da 735 a 900 euro mensili –, si legavano le pensioni all’inflazione reale, si miglioravano gli aiuti per i disoccupati con più di 52 anni, si assegnavano 50 milioni di euro per combattere la “povertà energetica” e altri 25 milioni per le mense scolastiche, si aumentava del 40% il budget per gli assegni sociali destinati a persone dipendenti, i fondi per la ricerca si incrementavano del 6,7%, si abbassavano le tasse universitarie, si equiparavano i permessi di maternità e paternità. Ed altre misure volte alle politiche abitative e alla redistribuzione delle ricchezze. La manovra non è però passata per il niet degli indipendentisti che, la stessa settimana in cui cominciava il processo ai loro dirigenti incarcerati, hanno votato insieme alle destre mettendo fine alla legislatura e obbligando Sánchez al voto anticipato.

Il Psoe ha vinto proprio perché ha deciso di rappresentare una radicale alternativa alle destre, rompendo lo schema delle larghe intese. Per questo fanno sorridere i commentatori seriali nostrani che invocano adesso l’accordo con Ciudadanos – che avrebbe una comoda maggioranza alle Cortes di Madrid – senza capire minimamente le ragioni della vittoria socialista. Un’alleanza di governo di questo tipo sarebbe un suicidio per Sánchez che, dopo aver tentennato davanti alle ripetute domande al riguardo di Iglesias, sembra averlo capito quando, durante i festeggiamenti davanti alla sede socialista, migliaia di persone lo hanno interrotto al grido di “Con Rivera no”, in riferimento al leader di Ciudadanos, Albert Rivera.
Ciò non toglie che le pressioni perché si formi un’alleanza rosso-arancione – questo il colore del partito di Rivera – sono moltissime, essendo questa l’opzione preferita dai poteri forti. Il Banco Santander è uscito poche ore dopo il voto suggerendo caldamente un’alleanza di questo tipo, per intendersi. Il punto è che Rivera, che si vendeva come il Macron spagnolo, si è spostato molto a destra, rivaleggiando con il Pp e addirittura con Vox su alcune questioni, in primis la mano dura con l’indipendentismo. I tempi del “patto dell’abbraccio”, quando Sánchez firmò un accordo di governo con Ciudadanos nel marzo del 2016 naufragato rapidamente per la mancanza di una maggioranza parlamentare, sembrano lontani un’era geologica.

Ora, infatti, l’obiettivo di Rivera non è più quello di essere l’ago della bilancia tra destra e sinistra, una sorta di polo centrista e liberal rinnovatore, ma di diventare la formazione egemonica nella destra spagnola, approfittando della profonda crisi del PP dovuta agli scandali di corruzione e all’entrata in scena di Vox. Per questo il leader di Ciudadanos ha dichiarato sprezzante durante la campagna elettorale di volere un cordone sanitario contro Sánchez, “venduto ai separatisti catalani”, posizione che ha ribadito anche dopo il voto, mentre firmava un accordo di governo in Andalusia e manifestava insieme all’estrema destra di Abascal. Sembra dunque che si rafforzino i due blocchi, quello di destra e quello di sinistra, e che la comunicazione tra l’uno e l’altro sia estremamente difficile, se non impossibile. Pesano in tutto ciò anche le elezioni europee e amministrative del 26 maggio: fino ad allora si vivrà in un limbo e nessuno vorrà scoprire le proprie carte. Il rischio è quello di regalare la campagna elettorale agli avversari e di mettere a rischio alleanze in ambito locale.

Tenendo conto di tutto ciò, è dunque più probabile che si tenti un’altra strada: quella di un governo monocolore socialista che cerca il sostegno esterno di Unidas Podemos, dei nazionalisti baschi e di altre formazioni minori, con la grande incognita delle forze indipendentiste catalane. Uno scenario, in poche parole, simile a quello degli ultimi nove mesi. Con una differenza: un Psoe rafforzato e Unidas Podemos che non può più sognare con il tanto anelato sorpasso a sinistra. Iglesias vorrebbe un accordo di governo, con ministri di Podemos, ma il Psoe è molto restio al riguardo. Risuonano ancora le parole di Pedro Sánchez, quando nell’autunno del 2016, intervistato dopo essere stato defenestrato dalla guida del Partito socialista affermò che aveva ricevuto pressioni enormi dai poteri forti perché non siglasse un accordo di governo con il partito di Iglesias.
Ad oggi Sánchez parte comunque da 166 seggi, ossia i suoi 123, i 42 di Podemos e il deputato di Compromís. A questi non sarà difficile sommare i sei seggi del Partido Nacionalista Vasco (Pnv) e quello dei regionalisti della Cantabria, storicamente alleati dei socialisti. Gliene mancherebbero ancora quattro per la maggioranza assoluta. Un obiettivo alla portata perché potrebbe prescindere dal voto favorevole degli indipendentisti, almeno nella seconda votazione di investitura, quando è sufficiente avere più voti a favore che voti contro per essere eletti. Insomma, potrebbe bastare un’astensione di Erc, prescindendo tra l’altro di Junts per Catalunya, la formazione guidata su posizioni ben più intransigenti dall’ex presidente catalano Carles Puigdemont. Cosa tutt’altro che scontata alla vigilia.

Per la Spagna si apre una fase nuova, di grande incertezza. Le prossime settimane, e soprattutto il voto del 26 maggio, saranno cruciali. Sono, né più né meno, che il secondo turno di queste elezioni. Ma per una volta non siamo qui a raccontare il trionfo del blocco nero. I socialisti quando non abiurano le ragioni della sinistra vincono pure le elezioni. E pensare che Renzi, per anni, ci ha raccontato il contrario.

(29 aprile 2019)



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