Elezioni USA: c’è puzza di vecchio!

Elisabetta Grande

Nella corsa alla presidenza dei più anziani aspiranti alla carica nella storia degli Stati Uniti, la campagna elettorale puzza di vecchio, in un momento in cui invece il paese avrebbe come non mai bisogno di novità per uscire da una crisi che è prima di tutto di sistema.

La pandemia ha infatti messo di colpo a nudo l’insostenibilità delle politiche neoliberiste spinte, che hanno caratterizzato lo sviluppo economico e sociale degli Stati Uniti negli ultimi quarant’anni, facendo crollare l’illusione di una economia forte, che tale non è mai stata se non per i già molto forti. I troppi, che speravano in un miglioramento della loro situazione sull’onda di una falsa (per loro) retorica di crescita, vedono oggi di fronte a sé una facile caduta nel baratro della povertà estrema, il cui aumento è già palpabile. Mentre, infatti, a seguito della scadenza della moratoria, sono ovunque in corso gli sfratti dei moltissimi che non possono più permettersi di pagare l’affitto, le strade delle grandi città mostrano un volto di disperazione come non si era mai visto prima. Los Angeles, fra le altre, offre una testimonianza concreta di quel che sta avvenendo in terra americana. I senza tetto sono ormai dappertutto: i materassi, le tende e le coperte si ammassano in ogni dove della città – da Hollywood, a Venice, dalle spiagge, alle strade, ai sottopassi, ai campi da golf -, in anticipazione di quell’inferno per i molti che – accanto al paradiso per i pochi – caratterizzerà a breve il paese più ricco del mondo, rendendo ancora più drammatico un trend da tempo in corso.

Di fronte a un simile scenario non si può dire che i due candidati offrano soluzioni di sorta, né tantomeno che le offrano i candidati alla vicepresidenza o il Congresso in carica. Da un canto Nancy Pelosi e Donald Trump giocano sulla pelle degli americani in difficoltà e – al fine di addossare all’avversario politico il peso dell’immobilismo – litigano ad arte su una possibile manovra di aiuto economico alla popolazione, senza arrivare ad un accordo che possa dar respiro a chi sta affogando; d’altro canto nessuno dei due ticket presidenziali propone un cambiamento di rotta sistemico, capace di ridurre quelle insopportabili disuguaglianze, che allontanano oggi 92 milioni di potenziali elettori dalle urne perché troppo occupati a pensare a come mangiare o pagare l’affitto o perché privi di un riferimento politico.

Che una simile proposta non provenga da Trump e Pence, dopo la prova di sé che hanno dato in questi quattro anni di governo, è per molti scontato, ma chi credeva che uno spiraglio di cambiamento sarebbe potuto provenire dal ticket democratico è stato certamente deluso dai debates finora svoltisi, in particolare quello fra i candidati vicepresidenti.

Alla penosa performance del dibattito presidenziale – la peggiore della storia degli Stati Uniti a detta di molti –, che certamente non ha visto Biden articolare un benché minimo programma politico-economico di “sinistra”, ha fatto seguito un dibattito fra Pence e Kamala Harris, in cui quest’ultima ha dichiarato senza remore le sue intenzioni di proseguire convintamente per la stessa strada di appoggio ai poteri forti e al capitalismo rampante e immorale, percorsa negli States fin dai tempi di Ronald Reagan.

Durante il debate la Harris ha apertamente strizzato l’occhio a Wall Street, cui com’è noto è strettamente legata. Per promuovere il piano economico del ticket democratico, Kamala ha infatti citato quale autorevole fonte del suo sicuro successo in termini di posti di lavoro, proprio Moody’s Analytics – ossia quell’agenzia di rating che nel 2008 aveva frodato gli americani e portato i più deboli di loro nel baratro di una crisi profonda, quotando titoli spazzatura con la tripla A. La ex “top cop” come lei stessa si era definita, si è poi anche vantata della grande coalizione di supporto a Biden, che coinvolgerebbe ben 7 membri del governo di George W. Bush e fra questi proprio quel Colin Powell (già presente alla convention democratica) che insieme al primo, con l’inganno delle armi di distruzione di massa, aveva condotto gli americani in una guerra utile solo ai poteri forti (si pensi a Dick Cheney e alla sua Halliburton che ne aveva tratto profitti da capogiro). A completare il quadro della grande coalizione ci sarebbero, nelle sue parole, anche più di 500 generali in pensione ed esperti di sicurezza nazionale già previamente impegnati – sembra questa l’allusione – sul fronte repubblicano. Difficile, dunque, non pensare come qui l’occhiolino fosse strizzato all’universo della così detta industria della guerra.

L’ambito del gruppo di riferimento del ticket presidenziale democratico, dal capitalismo di guerra e finanziario, si allarga però anche a quello dei giganti del web. Proprio mentre il Congresso ha concluso una delle indagini potenzialmente più cariche di conseguenze dannose per le big tech, come Amazon, Alphabet/ Google, Facebook e Apple, con un rapporto di 450 pagine che le ha accusate di minare, con i loro comportamenti monopolistici, le basi stesse del sistema economico e democratico, Biden e Harris sembrano difatti poter offrire loro la garanzia che andranno esenti da interventi limitativi del proprio sconfinato potere.


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È noto come le relazioni fra Kamala Harris e i big della Silicon Valley siano sempre state improntate a una notevole cordialità, che si è concretizzata in pratica – da una parte – nel sostegno economico dei secondi alle battaglie politiche della prima per diventare Attorney General in California (e ciò tanto nel 2010 quanto nel 2014) e – dall’altra parte – nella garanzia offerta dalla prima ai secondi di non invasione di campo, tramite politiche di non applicazione della normativa antitrust da parte del dipartimento di giustizia o il boicottaggio di riforme volte a tutelare la privacy dei cittadini attraverso limitazioni imposte alle piattaforme. A giudicare dai soldi che hanno versato per la campagna di Biden, si tratta di un patto che i giganti della rete contano senz’altro di mantenere in piedi. Gli ultimi dati della Federal Election Commission riportano infatti come, a sostegno del ticket democratico, Alphabet abbia versato per esempio un milione e 710 mila dollari, Amazon circa 750 mila, Facebook circa 580 mila e Apple circa 540 mila, a fronte dell’assenza di qualsiasi versamento per la campagna di Trump, i cui rapporti con la Silicon Valley sono decisamente più tesi. William Barr, l’Attorney General di Trump, sta invero addirittura per intentare una causa contro Google per abuso di posizione dominante: la prima azione di questo genere dal 1998, quando ad essere portata in giudizio fu la Microsoft.

Così, al di là delle surreali accuse di socialismo, o financo di comunismo, mosse da Trump al ticket avversario, la gente sa bene che dai democratici difficilmente potrà aspettarsi un cambio di rotta che possa mettere al centro i problemi ormai ineludibili di chi non ce la fa più. “Metà degli americani non vota”, titola il quotidiano Politico di qualche giorno fa. E ci si stupisce?
(12 ottobre 2020)




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