Eluana e Maria Grazia. Il dolore, la libertà, la qualità della vita
di Michele Martelli
Dopo 19 giorni di agonia Maria Grazia Pavin, al riparo dai riflettori mediatici, ha ottenuto ciò che ad Eluana Englaro dopo 17 anni di coma vegetativo non è stato ancora concesso: morire in pace. È successo a Sassari. Gravemente ustionata sull’80% del corpo a causa di un tragico incidente nel reparto di Psichiatria in cui era ricoverata, Maria Grazia, intubata e in fin di vita, ha rifiutato decisamente l’amputazione di una mano e di un piede. Solo così, secondo i medici della Rianimazione, poteva sperare di sopravvivere. Ma Maria Grazia ha detto “no”. Per ben tre volte, alla ripetuta domanda dei tre magistrati e del perito psichiatrico (lì convocato per accertare le sue condizioni di intendere e di volere), col cenno della testa ha detto “no”. Il “no all’amputazione” era stato richiesto anche dai suoi genitori, rispettosi custodi ed esecutori, come Beppino Englaro e sua moglie, della volontà espressa dalla figlia prima del disgraziato incidente.
A che cosa hanno fatto riferimento magistrati e medici di Sassari? Al sempre mai troppo citato articolo 32 della Costituzione, che oggi dovrebbe essere imparato a memoria: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Quindi, magistrati e medici sassaresi hanno applicato quella stessa legge che impone il rispetto della libertà di scelta e della dignità umana del malato e alla quale il ministro Sacconi e il governo in carica contravvengono nel caso di Eluana. E lo fanno dopo e contro il pronunciamento dei massimi organi giudiziari dello Stato. Dunque con effetti eversivi nei confronti di ciò che è alla base della democrazia costituzionale: la separazione dei poteri e la subordinazione del governo alle leggi. Nel paese di Berlusclonia, di cui Sacconia è provincia, chi (s)governa non conosce quell’articolo della Costituzione? O lo conosce solo per disapplicarlo, in ciò d’accordo, “anema e core” con le alte gerarchie cattoliche?
«Una cosa orrenda!», ha definito l’arcivescovo di Sassari monsignor Paolo Atzei la scelta di Maria Grazia. Ma che cosa è più orrendo, una vita-non vita, gravemente menomata, fatta di sofferenze indicibili, o la libera scelta di una morte dignitosa? Perché la prima opzione dovrebbe essere preferibile alla seconda? Innanzitutto, la scelta è individuale. A parti invertite, Maria Grazia avrebbe potuto scegliere per monsignor Atzei? Assurdo, vero, come è assurdo che Atzei avesse scelto per Maria Grazia. O che Sacconi e Bagnasco scegliessero per Eluana. Come invece purtroppo cercano di fare. Contravvenendo alla Costituzione, e in nome di un’etica autoritaria che sottrae alla persona malata anche la libertà di morire in pace, di morte naturale, senza le catene di tubi, sondini, pompe e macchine che costringono il suo misero corpo ad una indefinita sopravvivenza artificiale.
Secondariamente, monsignor Atzei, con Cei papa e Vaticano, pretenderebbero che tutti, credenti e non credenti, accettassero con gioia e sacrificio sempre ovunque e comunque la propria vita, anche nelle condizioni più disgraziate, infelici e disumane, secondo la «stranissima e inaudita opinione», come diceva sarcasticamente Leopardi, «che le disgrazie (o come le chiamano, le croci), sieno favori di Dio, e segni della benevolenza divina». A questo si riduce la loro sacralità della vita: a sacralizzare il dolore, anche il dolore più estremo e intollerabile, ciò che rende la vita non-vita, l’esistenza non-esistenza. Soffri, perché più soffri, più sei simile a Cristo sulla croce. La tua croce è segno che Dio ti ha scelto. Eluana, crocifissa nel suo lettino d’ospedale, soffre, come Cristo crocifisso, perché Dio lo vuole. No, non lo vuole Dio, un qualche Dio, ma i suoi rappresentanti in terra, papi, frati, preti e prelati (i proverbiali corvi neri, non tutti per fortuna!), che solo sulle nostre paure, ansie e disgrazie possono esercitare il loro enorme potere non solo spirituale.
No, i non credenti non vogliono vivere e soffrire, «come se Dio ci fosse», secondo l’etica clericale e autoritaria della sacralizzazione del dolore più atroce, ma «come se Dio non ci fosse», cioè secondo l’etica laica e libertaria della qualità e dignità della vita. Senza cedere a nessuno il diritto di decidere sulla propria sorte.
(1 dicembre 2009)
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