Ennio Morricone: Cinema in pentagramma
Ho iniziato a lavorare per il cinema negli anni Sessanta. Ai tempi non amavo l’industria cinematografica e sognavo di scrivere musica «assoluta» senza vincoli di committenza, come i grandi del passato. Era un’idea ingenua, ma questo l’avrei capito molto più tardi.
In quel periodo intrapresi il lavoro compositivo per il cinema alla scuola di compositori del calibro di Enzo Masetti, Alessandro Cicognini e Franco D’Achiardi, uno sperimentalista visionario che non dava nulla per scontato e amava rischiare.
Un’altra fondamentale palestra fu la radio, dove mi cimentai con gli arrangiamenti di musica leggera: prima per Carlo Savina e poi per Canfora, Brigata, Barzizza, Angelini, Kramer, Luttazzi e altri eccellenti maestri che arrivavano da Milano e Torino. Consideravo quel mestiere con una certa spocchia e una buona dose di superiorità, ritenendolo eccessivamente al servizio della melodia cantata. E così provavo a riscattarlo, introducendo negli arrangiamenti qualcosa che li rendesse autonomi rispetto al tema melodico. Era importante che avessero senso in sé, anche al di là dell’esecuzione del cantante.
Dopo la radio e alcune incursioni nella televisione, venne il cinema, anche se non firmai subito le prime partiture. Cominciai componendo nell’anonimato. Oggi si direbbe che facevo il ghostwriter. Ho «vinto» il Nastro d’Argento per un’importante pellicola nei cui titoli non figura la mia firma.
All’inizio del 1961, quando mi trovai a lavorare su Il federale, il mio primo vero film, conoscevo già i trucchi della musica per il grande schermo. Conobbi Luciano Salce nel ’58, mentre arrangiavo per Le canzoni di tutti, una trasmissione televisiva che realizzava insieme a Ettore Scola. Benché mi apprezzasse come arrangiatore, Luciano aveva scelto di rischiare affidandomi la composizione delle musiche di Il lieto fine, una sua commedia musicale del ’59, che occhieggiava alla rivista, con Lauretta Masiero e Alberto Lionello. Il rapporto si consolidò ulteriormente quando mi cercò per la partitura di Le pillole di Ercole, uscito nel ’60. La proposta non si concretizzò per lo scetticismo di Dino De Laurentiis, ma ricordo che andai a scrivere per qualche tempo a Salsomaggiore, dove stavano girando.
Con Salce cominciai ad abituarmi alle reazioni del regista: colui che ha l’ultima parola su sceneggiatura, recitazione, fotografia, scenografia e costumi, ma che rimane interdetto innanzi alla musica. Ciò che viene eseguito al pianoforte finisce immancabilmente per stupirlo. E c’è da augurarsi che questa sorpresa sia virtuosa, perché – in caso contrario – il compositore si trasforma nel peggior elemento della troupe.
Se con Luciano presi le misure, il confronto vero arrivò con Pasolini.
Pier Paolo era un uomo gentile e disponibile, ma non sorrideva mai, proprio come si vede nelle fotografie. Con me era sempre impenetrabile, impassibile. Una maschera. La prima volta che c’incontrammo per Uccellacci e uccellini, si presentò con una lista di composizioni di repertorio. Pretendeva che lavorassi su quello schema. Quando rifiutai, palesando la mia indisponibilità ad adattare lavori altrui, ci pensò un attimo e poi stracciò il foglio. Da lì in avanti, per tutta la durata del film, mi concesse piena libertà. Dal canto mio gli venni incontro allorché propose l’inserimento di una citazione da Mozart, per il quale aveva una vera e propria mania musicale.
In Teorema volle inserire dei riferimenti al Requiem con mie musiche dodecafoniche. Accettai, ma poi lavorai in totale libertà, finendo per fargli ascoltare il tema mozartiano dato a un clarinetto. Ho sempre pensato che non obiettò per ragioni scaramantiche. Ma col Decameron si prese una logica rivincita, descrivendo in sceneggiatura, e poi girando, canzoni napoletane e altro che mi fece registrare. Acconsentii senza protestare e accettai ciò che non avrei mai tollerato se si fosse trattato del primo film. Per Il fiore delle Mille e una notte tentai una qualche reazione, ma il rapporto ormai era sbilanciato a suo favore. Mi sembrava comunque una «resa» dignitosa, consumata davanti a chi – alla prima e alla seconda collaborazione – mi aveva dimostrato fiducia.
Vidi Salò al cinema. Lui aveva un incredibile pudore e, quando lavorammo in moviola, la spegneva o la accelerava per risparmiarmi le scene più crude. Per quel film composi soltanto un pezzo originale, che poi gli ho dedicato dopo la morte. È il brano eseguito al pianoforte dalla ragazza che, al termine dell’orgia, si uccide buttandosi dalla finestra. Gli altri brani sono arrangiamenti di musiche discutibili, risalenti al periodo bellico ed eseguite da orchestrine sciagurate. Non c’era niente di particolarmente nobile o artistico in quel lavoro, però evitai di dirglielo.
La cosa che ci legava di più era la consapevolezza che cinema e musica sono arti della temporalità, la cui alleanza si consuma nello scorrere di secondi minuti ore. Questa cognizione è anche il principale requisito della fortunata collaborazione con Sergio Leone, un maestro unico nell’arte di dilatare il tempo: grande cantore del passato, capace di valorizzare al massimo l’impatto della musica. Non a caso la mediazione tra suoni e immagini dipende – sempre e comunque – dalla prospettiva culturale del regista. Per questo è impossibile stabilire a priori qual è la musica più adatta per un film. Forse, neppure esiste.
A metà degli anni Sessanta iniziai a lavorare con Gillo Pontecorvo che mi cercò per La battaglia di Algeri. La proposta mi sorprese e gli chiesi spiegazioni. Mi rispose che si era innamorato delle musiche di Per qualche dollaro in più di Sergio Leone, che considerava straordinarie. Era un’ammissione di gusto per nulla scontata in un periodo in cui quelle pellicole erano unanimemente considerate di «serie b». Il legame con Pontecorvo divenne subito paradossale, perché il contratto col produttore prevedeva la coautorialità del regista nella composizione delle musiche.
Mi veniva a trovare a casa e mi faceva ascoltare dei temi fischiati che aveva inciso su un registratore portatile marca «Geloso». Gli rispondevo immancabilmente che erano orrende e inascoltabili, ma lui insisteva.
Un giorno, dismessi fischio e «Geloso», mi cantò due battute ostinate – ripetitive – che mi colpirono. Erano bellissime ed evidentemente era destino che un compositore ambizioso dovesse imparare da un regista ostinato. Alla fine realizzai la musica come variazione di quel tema e Gillo cofirmò il lavoro. La pratica della variazione è l’esperienza più alta di questa professione.
Tuttavia, la mia arrendevolezza doveva essere compensata in qualche maniera. E quindi, quando composi l’introduzione per i titoli di testa, mentre scorrono le immagini dell’ingresso delle truppe francesi alla qasba, inventai qualcosa che fosse esclusivamente mia. Per l’occasione m’ispirai a un tema di tre note (il Ricercare cromatico) di Girolamo Frescobaldi, un compositore unico, vissuto un secolo prima di Bach e poco conosciuto in Italia. Era il riscatto della mia superbia, o – meglio – del mio onore creativo e artistico, davanti alla cocciutaggine di Pontecorvo. Gillo non lo seppe mai.
Il problema delle variazioni rimane una delle grandi questioni in termini di attribuzione. Continuo a difendere l’autonomia creativa di chi varia con
ingegno. È il motivo per cui le Variazioni di Beethoven sul tema di Diabelli finiscono per occultare il tema stesso e la composizione risultante guadagna assoluta autonomia.
A Pontecorvo sono rimasto legato per tutta la vita, malgrado il gioco di schermaglie e incertezze che ha segnato la nostra collaborazione. Questo tipo di confronto, a tratti ludico, è anche stato l’essenza del legame con Petri, un regista che ho amato infinitamente. Elio diventò presto un caro amico e la sua morte fu una perdita incolmabile. Quando lo conobbi, ai tempi di Un tranquillo posto di campagna – un film di grande qualità che raccolse i favori della critica senza ottenere quelli del pubblico – aveva cambiato compositore a ogni lavoro. Ci tenne a farmelo presente per evitare equivoci e false aspettative sulla possibilità d’una collaborazione a lungo termine. Gli risposi che capivo e che mi andava bene. La cosa commovente è che da quel momento in poi lavorammo insieme fino alla fine.
Per Un tranquillo posto di campagna ripresi a suonare la tromba. Una parte delle musiche fu il risultato della ricerca del gruppo d’improvvisazione «Nuova consonanza» realizzata durante la proiezione del film. Venne fuori un lavoro raro, prezioso, giocato al limite, su un’adesione complessa tra sonorità e immagini. Soprattutto nelle cupe derive oniriche del protagonista, un pittore pop interpretato da Franco Nero. Purtroppo la pellicola incassò pochissimo. Mi crucciai al punto che – più tardi – proposi al produttore di riscrivere la colonna sonora, senza riuscire a convincerlo. Credo, forse eccedendo nell’esercizio autocritico, che certi miei azzardi non abbiano giovato ad alcune pellicole. Ad eccezione dei lavori di Dario Argento, in cui la particolarità dello stile legittimava l’effetto traumatico di certe soluzioni: ad esempio l’intreccio di suoni musicali dissonanti e non.
Nonostante gli scarsi risultati commerciali di Un tranquillo posto di campagna, la collaborazione con Elio divenne stabile, e si tradusse in un solido legame. Il successo arrivò con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, una pellicola semplicemente perfetta, alla quale ho lavorato col massimo di autonomia. Petri si fidava e non mi vincolava a richieste specifiche.
Cominciò a pretendere qualcosa e ad avanzare dei dubbi negli ultimi lavori. Per Todo modo, che conoscevo bene avendo letto il libro di Sciascia, gli proposi una musica difficile, addirittura con cinque fagotti e due controfagotti, che intitolai Totem. Rifiutò la proposta, suggerendomi di scrivere alcune variazioni sulla Sonata in fa diesis minore per pianoforte di Schubert. Non conoscevo l’opera e così dovetti studiarla per realizzare tre variazioni per cinque strumenti, tra cui clavicembalo, clarinetto, viola e percussione.
Neppure quel lavoro lo entusiasmò, ma le variazioni furono «poggiate» sul film successivo: Le buone notizie del 1979. Non potrò mai dimenticare il commento, che valeva da epitaffio, di Ruggero Mastroianni, il leggendario montatore di Indagine. Mi guardò e mi disse: «A Ennio, a Moricò, ma qua nun se ride più». Dopo quella chiosa eloquente le variazioni furono stralciate e si ricominciò daccapo.
Il lavoro con Elio e la sua troupe era così: amichevole, quasi familiare.
La composizione per il cinema è un’arte complessa, frutto di un’articolata dialettica tra sensibilità, intenti e culture differenti. La tendenza del regista a riprodurre temi che già conosce si misura con le aspirazioni del compositore, desideroso di sperimentare e inventare soluzioni inedite. Questa divergenza strutturale si traduce in un confronto incalzante, in un lavoro che progredisce attraverso mediazioni e approssimazioni fino al conseguimento del risultato finale. Da questo punto di vista il cinema è sempre lo stesso: in Italia come all’estero. E alla regola non sfuggono neppure artisti come Brian De Palma e Terrence Malick.
Quando alla fine degli anni Settanta lavorai con Malick per I giorni del cielo, gli mandai negli Stati Uniti la registrazione d’una ventina di temi. Dopo aver operato la selezione, venne a Roma per ascoltare la musica con l’orchestra. Anche in quel caso, procedemmo per tentativi: lui pretendendo soluzioni alternative, io assecondandolo, benché convinto della bontà delle mie proposte. Rinunciò sempre alle sue idee, ma in un caso mi fece usare addirittura tre flauti per poi ammettere che non funzionavano. E la situazione si ripropose. Si sarebbe dovuto fidare maggiormente, anche se il risultato complessivo compensò la fatica della ricerca.
Malick è l’unico regista con cui ho conservato un rapporto epistolare. In seguito mi propose di comporre per film che non realizzò mai, fino a La sottile linea rossa, quando ci mancammo per un’incomprensione causata dal mio agente americano dei tempi.
Ma non sempre il compositore ha ragione e – a volte – l’intuizione giusta è quella del regista. Realizzai al pianoforte i temi di Gli Intoccabili in quarantott’ore a New York, quando vidi il film con De Palma. Tutto sembrava andar bene, ma – prima di salutarci – mi fece notare che mancava ancora una traccia: l’ultima, quella del trionfo conclusivo dei detective. Lavorai a Roma e gliene mandai tre, che rifiutò. Allora gliene inviai altre tre. E poi altre tre. Anche su quelle manifestò riserve e perplessità. Alla fine trovammo un accordo, ma al momento delle strumentazioni le divergenze si riproposero. Non ho mai amato i finali trionfalistici in cui l’orchestra, che suona al gran completo, rimarca la vittoria dell’eroe. È un pregiudizio che sostengo con convinzione, al pari dell’avversione per i musical – eccetto capolavori come West Side Story – in cui la gratuità dell’elemento canoro finisce per irritarmi.
Cercai di convincere De Palma a sfuggire ai cliché, ma fu lui a spuntarla. Non si trattava solo della vittoria di Eliot Ness su Al Capone. Fu anche quella del regista sul compositore, perché – in quel caso specifico, in quell’inquadratura lunghissima che sale sulla strada – ci voleva una simile apoteosi.
Ho attraversato praticamente tutti i generi cinematografici: dal western all’horror, dal gangster movie alla commedia, al realismo engagé. Oggi mi guardo indietro e credo che il segreto sia stato lo studio serio e rigoroso, insieme al rifiuto – maturato col tempo e attraverso l’esperienza – della distinzione tra musica «assoluta» e musica per il cinema. Tra i due ambiti espressivi esistono delle convergenze profonde. Non sono separati e distanti come credevo all’inizio della mia carriera. Oggi il cinema entra nella musica «assoluta» e quest’ultima contribuisce a informare di sé il cinema. E poi la musica – da sempre, salvo rare eccezioni – rimane arte commissionata. Sul grande schermo, poi, finiscono per contaminarsi tutti i generi possibili: la musica «assoluta», quella popolare o quella da camera. Il quartetto d’archi insieme alla canzone.
Un giorno, se qualcuno vorrà capire questo tempo, dovrà interrogare le ragioni che hanno portato gli editori musicali e i produttori cinematografici a prediligere dilettanti e melodie semplici, malgrado ci siano compositori del calibro di Nicola Piovani, Franco Piersanti, Carlo Crivelli, Luis Bacalov, mio figlio Andrea e pochi altri.
In futuro, ch
i analizzerà l’alleanza tra suoni e immagini avrà modo di cogliere – come in uno specchio – il riflesso di quest’epoca e della crisi che l’attanaglia.
(a cura di Tommaso De Lorenzis)
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