Eticità del muro bianco. Riflessioni su “Il crocifisso di Stato” di Sergio Luzzatto
Mauro Piras
Se le istituzioni sono laiche non possono esporre nessun simbolo religioso. Ma perché l’Italia fa così fatica a digerire questo principio banale della cultura politica liberaldemocratica? Riflessioni su "Il crocifisso di Stato" di Sergio Luzzatto (Einaudi).
Il crocifisso sembra ben saldo sulle pareti di scuole, ospedali e tribunali, in Italia. L’avventurosa operazione della scuola di Adro, che oltre ai suoi contestati e rimossi (si spera) “soli delle alpi” leghisti prevedeva i crocifissi imbullonati ai muri, oggettiva nel modo più estremo questa volontà di legare indissolubilmente spazio pubblico e identità cristiana. La lotta per i simboli non è mai innocente, si sa. Chi li vuole imporre dirà che un simbolo non fa male a nessuno, che la vita sociale ne è piena, ognuno con il suo carico di tradizione e storia, e che nessuno si sente offeso perché il suo sguardo li incrocia; tuttavia, le stesse persone non rinunciano alla battaglia per la presenza di questi simboli così poco rilevanti. I simboli esprimono un radicamento storico, la loro persistenza dà l’idea che l’ambiente sia naturalmente caratterizzato dai significati che mediano; e i significati sono “spessi”, densi di identità forti, produttori permanenti di senso, altrimenti non sarebbero simboli ma convenzioni, abbandonabili a piacimento.
La difesa dei crocifissi nelle istituzioni pubbliche va ben oltre il fatto in sé: mette in gioco l’identità morale dello spazio pubblico democratico. Noi tutti sappiamo che dietro questo piccolo elemento di arredo si trovano altre forme di presenza religiosa: l’ora di religione cattolica a scuola, la resistenza passiva contro le ore di attività alternativa, la difesa della famiglia “tradizionale” contro le coppie di fatto, l’annacquamento della libertà di scelta nella proposta di legge sul testamento biologico, la spartizione arbitraria dell’otto per mille (con il suo corredo di stupende pubblicità unilaterali). E così via. L’insieme di queste cose fa capire a un cittadino italiano che il suo spazio pubblico ha una curvatura precisa. Il crocifisso è anche il simbolo di questo, perciò provoca un conflitto aperto. Allo stesso tempo, sembra essere ancora più saldo di queste pratiche. Almeno nelle coscienze: quando si parla di testamento biologico o diritti delle coppie di fatto qualche divisione della classe politica emerge, e le contrapposizioni sono più marcate nel mondo intellettuale; quando si parla di crocifisso, invece, si crea d’un tratto una improbabile union sacrée, che mette insieme quasi tutti i politici e gli intellettuali, tolte pochissime eccezioni (cfr. Sergio Luzzatto, Il crocifisso di Stato, Torino, Einaudi, 2011, p. 80). Nel penultimo dibattito sul tema, quello dell’autunno 2009 dopo la prima sentenza di Strasburgo sul caso Lautsi, abbiamo letto per esempio un brillante articolo di Umberto Eco a difesa del carattere “nazionale” e non religioso del crocifisso; o abbiamo visto un ottimo cattolico liberale come Vito Mancuso, che non ha esitato altre volte a difendere i diritti delle coppie di fatto o la libera scelta del malato, proporci di nuovo banali considerazioni sul crocifisso come simbolo universale di sofferenza (la “funzione Natalia Ginzburg”, direbbe Luzzatto).
Perché? Perché l’Italia fa così fatica a digerire un principio banale della cultura politica liberaldemocratica, secondo cui se le istituzioni sono laiche non possono esporre nessun simbolo religioso? Perché altri paesi cattolici (Francia, Spagna, la Baviera) hanno saputo assumere questo principio (p. 48), e l’Italia non ne è capace? Il crocifisso di Stato cerca di dare una risposta, in primo luogo in termini storici. Certo, si tratta di un pamphlet, e non di un lavoro di ricerca specialistica. Nasce da un sentimento di fastidio che molti di noi hanno provato di fronte agli argomenti proposti a favore della presenza del crocifisso nelle istituzioni pubbliche: “Un libro scritto contro la leggerezza, contro l’ignoranza, contro l’ipocrisia di chi vuole il crocifisso alle pareti dei nostri edifici statali sulla base di argomenti inconsistenti” (p. 15). Uno scritto polemico, quindi; tuttavia, la polemica è condotta con gli strumenti della conoscenza scientifica e della ricerca storica. La questione del crocifisso mostra una complessa stratificazione di problemi, che il testo mette in luce: il piano giuridico, dei processi e delle sentenze; il piano dei principi politici democratici; il piano della sociologia delle religioni e dell’antropologia; e ovviamente il piano storico, della storia italiana ed europea, dei rapporti con le “radici cristiane”. Lo strumento della critica è soprattutto questo, come è naturale. La ricerca storica viene usata come critica dei luoghi comuni sul crocifisso, ne rivela il carattere “ideologico”, si sarebbe detto in altri tempi. Si veda il paragrafo sulla tarda affermazione del crocifisso nella simbologia cristiana, solo a partire dal XII-XIII secolo, e non a caso in concomitanza con le crociate (pp. 17-23); o le pagine sulla impossibile datazione del modello di “Europa cristiana” a cui dovrebbero riferirsi le nostre “radici” (pp. 107-108). Lo sguardo disincantato dello storico porta alla luce le origini “umane troppo umane” delle tradizioni e dei simboli, e lacera l’ingannevole compattezza del discorso dell’ideologo, prete o filosofo, sui “fondamenti” di una identità.
Un percorso storico che parte da un caso particolare, biografico (“le questioni di principio hanno la sostanza storica che deriva loro dalla vicenda umana di chi le solleva”: p. 36). Nel 1994 Marcello Montagnana, professore di Disegno e Storia dell’Arte nell’Istituto Magistrale di Cuneo, già rappresentante sindacale della Cgil scuola, si rifiuta di fare lo scrutatore perché nel suo seggio, in un ospedale, è prevista la presenza del crocifisso alle pareti. La sua è una battaglia di principio, dal momento che per caso il crocifisso non c’è, in quel seggio in quei giorni. Ma lo scopo di Montagnana è difendere la laicità delle istituzioni pubbliche. Per questo rifiuto, va incontro a un processo per essersi sottratto “senza giustificato motivo” all’ufficio di scrutatore, processo che si concluderà con una sentenza definitiva della Cassazione del 2000, che lo assolve perché “il fatto non costituisce reato” (pp. 10-11). Già qualche anno prima la moglie di Montagnana, Maria Vittoria Migliano, docente di Italiano e Storia nell’Istituto Tecnico Industriale di Cuneo, aveva sollevato un caso simile: nel 1987, recependo la revisione del Concordato del 1984, aveva rifiutato di fare lezione finché il preside non avesse rimosso il crocifisso da tutte le aule; di lì, un procedimento disciplinare e un’indagine della magistratura per interruzione di pubblico servizio, che non portò però a nulla (pp. 12-13). Il suo caso sollevò un dibattito importante, nel quale si inserì il famoso articolo di Natalia Ginzburg sul crocifisso (Non togliete quel crocifisso, «L’Unità», 25 marzo 1988), l’Ur-Text di tutti i luoghi comuni e gli argomenti inconsistenti in difesa del crocifisso nelle istituzioni statali, argomenti che abbiamo poi sentito continuamente: il crocifisso non è più un simbolo religioso, ma morale, di sofferenza, porta un messaggio universale; il cristianesimo segna tutta la nostra civiltà, come pensiamo di volerci sottrar
re ad esso; il crocifisso è legato alla nostra identità nazionale; come può un simbolo offendere qualcuno, fare del male a qualcuno? Eccetera (pp. 13-16).
Come si vede, sul tema del crocifisso (che sia a scuola, o in un seggio elettorale, o in tribunale) siamo destinati all’eterno ritorno dell’identico. Da più di vent’anni, ogni tanto scoppia una causa legale, che oppone i cittadini allo Stato italiano. L’ultimo caso ha portato quest’ultimo di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La giurisprudenza però non ci aiuta più di tanto. I tribunali italiani giudicano sia in un senso che nell’altro, abbiamo la sentenza della Cassazione del 2000 a favore di Montagnana, e al contrario quella del Consiglio di Stato del 2006 che vede nel crocifisso “uno dei simboli della laicità dello stato” (pp. 87-88); e anche la Corte europea ci ha sorpreso con un improvviso cambio di rotta, dopo la sentenza del novembre 2009 che dava ragione alla ricorrente Soile Lautsi, quella definitiva della Grande Chambre, di poche settimane fa (18 marzo 2011), riconosce la legittimità per lo Stato italiano di esporre i crocifissi nelle scuole, senza che questo comporti una qualche forma di proselitismo religioso (notando però che proprio la contraddittorietà della giurisprudenza italiana spinge la Corte europea a non invadere la giurisdizione nazionale). Questo non deve sorprenderci. I conflitti giudiziari su materie di questo genere riflettono una inadeguatezza della politica. Un nostro comune maestro, Paolo Viola, grande storico che abbiamo perso troppo presto, ci ha mostrato chiaramente questa dinamica nella Francia del Settecento: in quel contesto, l’esigenza di rappresentanza politica ostacolata dall’impossibilità di fare riforme e dal peso dell’assolutismo tradizionale trovava sfogo sul terreno giudiziario, nella rappresentanza impropria fornita dall’opposizione dei magistrati al re, o sul terreno del contenzioso amministrativo. Questo prima della Rivoluzione francese. Oggi, in Italia, in un paese democratico e liberale maturato, come tutti i paesi europei, anche sull’eredità della Rivoluzione francese, viviamo paradossalmente una situazione simile: le istanze della società non trovano mediazione politica, per ragioni legate alla classe politica, alle istituzioni e a blocchi di interessi sociali, e i conflitti assumono forma giudiziaria. Ma dove non c’è mediazione politica, le sentenze dei tribunali non possono dare un orientamento.
Questo ci porta ai temi che mi stanno più a cuore: il problema dei principi politici che ci devono orientare su questioni che riguardano la laicità dello stato. Il libro, come ho detto, ha un taglio prevalentemente storico, e sostiene una tesi storiografica importante: questa “colonizzazione” dello spazio pubblico da parte della chiesa cattolica, in Italia, ha alcune date di nascita ben precise, è legata al “fallimento dell’utopia di Cavour”, del progetto cioè di trasformare il cattolicesimo in una religione come le altre all’interno di uno stato libero (pp. 74-75). Tale fallimento è maturato subito, poco dopo la morte di Cavour stesso, per affermarsi con forza soprattutto con l’alleanza tra fascismo e Chiesa (pp. 65-68). Nel fascismo stesso, qualcuno aveva visto subito, già dalla marcia su Roma, il senso profondo di questa alleanza: la diffidenza dell’Italia tradizionale e cattolica contro la democrazia moderna. Le pagine su Curzio Malaparte sono molto edificanti al riguardo (pp. 62-64). Poi, certo, il contesto storico e politico è cambiato; ma è rimasta l’incapacità della classe politica italiana di pensare lo Stato senza l’ancoraggio (politico, e non solo culturale) al cattolicesimo, da destra come da sinistra (pp. 78-81).
Io vorrei lasciare però l’analisi e la discussione di questa tesi storica a chi può parlarne molto meglio di me, che non ho le competenze per farlo. Vorrei invece riprendere lo stesso tema dal lato della filosofia politica e della teoria sociale. Questa paradossale situazione italiana ha tante cause “pesanti”, per così dire: rapporti di potere tra forze politiche, blocchi di consenso politico ed elettorale, interessi sociali. Però ha anche una causa culturale: la grave carenza della cultura politica italiana, che sembra non riuscire a pensare questo conflitto senza ricadere nella contrapposizione tra clericali e anticlericali, tra atei devoti e atei militanti, ecc. Tale inadeguatezza è forse dovuta ai caratteri delle due culture politiche che hanno dominato la storia repubblicana, o forse all’assenza di un vero gioco democratico per quasi cinquant’anni, seguiti poi da un sistema di alternanza fondato più sullo scontro politico senza quartiere che sul confronto democratico. In ogni caso, si manifesta in una grave mancanza di condivisione di alcuni principi chiave che facciano da cornice, e impediscano di trasformare il conflitto politico in guerra ideologica.
Vorrei parlare di questi fondamenti, perché proprio sul terreno del rapporto tra religione e democrazia (e non solo in Italia) si gioca la partita. Nel libro, questo problema appare in due forme: da una parte, in termini di filosofia politica, la questione della interpretazione della laicità dello stato e dei diritti dei cittadini credenti e non (pp. 83, 110-112); dall’altra, nei termini di una teoria diffusa in molto pensiero politico e sociale recente, spesso usata dai difensori di un forte ruolo pubblico della religione, la tesi del “deficit morale della democrazia liberale” (pp. 89-95, 98-99).
La prima questione riguarda l’idea di “laicità” dello Stato. Il fatto che tanti politici o intellettuali possano dichiararsi liberali e allo stesso tempo difendere la presenza del crocifisso nelle istituzioni statali mostra che i fondamenti e i limiti di questa idea non sono chiari. Proviamo a formularli. Uno stato democratico liberale può essere pensato come una associazione di individui che si trattano da liberi ed eguali. Non chiediamoci su che base essi lo facciano, cioè per quali ragioni essi ritengano giusto rispettarsi reciprocamente come individui dotati di pari dignità morale. Partiamo dal fatto che essi ritengono giusto farlo, dal momento che vogliono vivere in un regime politico democratico e liberale, fondato cioè sul rispetto della autodeterminazione collettiva e sulle libertà fondamentali. Se volessero un altro tipo di regime (teocratico, monarchico tradizionale, fondato sul potere carismatico di un capo, ecc.) potremmo supporre legittimamente che non accettano tali principi; ma se vogliono la democrazia, accettano implicitamente i principi di libertà ed eguaglianza.
Ora, il problema è che ogni regime politico si fonda sulla coercizione: non si tratta di una associazione qualunque, da cui si esce e si entra quando si vuole, ma di una associazione in cui ci si trova dalla nascita e che è tenuta insieme dall’esercizio di un potere coercitivo che impone ai singoli il rispetto delle leggi. Si può lasciare il proprio paese, ma questo non avviene senza costi alti. Non si ha verso l’associazione Stato la stessa libertà di entrata e di uscita che si ha verso qualsiasi associazione volontaria non coercitiva. Se il regime è democratico, vuol dire che tutti, tramite le procedure della deliberazione pubblica, esercitano questo potere coercitivo nei confronti di tutti gli altri. Ora, come è possibile che l’esercizio della coercizione sia reso coerente con il rispetto della eguale libertà di ognuno, presupposta da questo regime? Ovviamente, tramite tutte le procedure che garantiscono l’eguale partecipazione politica, le libertà fondamentali e
una equa eguaglianza di opportunità nelle prospettive di vita dei cittadini stessi.
Il problema della legittimazione del potere è proprio trovare il difficile equilibrio tra la coercizione e l’eguaglianza morale di individui liberi. Sul terreno del rapporto tra religione e democrazia, bisogna aggiungere a questi due elementi – eguaglianza e coercizione – un terzo elemento: il pluralismo. Partiamo dal fatto che nella società democratica in cui viviamo esistono diverse concezioni della vita buona: diverse concezioni religiose, morali, metafisiche o altro che producono più visioni generali del mondo, spesso non conciliabili tra loro. Non ha importanza come valutiamo questo fatto; quello che conta è che le cose stanno così. Inoltre sappiamo che se volessimo ricondurre a unità questo pluralismo dovremmo usare un grado di coercizione molto forte e allo stesso tempo diseguale, perché sarebbe più forte nei confronti di chi non vuole adottare la dottrina etica o religiosa che vogliamo imporre, e meno forte o assente per chi l’ha già adottata. Senza entrare troppo nei dettagli, è evidente che il principio della legittimità liberaldemocratica, unito al fatto del pluralismo, produce necessariamente la neutralità del potere pubblico nei confronti delle dottrine religiose o etiche in competizione.
Vorrei sottolineare che qui il discrimine fondamentale è proprio quello della coercizione. Questo punto viene spesso trascurato nei dibattiti pubblici, e da qui nascono le confusioni di piani. Perché una libera associazione può, al suo interno, preservare un ordine gerarchico, escludere per esempio le donne da certe funzioni, escludere coloro che non approvano una certa dottrina, e invece lo Stato, nei suoi rapporti con i cittadini, non può fare niente di tutto questo? Perché da una associazione libera si può uscire quando si vuole, mentre abbandonare il proprio paese ha costi elevati e l’associazione Stato esercita su di noi un potere coercitivo, tramite il monopolio della forza legittima. Ecco perché un individuo è libero di portare simboli religiosi di qualsiasi tipo in qualsiasi tipo di spazio pubblico, e invece lo Stato non può portare simboli religiosi.
Va chiarita la natura di quello che per comodità ho chiamato fin qui “spazio pubblico”. Esiste uno spazio pubblico costituito da tutti i contesti in cui liberi cittadini si incontrano spontaneamente, dibattono, si confrontano, senza nessun tipo di vincolo formale o istituzionale, senza la presenza del potere coercitivo dello Stato. Questa “sfera pubblica informale” (Habermas), o “società civile” (Rawls), deve essere completamente libera, nei termini della libertà di parola e di espressione, perché in essa non si esercita coercizione, ma solo confronto di opinioni. Chiunque qui può portare la sua identità particolare, facendo questo non esercita nessuna pressione sugli altri, se tutti restano nei limiti della discussione libera. Esiste poi uno spazio pubblico istituzionale (il “foro politico pubblico”, secondo Rawls) in cui istituzioni statali svolgono una funzione specifica, e così facendo esercitano anche una coercizione sui cittadini. Possono essere le scuole, o i tribunali, o il Parlamento; cito solo alcuni esempi. In questi casi lo Stato è legittimato a esercitare una certa coercizione, ma è evidente che questo gli pone dei limiti, pena la violazione della eguale libertà dei cittadini. L’obbligo scolastico non può trasformarsi nella imposizione di un credo religioso; la pena inflitta al reo non può trasformarsi nell’arbitraria condanna di minoranze religiose; la legge votata e imposta dal Parlamento al paese non può discriminare un gruppo di credenti a favore di un altro. Nell’ambito di queste istituzioni, quindi, il rispetto del principio di legittimità liberaldemocratica impone una indifferenza dello Stato su certe materie (le concezioni del bene, le dottrine religiose), quindi la sua neutralità; gli impone l’adozione di un linguaggio pubblico condiviso da tutti i cittadini in quanto cittadini, a prescindere dalle loro appartenenze religiose.
Ecco perché la questione del velo in Francia è diversissima da quella del crocifisso in Italia: il velo è portato da individui, che non esercitano coercizione politica su altri; il crocifisso è portato dallo Stato, che esercita una coercizione politica sui cittadini. Ecco perché la questione del simbolo religioso portato dallo Stato è molto diversa da quella dei simboli religiosi di cui pullulano le città europee e che “non offendono nessuno”. Questi simboli che fanno parte del panorama possono essere oggetto di rifiuto o di appropriazione da parte dei singoli, e ognuno lo farà alla sua maniera; il sentimento di appartenenza alla propria città, per esempio, può passare per tante vie, e certo anche per la considerazione estetica e storica (e perché no esistenziale) delle chiese che vi si trovano, anche per un non credente. Ma queste sono storie individuali, libere. Invece il senso di appartenenza allo stato democratico deve passare per una appropriazione condivisa di alcuni principi fondamentali, su un terreno di eguaglianza: se io mi identifico di più nello Stato perché questo porta simboli che mi appartengono come credente, ma che non mi appartengono come cittadino eguale a te, tu non sei più eguale a me.
Nello spazio pubblico informale i cittadini sono liberi di manifestare qualsiasi identità particolare e di associarsi per affermarla, nei limiti della eguale libertà degli altri. Nello spazio pubblico istituzionale lo Stato non può esporre simboli di appartenenza particolare, ma solo simboli della comune appartenenza alla cittadinanza. Non ha importanza qui discutere se vincoli simili, meno forti, ricadano anche sui cittadini, nello spazio pubblico istituzionale. Qui ci basta sapere che per le istituzioni statali e per i funzionari pubblici questi limiti esistono.
A questo punto emerge il secondo problema: ma questo Stato privato di identità storiche e religiose forti, privato di una “eticità” forte, come dicono i filosofi, come può generare realmente nei cittadini un senso di fedeltà e di appartenenza? Come può fornire le forze motivazionali per rafforzare il proprio ethos, per non rendere astratte e come sospese nel vuoto le sue leggi? Questa è la celebre critica del presunto “deficit etico e motivazionale delle democrazie liberali”. Recentemente, questa critica ha avuto un grande successo, poiché si parla molto della religione come collante sociale, di bisogno di comunità, ecc. Inoltre, è stata rilanciata in un celebre dibattito tra Habermas e l’allora cardinale Ratzinger, a partire da una nota formulazione dello storico cattolico tedesco Böckenförde. Ma in realtà la critica è molto più antica. Si è posta subito all’uscita della Rivoluzione francese, quando già un pensatore come Constant si è chiesto come è possibile tenere unita una società di individui liberi; ha trovato il suo luogo filosofico classico nelle critiche di Hegel al formalismo astratto della morale kantiana e all’individualismo del costituzionalismo lockiano; è ricomparsa nei padri fondatori della sociologia, per esempio nella ossessione di Durkheim per l’integrazione sociale. E così via.
Come si risponde a questa critica tenendo salda la neutralità dello stato? Un primo passo, secondo me, è questo. Va riconosciuto che i fondamenti dello stato liberaldemocratico sono di natura morale. Il principio dell’eguaglian
za di individui liberi è di natura morale, perché si impone come un obbligo di reciprocità. Chi lo condivide è tenuto al rispetto degli altri, come soggetti capaci di azione morale e di scelta razionale. La democrazia deve essere consapevole delle sue basi morali, e alimentarle. La sua eticità è questa: è una “striscia” sottile delle varie forme di eticità che attraversano la nostra vita pubblica, ma è una parte che tutti possono condividere. Le istituzioni non sono solo tenute a farla rispettare, ma anche a farla crescere come consapevolezza morale. È una eticità pubblica, un senso civico, che si spende in “moneta spicciola” (Habermas), nella rivendicazione e nella pratica quotidiana dei diritti, nella partecipazione politica e nel dibattito pubblico, nelle lotte legali delle associazioni e dei movimenti, nell’ideale della mediazione politica che si fonda sul rispetto degli altri come eguali a me. Questa moralità democratica è nata da una tradizione storica, certo, ma può essere aperta ad altre culture se è capace di accogliere le modifiche che il confronto con esse esige, se è capace di porre i propri presupposti in modo non unilaterale, non troppo ancorato a identità storiche e religiose specifiche.
La democrazia liberale deve percorrere questa strada stretta tra la consapevolezza dei propri presupposti morali e la modestia della proposta che fa alle appartenenze morali “forti”. Questa modestia è il senso dell’elogio del muro bianco, spoglio di simboli religiosi, che Sergio Luzzatto rivendica senza trovare eco nel nostro dibattito pubblico. È il senso profondo dello stupendo elogio fatto da Italo Calvino della austerità della democrazia nella Giornata di uno scrutatore. Il potere si fonda anche sulla rappresentazione di sé, da sempre; nella grandi monarchie di diritto divino, nei regimi ideologici a partito unico, nelle teocrazie questo elemento è dominante, ma ovviamente a esso non sfuggono neanche le democrazie, perché il potere è sempre potere. Però la democrazia ha il suo contravveleno, la pratica modesta delle procedure, del rispetto delle regole, la deliberazione assembleare, il lento e prudente esercizio del diritto di voto. Nelle parole di Calvino: “La democrazia si presentava ai cittadini sotto queste spoglie dimesse, grigie, disadorne; ad Amerigo a tratti ciò pareva sublime, nell’Italia da sempre ossequiente a ciò che è pompa, fasto, esteriorità, ornamento; gli pareva finalmente la lezione d’una morale onesta e austera; e una perpetua silenziosa rivincita sui fascisti, su coloro che la democrazia avevano creduto di poter disprezzare proprio per questo suo squallore esteriore, per questa sua umile contabilità, ed erano caduti in polvere con tutte le loro frange e i loro fiocchi, mentre essa, col suo scarno cerimoniale di pezzi di carta ripiegati come telegrammi, di matite affidate a dita callose o malferme, continuava la sua strada” (Italo Calvino, La giornata d’uno scrutatore, Torino, Einaudi, 1963, pp. 18-19).
Il muro bianco delle aule scolastiche è lo spazio aperto da cui lo Stato ritira il suo potere coercitivo e lascia esprimersi liberamente le identità reali dei cittadini. La suo forza etica è proprio in questa riservatezza; la sua “eticità” è proprio la morale – forte – di rispetto reciproco che il suo distacco incarna. Questo porta a vedere che il presunto deficit morale della democrazia liberale viene di fatto combattuto in due altre maniere. In primo luogo, la pluralità di prospettive morali e religiose, resa possibile da una corretta “astinenza” dello Stato, ovviamente le rafforzerà, e se questo rafforzamento avviene nel rispetto delle parti, ciò significherà un fiorire di queste identità, per quanto trasformate ovviamente dal rapporto con la moralità democratica. Ma niente vive senza trasformarsi. Inoltre, in secondo luogo, è la storia a trasformare l’astratto in concreto, con il tempo. La moralità della democrazia ormai ha una storia, che per il momento, nonostante le difficoltà, non sembra interrotta. In questa storia, essa si è concretizzata in pratiche diffuse, in interpretazioni locali (la democrazia in Italia non è la stessa in Francia, né in Germania, ecc.), nell’abbinamento con tradizioni storiche e anche religiose particolari. È questo il processo che porta a trovare nella democrazia stessa le forze etiche che superano il suo presunto deficit morale. Uso a proposito la parola “etico”, perché qui si dimentica spesso che Hegel, apostolo dell’eticità contro la moralità astratta, è in realtà quello stesso che ha mostrato già, come in una intuizione, la possibilità che questo mondo sociale passasse gradualmente, come sta facendo, dall’astratto al concreto.
Nella Fenomenologia dello spirito, Hegel parla della sua epoca come di una “età di gestazione e di trapasso”, in cui il nuovo mondo che emerge “dissolve brano a brano l’edificio del […] mondo precedente”. Il nuovo, però, non ha ancora realtà concreta, è solo il “concetto di quel nuovo mondo”; da qui la sua astrattezza contro la concretezza, pur in disfacimento, dell’ancien régime. Ma noi tutti sappiamo che il nuovo mondo di cui Hegel sta parlando è quello in cui la modernità politica è vissuta e vive da ormai più di due secoli; attraverso conflitti anche atroci, è esso, ora, ad avere realtà concreta, perché i diritti astratti si sono fatti in parte istituzione, perché le rivendicazioni politiche e sociali si sono fatte in parte nuovi rapporti sociali, perché i principi egualitari si sono fatti in parte sentire comune, e perché così, con questi passaggi, la moralità astratta è diventata in parte l’eticità della società moderna.
(7 febbraio 2012)
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