Europa ultima chiamata. Schlein: “Abbandonare il dogma dell’austerità o sarà la fine dell’Unione”

Daniele Nalbone

La crisi del 2009 ha minato le basi dell’Ue, quella attuale rischia di farla implodere. Elly Schlein, ex eurodeputata e oggi vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, analizza qual è la strada per uscire dall’emergenza economica e sociale causata dal Coronavirus. Una strada che può essere solo “europea”.

intervista a Elly Schlein

Dopo cinque anni da europarlamentare Elly Schlein è stata, con oltre 22mila preferenze, la candidata più votata alle elezioni regionali del 26 gennaio, "conquistando” sul campo la carica di vicepresidente dell’Emilia-Romagna con delega al Welfare e al Patto per il clima. L’abbiamo contattata per analizzare la "crisi Coronavirus" e il ruolo che l’Unione europea può e deve giocare per uscire dall’emergenza e, al tempo stesso, salvarsi dall’implosione.

Partiamo da una domanda netta: come giudica il ruolo dell’Unione Europea nell’emergenza Covid-19?
L’Unione ha reagito con ritardo rispetto a quando è scoppiata l’emergenza nel nostro Paese, su questo non c’è dubbio, ma bisogna riconoscere che la Commissione europea in particolare ha comunque proposto misure importanti a partire dall’attivazione della general escape clause, che sospendendo il Patto di stabilità ha permesso interventi importanti ai singoli Stati per affrontare l’emergenza economica e sociale che stiamo vivendo. Ha provato poi a coordinare al meglio quella pagina triste che è stata la circolazione delle merci, dai materiali sanitari ai dispositivi di protezione, che inizialmente erano state fermate alle frontiere, un intervento che ha permesso di sbloccare lo stallo che si era creato con dei “corridoi verdi” per la circolazione delle merci. Ha dato una flessibilità molto importante sugli aiuti di Stato a tutti i Paesi e ha creato le condizioni per una modifica, sulla quale è intervenuto anche il Parlamento europeo, con cui si è incrementato il Fondo di solidarietà europeo e si è previsto di poter estendere il suo utilizzo anche a una crisi sanitaria, mentre prima era possibile attingere a queste risorse solo per eventi catastrofici come terremoti o alluvioni. C’è stato poi un ruolo significativo giocato dalla Banca Centrale Europea con circa mille miliardi di acquisti di titolo di debito pubblico con Quantitative Easing. Tutte queste misure sono assolutamente significative ma sarà importante trarre lezione da quello che non ha funzionato rispetto alla reazione alla crisi economica del 2008 e del 2009 per non ripetere gli stessi errori. In queste settimane sono poi stati approntati strumenti innovativi come lo “schema europeo di disoccupazione”, il SURE, con cento miliardi messi a disposizione per il supporto di lavoratrici, lavoratori e imprese, e che sarà fondamentale per il pagamento degli ammortizzatori sociali. Infine, il CRI, il Coronavirus response investment initiative, che ha mobilitato la politica di coesione con interventi destinati proprio alle regioni per sostenere non solo la sanità, ma anche il sociale e il lavoro. Il dato da prendere in considerazione che emerge dal comportamento dell’Ue in questa crisi è aver mostrato una grande flessibilità nell’utilizzo dei fondi strutturali, flessibilità che mi auguro continui anche dopo la pandemia. È chiaro che questi strumenti non sono sufficienti per fronteggiare l’emergenza e da federalista europea convinta credo ancora che l’Unione debba e possa fare di più, per esempio aumentando il bilancio europeo: noi pretendiamo che l’Ue sia in condizione di reagire prontamente alle sfide comuni che nessuno Stato può fronteggiare da solo, ma ci si dimentica che per fare tutto questo l’Unione ha a disposizione un bilancio insufficiente, che corrisponde circa all’1% del pil dell’Ue. È come voler fare andare una Ferrari con il motore di una 500. La strada da seguire è una sola: i governi devono convincersi a mettere più risorse a disposizione dell’Ue, e servono anche risorse proprie come ad esempio una Carbon Tax, la tassa sulle transazioni finanziarie e sui servizi digitali.

L’Italia è in prima fila a chiedere il Recovery Fund. “Uno strumento finora impensabile che renderà la risposta europea più solida e coordinata” dice il presidente ConteLo strumento dovrebbe entrare in vigore in estate. Come giudica la linea scelta dall’Italia?

Ancora è presto per esprimere un giudizio, ma sicuramente è uno strumento interessante. Restano però da sciogliere due nodi centrali: come sarà finanziato e come sarà utilizzabile. Di certo serviranno risorse aggiuntive in bilancio, in particolare sulla politica di coesione, che possano essere anche anticipate rispetto alla programmazione 2021-2027. Questo è un punto su cui noi, come Emilia-Romagna, stiamo insistendo perché ci sono regioni virtuose sull’utilizzo dei fondi che hanno già speso quasi tutto quanto era stato stanziato dalla scorsa programmazione: per questo stiamo chiedendo di anticipare una parte della nuova programmazione con l’obiettivo di usare questi fondi per fronteggiare e uscire dalla crisi che ci consegna il Coronavirus. Sono ancora tante, quindi, le cose non fatte e da fare, ma c’è una cosa che mi preoccupa ancora di più del ritardo, il fatto che nemmeno una crisi così simmetrica, che ha colpito tutti i Paesi membri, sia riuscita a far abbandonare ad alcuni governi quell’atteggiamento miope che fa prevalere l’egoismo nazionale rispetto a una visione comune. Quanto all’operato del governo Conte, credo che la sua linea sia stata corretta. Il punto è chiaro: sono sempre stata favorevole a una condivisione delle responsabilità anche tramite gli eurobond. Purtroppo, la discussione a Bruxelles passa sempre da una serie di mediazioni. La chiusura sugli eurobond da parte di alcuni Stati del Nord mi è sembrata soprattutto nominalistica e ideologica, anche se dall’ultimo Consiglio europeo è uscita una “non esclusione” almeno nell’esplorazione di questa strada. Ripeto, lo strumento del Recovery Fund è ancora tutto da capire, ma sono certa che il ministro Roberto Gualtieri, un uomo che conosce molto bene la macchina europea, sarà in grado di dare il suo contributo alla ricerca dei compromessi necessari. La battaglia per gli eurobond è giusta e va portata avanti; nell’attesa andiamo a vedere cosa è possibile mettere in campo nell’immediato sperando che si apra un margine di discussione da continuare a esplorare in futuro.

Da diverse parti arriva la richiesta di un’Europa diversa. Inoltre, le voci degli antieuropeisti sono sempre più forti e il fronte sempre più largo. Come si può salvare l’Europa? Quali sono i cambi di passo – concreti – da fare per portare l’Ue a giocare un ruolo di primo piano al fianco degli Stati?

Un’Europa diversa è indispensabile. Chi aveva ideato l’Unione, penso ovviamente al manifesto di Ventotene, l’aveva fatto guardando soprattutto a quello che stava accadendo in Europa, ai nazionalismi che in questo continente hanno portato sempre e solo guerre, e immaginando la necessità di consegnare alle future generazioni una convivenza pacifica. Da qui la grande idea di una federazione europea. Quello però era un mondo precedente alla globalizzazione sregolata che ha portato, tra le altre cose, a un fatto: le sfide che ogni Paese ha davanti sono impossibili da affrontare singolarmente. Questo vale oggi per la crisi del Coronavirus ma valeva fino a ieri sul tema migratorio, su quello climatico, su quello fiscale, fino ad arrivare al tema della politica estera e della sicurezza comune. Il punto è sempre lo stesso: dobbiamo investire più risorse a livello europeo in politiche sociali, ambientali e del lavoro. Bisognerà indirizzare gli investimenti prioritariamente verso un vero Green new deal europeo, non solo per integrare la dimensione sociale con quella ambientale, dimensioni inscindibili tra loro, non solo per “salvare il Pianeta”, ma per creare nuove opportunità di occupazione di qualità. Nei cinque anni precedenti passati a Bruxelles ho visto come, in realtà, l’Ue abbia tutti i difetti che conosciamo per un unico, vero motivo: perché qualche governo non ha mai voluto fare veramente l’unione. È mancato il coraggio di fare quel passo in più sui temi su cui era necessario integrare politiche e risorse. L’esempio lampante è quanto accaduto sulla questione migratoria: tutti sanno che nessun Paese da solo può fronteggiare questa sfida, eppure abbiamo battagliato cinque anni per riformare il Regolamento di Dublino con il “solo” obiettivo di affermare un principio molto chiaro: bisogna condividere equamente tra i vari Stati membri dell’Ue le responsabilità sull’accoglienza con un sistema di quote obbligatorie che valorizzino i legami delle persone. Detto in questo modo, e partendo da questo principio, tutto il dibattito assurdo che si è generato intorno all’immigrazione negli ultimi anni avrebbe svelato, soprattutto alla cittadinanza, che i numeri dei flussi sono tutt’altro che ingestibili. Nel 2016, anno di maggior numero di richieste di asilo, si parlava di 1,3 milioni di domande in un continente di quasi 450 milioni di abitanti. Lo stesso possiamo dire sulla questione climatica: un Paese, da solo, può mettere in campo la migliore strategia di contrasto ai cambiamenti climatici possibile, ma se il tuo vicino continua a fare emissioni senza regole e a non puntare sulle rinnovabili il problema resta irrisolvibile. Per questo serve una cornice chiara di regole stringenti. Riallineare tutte le politiche agli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, evitando palesi contraddizioni. È una sfida che si può affrontare solo se ognuno fa la propria parte a partire dal livello europeo, poi nazionale e regionale, ed è uno dei versanti su cui l’Unione ha portato un valore aggiunto, fissando dei target via via più ambizioni, e ora si parla della neutralità al 2050. Non possiamo perdere questo obiettivo, la transizione ecologica è necessaria.

Abbiamo parlato di immigrazione e ambiente. Quali sono le sfide che l’Ue ha davanti oggi, in piena crisi Coronavirus?

Abbiamo bisogno di un piano straordinario di risorse e strumenti di risposta innovativi rispetto a questa crisi: il primo passo da fare è abbandonare il dogma fallimentare delle politiche di austerità. Serve un grande piano di investimenti pubblici, che indirizzi anche quelli privati, verso quello che con la crisi del 2008 abbiamo lasciato indietro: ricerca, innovazione, produzione di qualità e non solo “di quantità”, senza dimenticare anche qui il tema dell’economia verde e delle potenzialità che ha per ripensare complessivamente il modello di sviluppo e renderlo finalmente sostenibile, equo ed inclusivo. Questa sfida, come detto, si può affrontare solo in una cornice come quella europea. Da qui la necessità di intervenire sul tema fiscale: in tanti hanno visto nell’euro il capro espiatorio più semplice, ma la realtà è che è mancata una vera integrazione delle politiche economiche e fiscali dell’Unione. Come può reggere un sistema in cui un governo concede un’aliquota effettiva dello 0,005% a una nota multinazionale? I famosi paradisi fiscali li abbiamo dentro l’Unione e non hanno le palme. Quando ci dicono che non ci sono le risorse da mettere sui servizi alle persone, sulle pensioni, per rafforzare istruzione e sanità, è semplicemente una bugia. Investire sull’evasione e sull’elusione fiscale delle grandi compagnie in Europa significa riconquistare centinaia di miliardi di euro persi ogni anno. Eppure, gli strumenti per recuperare quelle somme si potrebbero attivare domani mattina, si tratta di strumenti come la rendicontazione pubblica Stato per Stato o della direttiva, bloccata da anni al consiglio, per una base imponibile comune per l’imposta sulle società che, di fatto, farebbe valere il principio che le tasse si pagano dove si fanno i profitti e non dove conviene perché un governo compiacente concede un’aliquota pari allo zero. La cosa inaccettabile è che gli Stati più riluttanti a introdurre strumenti di solidarietà europea anche in questa crisi che stiamo vivendo sono gli stessi che con le loro politiche fiscali continuano a sottrarre risorse agli altri Paesi. In questo scenario o l’Ue farà uno scatto in avanti oggi, in piena crisi Coronavirus, rimettendo al centro il principio di solidarietà, o rischia di sfaldarsi definitivamente. Questa è l’ultima chiamata, considerando che già la Brexit ha dato un duro colpo all’Ue. È il momento di superare questi indugi incomprensibili.


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Tra pochi giorni entreremo nella vera "fase due". A livello economico e sociale come si può uscire dalla crisi, o almeno immaginare una via d’uscita?

Serve secondo per prima cosa chiudere davvero la fase dell’emergenza: non ne siamo usciti, si sta ragionando di fase due ma il virus è ancora nel Paese. Per questo dietro ogni decisione che verrà presa dovrà esserci solo un principio: la tutela della salute. Per quanto riguarda la direzione verso la quale ripartire, la strada è una sola: non puntare a tornare alla normalità di prima, perché quella normalità ha mostrato forti criticità. Questa crisi ci ha posto davanti a una pagina bianca che dovremo scrivere diversamente, partendo dalla lotta alle diseguaglianze. Abbiamo fragilità che già conoscevamo e che oggi si sono aggravate e, al tempo stesso, una serie di nuovi bisogni che stanno emergendo. Non è possibile parlare di vera “fase due” senza una strategia di sostegno alle famiglie per i figli perché sappiamo già che questo si tradurrebbe nell’impossibilità per le donne di conciliare i tempi di lavoro con i tempi di vita. Non possiamo accettare passi indietro sulla parità di genere e i diritti delle donne. Servono poi ragionamenti “di fondo” per evitare che una crisi così trasversale vada a incrementare diseguaglianze territoriali, economiche e sociali. Per questo dobbiamo porci le giuste domande. Come ricostruire dei servizi di prossimità nelle aree interne? Come ripensare i presidi sanitari sul territorio? Come ricostruire l’intero sistema dei servizi rimettendo al centro le persone? In questo scenario dobbiamo fare attenzione a non commettere un errore, che sarebbe gravissimo, e cioè pensare che siccome siamo davanti a una crisi profonda non è il momento per la transizione ecologica. Ci aspetta una ricostruzione ardua nella quale va tenuto tutto insieme. Faccio solo alcuni esempi. L’unico modo per affrontare il problema della disoccupazione è ripensare gli strumenti di sostegno al reddito, trasformando il reddito di cittadinanza in un vero strumento di sostegno al reddito universale. Si parla tanto di smart working ma spostare tutto “a casa” è ovviamente impossibile. Se vogliamo trarre qualcosa di positivo da questa situazione dobbiamo renderci conto da un lato di aver sviluppato capacità che non avevamo sentito il bisogno di esplorare, ma al tempo stesso renderci conto che l’unico modo per non precipitare nel baratro della disoccupazione è iniziare a parlare di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una misura che andrà ovviamente abbinata a una riforma fiscale in senso progressivo, come chiede la Costituzione. Il principio che deve guidarci è uno solo: sostenere e migliorare le condizioni materiali delle fasce sociali più deboli. Solo così staremo bene tutti, l’intera comunità, senza lasciare nessuno indietro.

(6 maggio 2020)





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