Europa ultima chiamata. Schlein: “Abbandonare il dogma dell’austerità o sarà la fine dell’Unione”
Daniele Nalbone
La crisi del 2009 ha minato le basi dell’Ue, quella attuale rischia di farla implodere. Elly Schlein, ex eurodeputata e oggi vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, analizza qual è la strada per uscire dall’emergenza economica e sociale causata dal Coronavirus. Una strada che può essere solo “europea”.
intervista a Elly Schlein
Dopo cinque anni da europarlamentare Elly Schlein è stata, con oltre 22mila preferenze, la candidata più votata alle elezioni regionali del 26 gennaio, "conquistando” sul campo la carica di vicepresidente dell’Emilia-Romagna con delega al Welfare e al Patto per il clima. L’abbiamo contattata per analizzare la "crisi Coronavirus" e il ruolo che l’Unione europea può e deve giocare per uscire dall’emergenza e, al tempo stesso, salvarsi dall’implosione.
L’Italia è in prima fila a chiedere il Recovery Fund. “Uno strumento finora impensabile che renderà la risposta europea più solida e coordinata” dice il presidente ConteLo strumento dovrebbe entrare in vigore in estate. Come giudica la linea scelta dall’Italia?
Ancora è presto per esprimere un giudizio, ma sicuramente è uno strumento interessante. Restano però da sciogliere due nodi centrali: come sarà finanziato e come sarà utilizzabile. Di certo serviranno risorse aggiuntive in bilancio, in particolare sulla politica di coesione, che possano essere anche anticipate rispetto alla programmazione 2021-2027. Questo è un punto su cui noi, come Emilia-Romagna, stiamo insistendo perché ci sono regioni virtuose sull’utilizzo dei fondi che hanno già speso quasi tutto quanto era stato stanziato dalla scorsa programmazione: per questo stiamo chiedendo di anticipare una parte della nuova programmazione con l’obiettivo di usare questi fondi per fronteggiare e uscire dalla crisi che ci consegna il Coronavirus. Sono ancora tante, quindi, le cose non fatte e da fare, ma c’è una cosa che mi preoccupa ancora di più del ritardo, il fatto che nemmeno una crisi così simmetrica, che ha colpito tutti i Paesi membri, sia riuscita a far abbandonare ad alcuni governi quell’atteggiamento miope che fa prevalere l’egoismo nazionale rispetto a una visione comune. Quanto all’operato del governo Conte, credo che la sua linea sia stata corretta. Il punto è chiaro: sono sempre stata favorevole a una condivisione delle responsabilità anche tramite gli eurobond. Purtroppo, la discussione a Bruxelles passa sempre da una serie di mediazioni. La chiusura sugli eurobond da parte di alcuni Stati del Nord mi è sembrata soprattutto nominalistica e ideologica, anche se dall’ultimo Consiglio europeo è uscita una “non esclusione” almeno nell’esplorazione di questa strada. Ripeto, lo strumento del Recovery Fund è ancora tutto da capire, ma sono certa che il ministro Roberto Gualtieri, un uomo che conosce molto bene la macchina europea, sarà in grado di dare il suo contributo alla ricerca dei compromessi necessari. La battaglia per gli eurobond è giusta e va portata avanti; nell’attesa andiamo a vedere cosa è possibile mettere in campo nell’immediato sperando che si apra un margine di discussione da continuare a esplorare in futuro.
Da diverse parti arriva la richiesta di un’Europa diversa. Inoltre, le voci degli antieuropeisti sono sempre più forti e il fronte sempre più largo. Come si può salvare l’Europa? Quali sono i cambi di passo – concreti – da fare per portare l’Ue a giocare un ruolo di primo piano al fianco degli Stati?
Abbiamo bisogno di un piano straordinario di risorse e strumenti di risposta innovativi rispetto a questa crisi: il primo passo da fare è abbandonare il dogma fallimentare delle politiche di austerità. Serve un grande piano di investimenti pubblici, che indirizzi anche quelli privati, verso quello che con la crisi del 2008 abbiamo lasciato indietro: ricerca, innovazione, produzione di qualità e non solo “di quantità”, senza dimenticare anche qui il tema dell’economia verde e delle potenzialità che ha per ripensare complessivamente il modello di sviluppo e renderlo finalmente sostenibile, equo ed inclusivo. Questa sfida, come detto, si può affrontare solo in una cornice come quella europea. Da qui la necessità di intervenire sul tema fiscale: in tanti hanno visto nell’euro il capro espiatorio più semplice, ma la realtà è che è mancata una vera integrazione delle politiche economiche e fiscali dell’Unione. Come può reggere un sistema in cui un governo concede un’aliquota effettiva dello 0,005% a una nota multinazionale? I famosi paradisi fiscali li abbiamo dentro l’Unione e non hanno le palme. Quando ci dicono che non ci sono le risorse da mettere sui servizi alle persone, sulle pensioni, per rafforzare istruzione e sanità, è semplicemente una bugia. Investire sull’evasione e sull’elusione fiscale delle grandi compagnie in Europa significa riconquistare centinaia di miliardi di euro persi ogni anno. Eppure, gli strumenti per recuperare quelle somme si potrebbero attivare domani mattina, si tratta di strumenti come la rendicontazione pubblica Stato per Stato o della direttiva, bloccata da anni al consiglio, per una base imponibile comune per l’imposta sulle società che, di fatto, farebbe valere il principio che le tasse si pagano dove si fanno i profitti e non dove conviene perché un governo compiacente concede un’aliquota pari allo zero. La cosa inaccettabile è che gli Stati più riluttanti a introdurre strumenti di solidarietà europea anche in questa crisi che stiamo vivendo sono gli stessi che con le loro politiche fiscali continuano a sottrarre risorse agli altri Paesi. In questo scenario o l’Ue farà uno scatto in avanti oggi, in piena crisi Coronavirus, rimettendo al centro il principio di solidarietà, o rischia di sfaldarsi definitivamente. Questa è l’ultima chiamata, considerando che già la Brexit ha dato un duro colpo all’Ue. È il momento di superare questi indugi incomprensibili.
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Tra pochi giorni entreremo nella vera "fase due". A livello economico e sociale come si può uscire dalla crisi, o almeno immaginare una via d’uscita?
Serve secondo per prima cosa chiudere davvero la fase dell’emergenza: non ne siamo usciti, si sta ragionando di fase due ma il virus è ancora nel Paese. Per questo dietro ogni decisione che verrà presa dovrà esserci solo un principio: la tutela della salute. Per quanto riguarda la direzione verso la quale ripartire, la strada è una sola: non puntare a tornare alla normalità di prima, perché quella normalità ha mostrato forti criticità. Questa crisi ci ha posto davanti a una pagina bianca che dovremo scrivere diversamente, partendo dalla lotta alle diseguaglianze. Abbiamo fragilità che già conoscevamo e che oggi si sono aggravate e, al tempo stesso, una serie di nuovi bisogni che stanno emergendo. Non è possibile parlare di vera “fase due” senza una strategia di sostegno alle famiglie per i figli perché sappiamo già che questo si tradurrebbe nell’impossibilità per le donne di conciliare i tempi di lavoro con i tempi di vita. Non possiamo accettare passi indietro sulla parità di genere e i diritti delle donne. Servono poi ragionamenti “di fondo” per evitare che una crisi così trasversale vada a incrementare diseguaglianze territoriali, economiche e sociali. Per questo dobbiamo porci le giuste domande. Come ricostruire dei servizi di prossimità nelle aree interne? Come ripensare i presidi sanitari sul territorio? Come ricostruire l’intero sistema dei servizi rimettendo al centro le persone? In questo scenario dobbiamo fare attenzione a non commettere un errore, che sarebbe gravissimo, e cioè pensare che siccome siamo davanti a una crisi profonda non è il momento per la transizione ecologica. Ci aspetta una ricostruzione ardua nella quale va tenuto tutto insieme. Faccio solo alcuni esempi. L’unico modo per affrontare il problema della disoccupazione è ripensare gli strumenti di sostegno al reddito, trasformando il reddito di cittadinanza in un vero strumento di sostegno al reddito universale. Si parla tanto di smart working ma spostare tutto “a casa” è ovviamente impossibile. Se vogliamo trarre qualcosa di positivo da questa situazione dobbiamo renderci conto da un lato di aver sviluppato capacità che non avevamo sentito il bisogno di esplorare, ma al tempo stesso renderci conto che l’unico modo per non precipitare nel baratro della disoccupazione è iniziare a parlare di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una misura che andrà ovviamente abbinata a una riforma fiscale in senso progressivo, come chiede la Costituzione. Il principio che deve guidarci è uno solo: sostenere e migliorare le condizioni materiali delle fasce sociali più deboli. Solo così staremo bene tutti, l’intera comunità, senza lasciare nessuno indietro.
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