Eutanasia: una riflessione protestante

Sabina Baral

intervista a Luca Savarino

La Commissione Bioetica delle Chiese battiste, metodiste e valdesi in Italia – composta da persone appartenenti alle Chiese evangeliche e attive nell’ambito della ricerca, dell’Università e delle professioni – ha messo a punto un nuovo documento sui temi dell’eutanasia e del suicidio assistito. La sua pubblicazione, avvenuta dopo due anni di elaborazione, coincide con l’approvazione in prima lettura da parte della Camera dei Deputati del disegno di legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento. Il documento prosegue una riflessione già intrapresa nel 1998 (si veda il documento di studio nr. 3 dal titolo "L’eutanasia e il suicidio assistito") e la sviluppa a partire da alcuni significativi mutamenti intercorsi nella discussione sulle tematiche di fine vita: dall’ampliamento della tipologia delle persone coinvolte nel dibattito sull’eutanasia, all’importante sviluppo delle tecniche di medicina palliativa, ai dati legislativi dei paesi in cui si è scelto di intraprendere la strada della legalizzazione o della depenalizzazione di eutanasia e suicidio assistito.

Il nuovo documento è stato inviato alle chiese e verrà presentato e discusso nel prossimo sinodo di fine agosto. A Luca Savarino, professore universitario e coordinatore della commissione, rivolgiamo alcune domande su quella che è stata una riflessione lunga e articolata.

Su eutanasia e suicidio assistito le posizioni delle chiese, anche evangeliche, sono molto caute: per esempio il testo del Consiglio della Comunione di chiese protestanti in Europa, Un tempo per vivere e un tempo per morire (trad. it. a cura di L. Savarino, Torino, Claudiana 2012) sostiene che «per le chiese protestanti l’eutanasia è profondamente problematica sul piano etico», e che la sua legalizzazione «equivarrebbe alla sua banalizzazione» sul piano culturale. La commissione ha ritenuto necessario un passo ulteriore? Quali novità introduce il vostro documento?

Non parlerei di passi in avanti e nemmeno di novità. Nel panorama del protestantesimo storico da almeno quarant’anni sono compresenti due differenti linee di pensiero sui temi del fine vita. La prima, largamente maggioritaria, è quella che ritroviamo nel documento del Consiglio della Comunione di Chiese che lei ha citato in precedenza. La seconda è quella che compare per la prima volta in un rapporto del Sinodo della Chiesa Riformata d’Olanda del 1972, dal titolo "Eutanasia. Significato e limiti della terapia medica", e che per certi aspetti caratterizza anche i nostri documenti.

Le divergenze tra queste due linee di pensiero non riguardano tanto i principi teologici o antropologici: che ogni essere umano sia portatore di una dignità fondamentale che non viene meno neppure in casi estremi di sofferenza e di perdita di capacità; che da un punto di vista cristiano la libertà umana non sia assoluta autodeterminazione; che la vita umana, anche nel suo aspetto biologico, vada considerata come un bene ricevuto di cui occorre aver cura. Le divergenze riguardano piuttosto il modo in cui tali principi si traducono sul piano etico: mentre tutte le chiese protestanti sono generalmente concordi nel considerare in ogni caso lecita la non attivazione o la sospensione dei trattamenti, anche nei casi più controversi come l’idratazione e l’alimentazione artificiali dei pazienti in stato vegetativo persistente, esse hanno opinioni differenti riguardo alla valutazione morale di eutanasia e suicidio assistito, e alla possibilità di una loro legalizzazione.

Nella linea di pensiero più tradizionale il rifiuto di eutanasia e suicidio assistito si basa su alcuni presupposti: la validità in linea di principio della distinzione tra uccidere e lasciar morire (o tra azione e omissione); il pericolo di abusi e di possibili chine scivolose nella gestione dei programmi, che potrebbero allargare enormemente il numero e la tipologia di coloro che chiedono di essere aiutati a morire; l’idea che l’imponente sviluppo delle cure palliative consenta di ridurre drasticamente la richiesta sociale di eutanasia. In questa prospettiva, si ammette certo l’esistenza di alcune legittime eccezioni (per esempio rari casi di patologie refrattarie a ogni trattamento palliativo), ma si sostiene che tali eccezioni non debbano condurre a invalidare il principio etico e giuridico fondamentale che prescrive il divieto di uccidere esseri umani innocenti.

Si tratta di ragioni forti, che occorre prendere seriamente in considerazione e di cui in commissione abbiamo lungamente discusso. Non a caso tre componenti della commissione stessa si riconoscono maggiormente in questa posizione più diffusa. Tuttavia, la maggioranza ha preferito adottare un’impostazione più vicina a quella del documento olandese del 1972 e del nostro documento del 1998. I punti fondamentali di tale prospettiva sono: che in una discussione sul fine vita occorra assumere primariamente il punto di vista della persona sofferente e solo in seconda istanza quello del medico e della società; che da un punto di vista morale l’eutanasia e il suicidio assistito non siano necessariamente atti arbitrari ed egoistici; che anche da un punto di vista cristiano la vita biologica non sia un bene indisponibile, ma un bene ricevuto di cui ciascuno è chiamato ad assumersi la responsabilità di fronte a Dio e agli altri esseri umani; che la distinzione tra uccidere e lasciar morire non sia universalmente valida ma che, in determinate situazioni, sussista più dal punto di vista psicologico che morale; che l’aiuto al morire non debba necessariamente essere concepito come un’assolutizzazione dell’autonomia individuale ma che, in casi specifici e in certo modo eccezionali, possa essere espressione di una pluralità di principi: dalla beneficenza – intesa, in senso cristiano, come amore per il prossimo sofferente – alla giustizia – intesa come equità d’accesso alle possibilità che la medicina mette a disposizione dei cittadini – al rispetto dell’autonomia individuale di coloro che non condividono i nostri presupposti di fede.

In ogni caso ci tengo a sottolineare che le nostre conclusioni sono volutamente aperte e non dogmatiche. Non era nostra intenzione offrire soluzioni univoche a problemi enormemente complessi, né sotto il profilo etico e tantomeno sotto quello legislativo. Direi piuttosto che si tratta di un invito ad aprire anche in Italia, fuori e dentro le chiese, una discussione approfondita e il più possibile priva di presupposti ideologici sull’eutanasia e il suicidio assistito.

Come lei stesso ha sottolineato, il documento è particolarmente rilevante in un contesto come quello italiano in cui la specificità dell’impostazione etica protestante e il suo possibile contributo al dibattito pubblico sono scarsamente conosciuti. Come può una chiesa senza magistero far capire la sua posizione che raramente è univoca e assoluta?

Il problema non è principalmente di comunicazione ma di sostanza. Un’etica basata su principi assoluti viene incontro al bisogno psicologico fondamentale di ciascuno di noi di possedere norme stabili, che siano univocamente applicabili a tutti i casi particolari. In tal caso, è sufficiente tirare le conseguenze dai principi e il gioco è fatto: si è esonerati dal peso di esercitare la propria responsabilità, individuale e collettiva. Il problema è aggra
vato dal fatto che gran parte delle questioni bioetiche possiedono un contenuto tecnico-scientifico molto elevato e dunque sono difficili da capire per coloro che non sono specialisti della materia. Mi sembra comprensibile che, in questa situazione, le persone vogliano certezze e chiedano soluzioni. Le chiedono alle chiese e ai politici, ai filosofi e agli scienziati: l’eutanasia e il suicidio assistito sono sempre leciti oppure no? Viene prima il valore della vita umana o l’autonomia di scelta del singolo? E così via.

Personalmente ritengo che sia preferibile resistere alla tentazione del legalismo e del dogmatismo che affliggono ampi settori non solo dell’etica religiosa, sia cattolico-romana sia protestante, ma anche di quella secolare: non mi pare produttivo un confronto sui temi etici condotto a colpi di principi assoluti. Con questo non intendo affatto sostenere che si debba rinunciare a qualsiasi principio etico in nome dell’assolutizzazione del contesto storico, sociale ed esistenziale, entro cui le decisioni vengono prese. L’etica protestante non rinuncia affatto ai principi; rinuncia, semmai, all’idea della loro assolutezza. È consapevole che il problema etico inizia precisamente nel momento in cui, in una specifica situazione, due o più principi entrano in conflitto tra loro. Nel caso del fine vita, per esempio, occorre trovare soluzioni ragionevoli che siano in grado di conciliare, all’interno di una società pluralistica, la tutela della libertà individuale, il valore della vita umana, in particolar modo di quella fragile e sofferente, e l’equità sociale nell’allocazione delle risorse sanitarie. Mi rendo conto che la faccenda possa sembrare più complicata del previsto.

Questo documento potrà anche fornire degli strumenti concreti di lavoro per la cura e la pratica pastorale oltre che per l’assistenza alle persone in una fase delicata della loro vita?

Noi tutti siamo consapevoli del fatto che nella pratica, sul piano medico e soprattutto su quello legislativo, sia necessario prendere decisioni il più possibile condivise, che stabiliscano criteri e norme d’azione certe e comprensibili. Perché questo sia possibile, tuttavia, occorre un’azione profonda sul piano informativo e culturale. Innanzitutto occorre agire affinché le persone siano il più possibile consapevoli delle diverse fattispecie tecniche che una discussione seria sul fine vita necessariamente presuppone. L’etica medica è spesso fatta di zone grigie: il problema dell’eutanasia, tanto per fare un esempio, si pone in maniera sensibilmente diversa a seconda che se ne discuta all’interno di un reparto di rianimazione, oppure in ambito oncologico, oppure, ancora, nella cura delle malattie neuro-degenerative. Una corretta informazione è il presupposto per il passo successivo, che riguarda la riflessione, individuale e collettiva, sui valori. Io credo che sia su questo piano culturale intermedio, che viene prima di quello pratico e legislativo, che le chiese sono chiamate a far sentire la propria voce. Ed è precisamente su questo piano che il nostro documento intende collocarsi.

Per la versione integrale del documento si rimanda al seguente link: https://www.chiesavaldese.org/documents/eutanasia_doc18.pdf

(17 maggio 2017)



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