Fare pace con Giorgio de Chirico

Mariasole Garacci

La mostra a Palazzo delle Esposizioni fino all’11 luglio è intitolata “La Natura secondo de Chirico”, con buona pace della “metafisica”. Piccolo vademecum storico-artistico per i visitatori.

Compiangetemi: se non si è di quelli coinvolti al primo sguardo nella fascinazione pericolosa e iniziatica degli enigmi di de Chirico, è veramente difficile acconsentire all’arte tutta contenutistica e tautologica di questo totem greco-germanico. Troppo facili la sorpresa delle ombre lunghe e incoerenti e lo straniamento ipnotico degli oggetti da lessico onirico disposti in uno spazio marziano a consumarsi nell’aria bruciante. “Terribilmente illustrativa”, “banalmente suggestiva” (parole di un cattivissimo Longhi) questa poesia che leopardianamente gioca con l’effetto evocativo dell’indefinito, del celato, e che già avvista la carica surreale del non-senso, salvo legarsi in annotazioni simboliche da rebus intimistico. E poi chi è de Chirico? L’homo orthopedicus di longhiana memoria perduto nelle scenografie ferraresi, il mezzobusto quattrocentesco dallo sguardo inquieto e severo del folle, il turco barocco? Come leggere una storia lunga e apparentemente disomogenea di precipitose prospettive alla Paolo Uccello, bagni robotici e misteriosi (misteriosi, proprio) e pianeti anfibi che irraggiano tentacoli infantili? Ma de Chirico è un grande della pittura occidentale, piaccia o no. Perché? Tutto è, temo, in questo perché che la mostra curata da Achille Bonito Oliva a Palazzo delle Esposizioni (a ragione) non spiega.

L’originalità di una cifra stilistica, l’inedito portato “spirituale” o psicologico che talvolta a tale novità si accompagna (o si crede di attribuire), l’apparente indipendenza dal contesto contemporaneo sono ingiustamente ritenuti i requisiti del genio, come se l’artista attingesse ad una fonte vergine nel segreto della propria interiorità. Invece un vero artista molto spesso è un grande ladro e, vorrei dire, uno scaltro conformista che si muove a proprio agio nello spazio arcinoto delle convenzioni acquisite. E così accade a volte che l’emozione di trovarsi in presenza di un genio si sperimenti proprio nel riconoscere citazioni e influenze più o meno palesi, elaborati e proposti in una dimensione nuova, impensata, personalissima. Nella pittura di de Chirico si trova una rete di riferimenti straordinariamente ricca e complessa per un artista contemporaneo: Arnold Böcklin e Max Klinger (citati alla lettera), da una parte, la suggestione dell’antichità classica, dall’altra, sono quelli che la critica e lui stesso hanno sempre dichiarato. Ma fra questi due capi si dispiega tutta una cultura figurativa, letteraria e filosofica che de Chirico filtra e restituisce con intelligenza e profondità scontrose e orgogliose. Il meccanicismo algido e superbo dei futuristi (che non amava ma conobbe da vicino), il cubismo via Picasso di cui era ovviamente avvertito, il lirismo esotico e naif di Gauguin e Van Gogh sono alcuni tra i germi che l’artista ha coltivato nel suolo fertile e indimenticato della sua educazione tra una Grecia mitologica sognata nella nuova classicità mitteleuropea della Monaco di Leo von Klenze e la metafisica Firenze giottesca (non a caso, in luogo di Ferrara), passando e ripassando per Tiziano e il Rinascimento italiano; ricordando Dosso Dossi, Lorenzo Lotto; ammiccando all’asprezza di Dürer, Bellini padre, Carpaccio. Un percorso articolato e complesso che arriva, nel periodo “barocco”, al recupero di Rubens e della grande tradizione del Seicento europeo e oltre fino alle propaggini di alcune cose di fra Galgario.

In un bellissimo saggio degli anni Ottanta Maurizio Calvesi dimostrava in modo convincente la profonda influenza sull’elaborazione della poetica metafisica dell’ambiente culturale fiorentino e di Giovanni Papini in particolare, quest’ultimo tramite delle suggestioni derivate da Nietzsche e Schopenhauer e di coincidenze tematiche con D’Annunzio e Dino Campana, senza poter dimenticare, ovviamente, il mondo letterario di Alberto Savinio. La nascita -la “rivelazione” schopenhaueriana- della metafisica in piazza Santa Croce a Firenze (all’origine dell’Enigma di un pomeriggio d’autunno) narrata dal pittore è giustamente messa in relazione con il Trecento toscano e con Giotto in Santa Croce. Qualcosa di cui si trova un’eco nella critica e negli interessi artistici contemporanei che andavano ritrovando l’ordine e la spazialità degli antichi italiani, se pensiamo ad Ardengo Soffici e Carlo Carrà. Ma quando si pensi a Monaco ellenistica (dove de Chirico trascorse due anni della sua giovinezza al rientro dalla Grecia) e a Ferrara misteriosa, o a Nietzsche definitivamente impazzito a Torino sotto il monumento di Carlo Alberto (i monumenti, i cavalli!), la lettura di de Chirico si complica ulteriormente in innumerevoli rimandi artistici e personali.

Questi pochi accenni bastano forse a far presente la ricchezza figurativa e tematica del Pictor Optimus che amava l’enigma. Il criterio dell’acrobatico Achille Bonito Oliva nell’ordinare la mostra romana è certamente molto spregiudicato: circa centoquaranta opere distribuite in sette sezioni sotto il segno della categoria filosofica di “Natura”. Un impostazione fantasiosa e opinabile dal punto di vista scientifico, ma la suddivisione per temi è nel costume del critico, che dichiara di prediligere un approccio sempre personale e intuitivo.

La Natura secondo de Chirico

9 aprile – 11 luglio 2010
Roma, Palazzo delle Esposizioni – Via Nazionale, 194
Orario: martedì, mercoledì, giovedì 10.00 – 20.00; venerdì e sabato: 10.00 – 22.30; domenica 10.00 – 20.00; chiuso il lunedì.
www.palazzoesposizioni.it

(22 aprile 2010)

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