Fecondazione assistita: il compleanno di una pessima legge
Adele Orioli
Sono passati dieci anni dall’approvazione della legge 40, che dovrebbe regolamentare il fenomeno della procreazione medicalmente assistita. Anni segnati da molteplici vicende giudiziarie, che hanno smontato pezzo per pezzo molte delle assurdità contenute in una normativa ideologica e nata male.
Correva l’anno 2004, Silvio Berlusconi era al governo e Girolamo Sirchia al Ministero della Salute, quando il 19 febbraio veniva approvata con plauso bipartisan dopo oltre dieci anni di dibattito parlamentare (e proteste di piazza) la legge numero 40 contenente le “Norme in materia di Procreazione Medicalmente Assistita” (Pma), quella cosa, insomma, definita dalla legge di cui sopra come l’insieme delle tecniche medico-chirurgiche finalizzate “al favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o infertilità umana”. Per dirla in altri termini, i modi attraverso i quali è possibile far nascere un essere umano in assenza di un rapporto eterosessuale, modi riservati nel contesto italiano alle «coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».
Ricostruire la storia e l’applicazione di questa legge, in vigore dal 10 marzo dello stesso anno, nel decennio appena trascorso non è cosa semplice né breve, dato che fin da pochi mesi dopo la sua promulgazione è stata impugnata a vario titolo poco meno di 30 volte, e a vario titolo è giunta presso differenti tribunali ed è stata più volte modificata, quando non riscritta, nelle aule giudiziarie.
Di certo c’è che fin da subito, appena nata, la legge 40 già sembrava arretrata, e di parecchio, rispetto alle sue omologhe normative straniere (“Legge Burqa”, secondo la definizione del quotidiano francese Le Monde). Una legge repressiva, che ostacola in più modi l’adattabilità delle tecniche medico-scientifiche al caso concreto, riducendo vistosamente la possibilità di successo della stessa fecondazione e introducendo peraltro concetti antiscientifici, equivoci e non ben collocati nel nostro ordinamento, come i “diritti del concepito” o l’equivalenza indefinita tra embrione, feto e bambino.
Una legge che comincia bandendo la fecondazione eterologa (con il seme o l’ovulo di un donatore esterno alla coppia) e che prosegue impedendo l’accesso alla Pma per le coppie fertili, pur se portatrici di gravi malattie genetiche o di patologie trasmissibili. Una legge che elimina espressamente la possibilità di ricerca scientifica sull’embrione, imponendone un massimo di tre a impianto per coppia ma vietando al contempo il congelamento di quelli non utilizzati. Embrioni ottenuti attraverso se non dolorose comunque mai facili e sempre intense cure ormonali, spesso non ripetibili; embrioni che infatti fin da subito l’intenzione della normativa è di dotare di persino più diritti della donna stessa. Donna-madre che secondo legge si vede costretta a subire il trasferimento anche di embrioni malati, per i quali è fatto divieto assoluto di analisi preimpianto, eccettuata la mera “osservazione”, salvo poi la facoltà di ricorrere all’aborto terapeutico in caso di malformazioni.
E, analogamente a quanto accadeva prima dell’approvazione della 194, quando c’era chi moriva di stampella o di infuso di prezzemolo e chi al contrario poteva andare in Inghilterra o in Svizzera per un intervento sicuro, l’impossibilità del trattamento in patria ha portato migliaia di coppie italiane a trovare soluzioni fuori dai confini, in un vero e proprio turismo riproduttivo (“fecondazione esterologa”, era l’amara battuta nel settore), finendo per giunta col creare una netta distinzione tra aspiranti genitori di serie A (con capacità economiche sufficienti ad affrontare costose cure non convenzionate in altri paesi) e aspiranti genitori di serie B, costretti alle limitazioni della normativa italiana.
Dulcis in fundo, la legge 40 consente a tutto il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie la più completa obiezione di coscienza, di contro fortemente limitando e vincolando la discrezionalità del medico che segue la procedura di fecondazione.
Vero è che qualche limite cade man mano nel tempo, e non certo per il referendum abrogativo del 2005, svoltosi fra il totale disinteresse dei media e l’esplicito invito all’astensione da parte della Cei tutta (il cardinal Ruini in testa), invito raccolto appieno da molti politici nostrani. Complice la non facilissima comprensione della materia, complice la poca o nulla percezione del fenomeno nei suoi reali numeri, il referendum porta alle urne solo un quarto degli elettori e rimane molto lontano dal raggiungimento del quorum.
I ricorsi contro la legge 40 partono in realtà già pochi mesi dopo la sua entrata in vigore, ma dobbiamo aspettare il 2007 per le prime pronunce favorevoli ai ricorrenti: in due casi distinti, a Cagliari come a Firenze, il giudice permette la disapplicazione delle Linee Guida alla legge stessa, consentendo quindi la diagnosi preimpianto. Nel gennaio 2008, il Tar del Lazio emette il primo provvedimento di portata generale, annullando per eccesso di potere proprio la parte contenuta nelle Misure a tutela dell’embrione che obbliga alla sola indagine osservazionale.
Nel 2009, investita della questione da più tribunali, si pronuncia finalmente la Consulta, che con la sentenza n. 151 dichiara l’illegittimità costituzionale (e quindi la scomparsa immediata dall’ordinamento) dell’obbligo di un unico impianto contemporaneo con il limite massimo di tre embrioni, permettendo quindi finalmente la crioconservazione (il congelamento) e ripristinando un buon margine di discrezionalità del medico, “depositario del sapere tecnico del caso concreto”. Ma, soprattutto, la Corte Costituzionale ribalta l’impianto ideologico dell’intera legge, facendo emergere come i diritti dell’embrione e del concepito siano da tutelare in subordine a quelli della donna e non viceversa. Viene infatti dichiarato illegittimo l’articolo 3 per la parte in cui omette di specificare che il trasferimento degli embrioni deve essere fatto “senza pregiudizio per la salute della donna”.
Nel frattempo continua frenetica l’attività dei Tribunali ordinari; a Bologna prima e Salerno poi due ordinanze consentono per la prima volta l’accesso alla Pma a coppie non sterili ma portatrici di malattie trasmissibili. Anzi, il giudice campano si spinge oltre, riconoscendo e affermando il diritto soggettivo della donna al figlio: anche le scelte consapevoli riguardanti la procreazione vanno annoverate tra i diritti soggettivi fondamentali e pertanto da considerare inviolabili ex art. 2 della Costituzione. Con questa lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 13 della legge 40 quindi si apre la strada alla diagnosi preimpianto, con il successivo trasferimento in utero dei soli embrioni sani anche per coppie non sterili in senso tecnico.
Qualcosa si muove anche sul fronte europeo, e la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) nel 2010 condanna l’Austria per un divieto parziale di fecondazione eterologa, sentenza che spinge molti tribunali italiani a sottoporre il quesito sulla legittimità o meno del divieto totale alla nostra Consulta; la Grande Chambre però nel frattempo riforma la decisione presa in primo grado, non ravvisando nel divieto alcuna violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e la Corte Costituzionale è quindi obbligata, nel 2012, a restituire gli atti senza pronunciarsi nel merito.
Ciò nonostante,
ad agosto dello stesso anno la Cedu accoglie le ragioni di una coppia portatrice sana di fibrosi cistica, censurando l’obbligo posto dalla legge 40 all’art. 4 della presenza di uno stato di sterilità/infertilità come condizione patologica necessaria per l’accesso alla tecnica. Secondo il giudice europeo infatti tale limite viola il "il diritto al rispetto della vita privata e familiare" (art.8 Convenzione) in quanto incide su una scelta personalissima dell’individuo che lo Stato non si può arrogare il diritto di compiere. Il governo tecnico presieduto da Mario Monti si affretta a fare ricorso che viene però respinto.
Sempre nel 2012, per tornare ai confini nazionali, viene imposto all’ospedale di Cagliari di effettuare l’analisi preimpianto sugli embrioni di una coppia portatrice di talassemia, di impiantare in utero solo quelli sani e soprattutto di rivolgersi anche a strutture esterne pur di garantire la prestazione sanitaria.
E ancora siamo in attesa, per l’8 aprile prossimo, di un ulteriore intervento della Consulta, chiamata si spera a cesoiare il divieto di fecondazione eterologa e al contrario a consentire l’utilizzo degli embrioni per la ricerca. Chiamata soprattutto a pronunciarsi, anche sulla base dell’ormai definitiva sentenza Cedu, sull’accesso alla Pma per coppie fertili portatrici di malattie genetiche.
Non è questa la sede per un’analisi etico-sociologica dei problemi, concreti reali e dolorosi, che una normazione pessima come questa porta e continua a portare, né per far notare come uno stato che si dica laico non possa porre a fondamento della propria regolamentazione la morale di una parte soltanto dei suoi cittadini. Auspichiamo piuttosto che questo decennale sia l’occasione buona per riparlare di queste tematiche di norma avvolte nel silenzio mediatico-istituzionale. Anche perché i numeri parlano chiaro: sono più di 350, fra pubblici e privati, i centri di Pma operanti in Italia; più di 70.000 le coppie che vi si rivolgono (e stimate in non molte meno quelle giocoforza “esterofile”); almeno una coppia su 5 non è in grado di assicurarsi una discendenza e la percentuale è in costante aumento. Stiamo quindi parlando di un fenomeno molto consistente, non di una miserrima componente residuale della società.
Attendiamo per ora la Consulta. Ma, fiduciosi o meno, quello che preme sottolineare in questa come in altre vicende è il rammarico che debbano essere i tribunali, con le loro non brevi tempistiche, e soprattutto solo grazie al singolo coraggio di singoli individui, ad accomodare, sforbiciare e aggiustare leggi nate male. E si che non siamo in un sistema di common law, dove le sentenze fanno precedente per tutti. Ma questa è l’ennesima dimostrazione dello iato tra una politica che non sa o che non vuole decidere (e che quando lo fa segue dettami clerical-confessionali piuttosto che garanzie condivise) e le persone che questa stessa politica pretende di governare.
(19 febbraio 2014)
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