Fede o religione? Dialogo tra don Andrea Gallo, don Vinicio Albanesi, don Pierluigi Di Piazza e padre Nino Fasullo
Un dialogo tra quattro ‘preti di frontiera’, in radicale alternativa alla Chiesa costantiniana del cardinal Ruini: la Chiesa-Gerarchia trionfante nel secolo, le tentazioni del potere che la immergono nella ‘realtà penultima’, l’oblio del Vaticano II, un dire che sembra ridotto al solo ‘no no’ di fronte a qualsiasi apertura.
dialogo tra don Andrea Gallo, don Vinicio Albanesi, don Pierluigi Di Piazza e padre Nino Fasullo, da MicroMega 6/2005
Giovedì 13 ottobre è stata pubblicata dal quotidiano la Repubblica, nella rubrica «Risponde Corrado Augias», una lettera scritta da don Aldo Antonelli, parroco di Santa Croce di Antrosano in provincia dell’Aquila, diocesi di Avezzano. La pubblichiamo poiché abbiamo chiesto ai partecipanti al nostro dibattito di cominciarlo esponendo le riflessioni (ma anche le emozioni) che essa suscita in un prete.
Stimato dott. Augias,
di fronte alla vergogna di leggi-foraggio, che poi diventano, lo sappiamo, leggi-bavaglio (l’immissione in ruolo dei professori di religione e l’esenzione Ici per gli immobili di proprietà della Chiesa) noi fedeli e semplici sacerdoti non possiamo tacere. Se lo facciamo noi grideranno le pietre! Davanti a certe cose mi tornano alla mente le stupende parole della Lumen gentium: «La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove esigenze esigessero altre disposizioni» (n. 76).
Parole piene di Vangelo, frutto di amore per il mondo, lo stesso per il quale il Nazareno ha dato la vita, parole che sembrano echi lontani di una Chiesa che non c’è più. Mi chiedo con angoscia: che cosa hanno a che fare quei nostri vescovi, adulatori dell’altrui parola, con l’assise meravigliosa che nel Concilio Vaticano II ammaliò il mondo intero, profetica risonanza, quella sì, della di Lui Parola?
Fa male, ferisce a sangue e toglie speranza il silenzio venale di una gerarchia capace solo di gridare all’untore. Che non viene neppure sfiorata dal dubbio dell’immoralità devastante che la attraversa mentre fa incetta di regalie e di privilegi, mentre i semplici fedeli e i cittadini sono chiamati a rinunce e sacrifici.
Meno ci scandalizza, anche se dentro morde lo sdegno, la blandizie di un governo aduso a carezzare il clero e bastonare il popolo. Non più, quindi, «Libera Chiesa in Libero Stato» ma «Piccolo Stato in infida Chiesa».
Don Vinicio Albanesi: Una Chiesa che non c’è più: è questo il problema centrale che emerge nitidamente dalla lettera di don Aldo Antonelli. La domanda di questa nostra riflessione, in fin dei conti, è se esista o meno un messaggio evangelico. Non se esso esista oggettivamente, bensì se e in che modo noi tutti, in quanto popolo cristiano, siamo in grado di testimoniarne l’esistenza. Il cuore della debolezza della presenza cristiana nel mondo deriva da questa sorta di incapacità di vivere, prima ancora che di comunicare, il messaggio.
All’interno della Chiesa non mancano certamente i documenti. Penso ad esempio ai preparativi per il IV Convegno ecclesiale nazionale che si terrà a Verona nell’ottobre del 2006. Tuttavia si tratta troppo spesso di elaborazioni che esprimono poco. Da un lato si assiste al ritorno di un senso religioso decisamente vago, dall’altro c’è un cristianesimo di cui troppi si appropriano in modo assolutamente incongruo. Penso a molti nostri politici, che sono pubblicamente bigami e poi si dichiarano cattolici. E sono anche, per la verità, molto ascoltati.
Il messaggio cristiano si dissolve spesso in un puro verbalismo, connesso ad una specie di estetismo. Sembra che narrando semplicemente la Parola o eseguendo celebrazioni si riesca a dire il messaggio di Cristo. Ma questo non è più vero.
È evidente che, di fronte a questo vuoto, il livello della proposta evangelica si abbassa alla sopravvivenza della Chiesa come istituzione e dei suoi dettagli materiali. Penso all’esonero dell’Ici per gli edifici ecclesiastici, che somiglia in realtà alle piccole regalie di cui può godere al limite un fanciullo.
Il problema vero è che il cristiano, oggi, o non è coerente, o non sperimenta un adeguato approfondimento di quello che significa il cristianesimo. Il che si traduce spesso in un’esperienza edulcorata e priva di una vera proposta.
La nostra Chiesa, da questo punto di vista, si dimostra incapace. Siamo di fronte a una crisi seria. Da che cosa prende origine? Quali elementi l’hanno aggravata? Di sicuro ha infiniti sintomi: le parrocchie si svuotano, le vocazioni mancano, i comportamenti dei singoli oscillano, i confini dei criteri di condotta sono spostati all’indefinito.
Confessando ad esempio i ragazzi che giungono alla cresima, ci si rende conto del fatto che non sanno rintracciare delle regole, che non sanno riconoscere dove si impone loro un determinato comportamento o magari in che cosa consista la vera trasgressione. Ciò dipende in gran parte dai genitori, che a loro volta oscillano tra comportamenti anche molto difformi tra loro. E questo non solo perché non hanno un’etica, ma perché addirittura non possiedono i criteri stessi di un’etica.
Di fronte a questo vuoto, la Chiesa prova un senso di fatica e di scoramento. Lo stesso dialogo interreligioso fa paura e si assiste ad un’accentuazione dogmatica della verità. Abbiamo ormai infiniti documenti ecclesiastici che elaborano verità, così come infinite narrazioni del mistero cristiano. Ma tutto è come privo di vita, senza proposta, senza un messaggio di speranza che vada al di là delle parole che lo esprimono. L’elemento su cui riflettere, dunque, non è soltanto questa crisi profonda, ma anche gli atteggiamenti e le risposte della Chiesa istituzionale, che lasciano perplessi.
Don Pierluigi Di Piazza: La lettera di don Aldo Antonelli ha suscitato in me analoghe reazioni. Essa contiene innanzitutto una grande esigenza di profezia, che si esprime al tempo stesso in forma di nostalgia. Penso al riferimento alla Lumen gentium e ad una Chiesa che pare non esserci più, ossia alla Chiesa del Concilio Vaticano II. Una Chiesa che vedeva presenti i vescovi di tutto il mondo, che apriva se stessa al mondo e se ne lasciava interrogare. Laddove, proprio in questi giorni, il Sinodo mondiale dei vescovi registra una situazione di sostanziale chiusura rispetto alle voci che vi introducono elementi seri di riflessione. Voci che vengono messe a tacere da una linea ufficiale che ci fa ascoltare soprattutto dei no. No a una ridiscussione del celibato obbligatorio per i preti, no alla comunione ai divorziati che si sono risposati o che convivono, no alla possibilità della comunione fra cristiani cattolici e cristiani ortodossi. Una serie impressionante di risposte negative; non ho una posizione relativistica, tutt’altro, ma proprio di grande considerazione per la storia delle persone, per la loro ricerca di senso, di fiducia, di accoglienza.
Personalmente, anche a partire dall’esperienza del Centro Balducci, inquadro la questione da diverso tempo, e oggi sempre di più, nel senso di una distinzione fra fede e religione. Un conto è infatti la fede, altro la religione. La fede può essere intesa come quella dimensione del coinvolgimento profetico che riguarda tutto il nostro essere e tutta la nostra vita, e che quindi rig
uarda la nostra sensibilità e le nostre opzioni di fondo, il rapporto con noi stessi, con Dio e con gli altri, con il denaro, con il potere, con le armi e le guerre; con tutto ciò che costituisce la realtà del mondo come tale e quindi in alternativa il servizio, la non violenza attiva e la pace, l’accoglienza e la solidarietà… Inteso in questo senso, il coinvolgimento della fede è quello che ci porta a vivere alla sequela umile e convinta, ricercata giorno per giorno, di quello straordinario Gesù di Nazareth. Questa è la fede.
La religione, invece, è quello che si configura come dogma, verità, rito, simbolo, istituzione. E allora può darsi che una religione massiccia e severa possa anche uccidere la fede. Il rapporto fra fede e religione è sempre molto delicato e dialettico. Anche noi preti, che siamo convocati a questo dialogo, ci interroghiamo se siamo in qualche modo preti di fede o preti di religione. La Chiesa, in quanto istituzione, è Chiesa di religione o è una Chiesa pervasa dal coinvolgimento profetico della fede? Questa mi pare la grande questione, da cui derivano gli atteggiamenti e le decisioni concrete.
Quando si assiste agli interventi d’autorità di cui parlava anche don Vinicio, mi sembra che emerga in modo più evidente la Chiesa come istituzione religiosa. In concreto, ad esempio, quando si parla degli insegnanti di religione può costituire un problema la questione dell’entrata in ruolo. Però la questione è molto più seria. In occasione del concordato fra Stato e Chiesa vi è stata a mio modesto avviso una duplice responsabilità. Una della Chiesa, che pretendeva allora con supponenza di risolvere il problema dell’educazione dei giovani alla fede con un’ora di religione cattolica nelle scuole. E l’altra derivante dalla supponenza di uno Stato, in quel caso non laico, ma venato piuttosto di un laicismo molto banale e superficiale, consistente nel demandare completamente all’istituzione Chiesa la questione della religione. Si dovrebbe rivedere radicalmente la questione, data anche la crescente diversità culturale e religiosa dei giovani presenti nelle aule scolastiche, in cui sono sempre più presenti anche i figli di immigrati. Sarebbe auspicabile che ci fosse un’ora di scuola non di religione cattolica, ma di istruzione religiosa, relativa cioè al fenomeno religioso come tale e a tutte le religioni, gestita dall’istituzione della scuola pubblica in modo non confessionale. Personalmente ho vissuto nella contraddizione l’esperienza positiva di 30 anni come insegnante di religione. Quando ci fu il concordato dichiarai pubblicamente al collegio docenti la mia difficoltà; ho poi cercato di svolgere il mio compito in modo non confessionale, affrontando con i giovani le questioni di fondo della vita e della storia in modo ampio e pluralista, nella ricerca del dialogo, certo con attenzione alla dimensione religiosa.
Per quanto riguarda la vicende dell’esenzione degli immobili ecclesiastici dall’Ici, come diceva già don Vinicio appare una banale regalia, un privilegio. Come Centro Balducci, che si occupa soprattutto dell’accoglienza delle persone immigrate, profughe e rifugiate, abbiamo utilizzato una risorsa che ci è venuta dalla fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana, attingendo all’8 per mille. Anche qui, tuttavia, sarebbe auspicabile che vi fossero modalità autenticamente paritarie o egualitarie per i finanziamenti. Sarebbe bello che i cittadini potessero segnalare in modo non discriminatorio le loro scelte. Il che sarebbe possibile soltanto conoscendo in modo più preciso l’utilizzo che viene fatto dei finanziamenti. Affinché l’intenzione dei cittadini si indirizzi concretamente e in modo verificabile a progetti di solidarietà. Però debbono essere chiari e trasparenti tanto l’intendimento quanto la verifica di come il denaro viene impiegato. Non l’8 per mille alle confessioni religiose, ma ai concreti progetti di solidarietà, che siano fatti da una confessione, da più confessioni, o eventualmente anche da organizzazioni non religiose.
La Chiesa o è profetica o non è Chiesa. Se la Chiesa si fa Chiesa politica, è un’istituzione come le altre, con l’aggravante di utilizzare Dio, e oscura il messaggio del Vangelo, che dovrebbe non solo annunciare con le parole, ma soprattutto testimoniare con le scelte di vita. Le alternative al potere, al denaro, alla guerra, alle discriminazioni e ai razzismi.
Padre Nino Fasullo: Ho letto la lettera di don Aldo Antonelli con viva soddisfazione, ritrovandovi valutazioni e sentimenti che coltivo da tempo. Qualcosa si muove, mi sono detto, qualcosa cova sotto la cenere, possiamo sperare. Oggi nella Chiesa c’è un grande disagio. Al suo interno c’è poca libertà di pensiero e di parola, manca il dibattito. Non pochi sacerdoti manifestano, in privato, sofferenza per il modo con cui la Chiesa viene governata. La base, fatta di preti, di laici, di suore, non viene ascoltata. Tutto, o molto, è sotto controllo. Ci vuole poco, forse, ma non vorrei esagerare, e si passa al clima persecutorio, di caccia alle streghe dei tempi del modernismo. Qualche anno fa è stato rintuzzato, in pubblico, perfino un vescovo che aveva osato pensare in modo diverso. E dire che, nella Chiesa, tutti i vescovi hanno pari dignità, uguale potere, stessa libertà: nessuno è superiore a un altro. Quel che manca nel governo della Chiesa è lo stile pastorale ispirato alla mitezza di Gesù: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo», esortò l’apostolo Paolo.
È raro vedere sulla bocca di vescovi che governano importanti chiese italiane, parole miti, attinte alla Sacra Scrittura, discorsi spirituali costruttivi. Sembrano un puro ricordo pastori della statura di Michele Pellegrino a Torino, di Giacomo Lercaro a Bologna, di Giovanni Battista Montini o Carlo Maria Martini a Milano, per non parlare di Angelo Giuseppe Roncalli a Venezia. Quella attuale, nella Chiesa, appare una linea di chiusura, di arroccamento, di rigorismo etico aggressivo esasperato ed esasperante. Un rigorismo, tutto sommato, ingiustificato, perché poco attento alle sofferenze degli uomini quando, ad esempio, si trovano dentro un matrimonio sbagliato o fallito, anche colpevolmente. Si preferisce insistere, un po’ ossessivamente, sulle questioni della bioetica e della legge naturale. Si cerca denaro, si investe sugli spot pubblicitari, si cura perfino l’abbigliamento clericale (inclusi gli assurdi polsini d’oro scintillanti nelle benedizioni). Invece si parla poco di Sacra Scrittura, di preghiera, di Concilio, di santità, come faceva un vescovo dei tempi andati, Alfonso de Liguori..
La lettera di don Aldo appare un grido coraggioso in favore di una Chiesa che nelle città deve splendere di luce evangelica, libera e accogliente, mentre deve manifestare ostilità solo verso la violenza, la guerra, la criminalità organizzata, i potenti di ogni risma, dei quali dovrebbe smascherare senza riguardi le trame di iniquità (tutte contrarie alla legge del Signore), e non tacere coprendone le malefatte.
Il disagio che oggi serpeggia nella Chiesa è causato dal fatto di non vedere comportamenti ispirati alla mitezza del Vangelo: «Venite a me, voi tutti che faticate oppressi da osservanze gravose: Io vi libererò da quel peso. Accettate il mio insegnamento… perché non mi impongo con la violenza e nel mio cuore sono vicino agli umili» (Matteo 11, 28).
C’è bisogno di maggiore libertà nella Chiesa. Bisogno di parlare e scrivere liberamente, al riparo dalle censure talvolta poco rispettose de
lla dignità umana. Da una Chiesa in cui la libertà è molto controllata difficilmente passa il Vangelo. Più facilmente passa la linea di chi vi esercita il potere. Infine, anche Dio ne soffrirebbe, perché neppure la sua libertà vi troverebbe spazio. Potrebbe accadere anche che, volendo esprimersi liberamente, per farsi ascoltare Dio dovrebbe uscire fuori e parlare e compiere gesti tramite uomini e donne che «non sono dei nostri».
La linea dell’ascolto è la linea del Concilio. Ma non si può dire che oggi la Chiesa italiana venga fatta camminare sulle vie del Concilio. Si può dire forse che la linea ufficiale passa, sì, ma solo cancellando il Concilio. Cancellare il Concilio, però, significa cancellare la parola di Dio e il magistero (solenne) della Chiesa. Non ci si mette impunemente contro il Concilio. Anche perché se è lecito criticare il Concilio, molto più lecito è criticare chi critica il Concilio e lo mette da parte. Questo del Concilio è il capitolo forse più drammatico della Chiesa italiana. Occorre tornare al Concilio, altrimenti si fugge dalla Chiesa. Occorre tornare, ad esempio, al discorso che Giovanni XXIII fece l’11 ottobre del 1962. Il discorso in cui il papa dissentì dai profeti di sventura che non amano il mondo, come invece lo ama Dio. Cattivi profeti, quelli di sventura, che non sanno usare la medicina della misericordia, della pietà e della compassione.
Quella del Concilio è una Chiesa che, piuttosto che condannare o scagliare (per prima) pietre, insegna ad ascoltare, dialogare, perdonare, accompagnare i poveri e i bisognosi. Insomma, quella del Concilio è una Chiesa aperta che accoglie tutti con il carico dei loro problemi, delle loro ansie, contraddizioni e peccati. Nessuno può rinunciare alla Chiesa del Concilio. Chi la rimuove, rischia di privare la gente del Vangelo, della libertà e della speranza. Penso, però, che, nonostante tutto, nella Chiesa non si voglia arrivare a tanto. Né intendo giudicare le intenzioni. È necessario, però, chiarire equivoci e superare tentazioni.
Penso che la lettera di don Antonelli rappresenti una boccata d’ossigeno proprio in riferimento al bisogno di una Chiesa che riprenda a camminare serenamente sulle vie interrotte del Concilio, non dando ascolto ai profeti di sventura che starnazzano qua e là. Se segue il Concilio, la Chiesa più efficacemente può servire la causa della pace cui anelano gli uomini. Se ci si parlasse e ascoltasse, se si mettessero insieme intelligenze, esperienze e forze, che nella Chiesa non mancano, e si aprisse un dibattito e un confronto responsabile, allora si diventerebbe tutti più credibili, al fine di rappresentare una fede e un cristianesimo più miti a servizio dei poveri e della libertà.
Può sembrare strano. Ma c’è chi, nella Chiesa, vuole che si torni a dare l’ostia consacrata nella bocca e non più nella mano della gente. Ci si può chiedere che cosa costoro abbiano capito, non dico del Concilio, ma della fede cristiana. Perché non c’è dubbio: se l’ostia non si può dare nella mano, meno ancora si può dare nella bocca. O si vogliono privare i cristiani (tutti battezzati) dell’eucaristia? La verità è che coloro che vogliono tornare al vecchio sistema amano emanare elenchi di proibizioni pensando che in questo modo si risolvono questioni che dipendono da cause antiche e complesse. In realtà, c’è sfiducia in Dio e nei cristiani, i quali vengono trattati da sudditi e da minorenni. Piuttosto che parlare di embrioni, di referendum e di leggi, non sarebbe meglio discutere di fede, di sacramenti, di preghiera e di giustizia, nonché di storia della Chiesa?
Dopo il Concilio la Chiesa fu percorsa da un’aria calda di primavera. Si ebbe una fioritura di iniziative che rinnovarono modi di pensare e di giudicare la Chiesa stessa e la città. Nacquero ovunque gruppi spontanei. I giovani pregavano e cantavano con entusiasmo nelle chiese. Si incontravano più volte la settimana per leggere la Bibbia e i documenti del Concilio, e si cercavano risposte a problemi difficili come, in Sicilia, quello della mafia. La questione della libertà politica e della giustizia sociale appassionava tutti, giovani e meno giovani. Fu una stagione di rinnovamento della testimonianza cristiana. Ma tutto fu fatto durare poco perché fu molto contrastato. Alla fine degli anni Settanta la situazione si fece ancora più difficile. Iniziò il calo della partecipazione alla vita della Chiesa. Tutto lo spazio fu dato, invece, all’Opus Dei e a Comunione e liberazione e ai gruppi carismatici e spiritualistici che non ponevano problemi. Lentamente, lungo 27 anni, si è arrivati ai problemi di oggi.
Don Andrea Gallo: Innanzitutto vorrei ringraziare sia il quotidiano la Repubblica che Corrado Augias. Entrambi hanno avuto veramente una bellissima idea dando spazio ad un parroco di una diocesi certamente non esente da difficoltà. Sottoscrivo in pieno i contenuti della lettera di don Aldo Antonelli.
Bisogna dire e accettare la realtà. Personalmente sono presbitero da oltre 46 anni e conosco i valori evangelici. Ma conosco anche la struttura della Chiesa, che rispetto, dovendo accettare com’è giusto la disciplina canonica. Occorre dire, fin da subito, che la nostra santa madre Chiesa, nonostante siano trascorsi quarant’anni dal Concilio, è una monarchia assoluta medievale. Non c’è niente da fare. La Chiesa ha assunto modelli mondani. È una Chiesa che domina, una Chiesa che si pretende signora della storia e detentrice di un verbo umano universale. Il suo cristianesimo, quindi, non può che stemperarsi in umanesimo.
A volte, nella Chiesa, ci sarebbe bisogno di grandi silenzi. E invece il cardinal Sodano, presente come segretario di Stato all’Onu, alla domanda su cosa pensava dell’Iraq, delle truppe di occupazione, del macello quotidiano, ha tranquillamente rilasciato un’intervista in cui dice che è nostro dovere rimanere in Iraq. Il tutto, paradossalmente, proprio in una sede come quella delle Nazioni Unite.
Il cristianesimo e l’Evangelo corrono il rischio di essere ridotti ad un mero progetto politico. E mentre si denunciano come esaurite e improponibili le antiche forme della Chiesa costantiniana, in realtà si continua a presumere, in nome e per conto della fede, di avere la possibilità di controllare la storia, di interpretare infallibilmente e provvidenzialmente i suoi segni e di risolvere alla fine qualsiasi problema. Quanti «perdoni» ha chiesto Wojtyl´a alla storia.
Il punto centrale e fondamentale da affermare è solo questo: la Chiesa deve riconoscere prima di tutto la dignità autonoma della storia umana. Nella certezza del Regno di Dio che viene, nessuna forma di vita o di società, nessun progetto politico appare definitivo e perfetto. È qui che si innesta il compito di vivere la propria ispirazione cristiana in compagnia degli uomini. È qui che si apre il luogo della profezia dei cristiani: sempre insieme agli altri uomini. Il cristiano è abitante della polis, ha diritti e doveri al pari di tutti, ma ha anche la cittadinanza dei cieli. «Cieli nuovi, Terre nuove».
Come può la parola di Dio ispirare l’azione politica del credente? Occorre fare molta attenzione, perché i cristiani, per come la vedo io, hanno esattamente gli stessi strumenti di analisi degli altri, non strumenti speciali. Vogliamo avere il coraggio di dire a tutti che la fede non fornisce alcuna certezza politica? E che questa deve nascere in modo chiaro e trasparente da una partecipazione democratica e dal pluralismo?
E ancora ci si strappa le vesti, gridando allo scandalo, per la sperimentazione della pillola RU486 da parte della regione Piemonte. Come si può far finta di niente nella dolorosa situazione a colpi di principî?
Il pluralismo non soltanto è legittimo, bensì è autenticamente necessario. Il mio attacco, ovviamente, non è soggettivo. Sono tanti i testimoni autentici, nella nostra come in tante altre Chiese e in tante altre religioni. L’attacco è rivolto piuttosto alle strutture gerarchiche, chiuse e non evangeliche.
La realtà è che manca la norma normante del cristiano nella Chiesa. E qual è questa norma? Il Vangelo. Se è così, bisogna ribadire che tutto il resto, compreso il ministero episcopale della parola e dell’unità, non riguarda affatto la compaginazione della società, ma soltanto la comunione ecclesiale e dunque non può indirizzarsi ovunque. Se questo è vero, c’è spazio per tutti. E qui penso sempre a padre Ernesto Balducci.
Visto che tutto questo manca, non stupisce che siano in molti a rilevare come la Chiesa, negli ultimi venti anni, abbia completamente abbandonato lo spirito del Concilio. Anche se nella sua prima omelia lo stesso papa Ratzinger, alla Cappella Sistina, ha affermato che riprenderà il Concilio, fino a questo momento l’impostazione conciliare non è stata nemmeno vagamente sfiorata. Ogni tanto c’è giusto qualche accenno.
Insomma, lo si chiami come si vuole, ma c’è bisogno, ogni volta, di un grande spirito di rinnovamento. E invece alla stampa viene addirittura impedito di assistere ai lavori del Sinodo. Un Sinodo cattolico, cioè universale, che è lì, chiuso nelle Mura Vaticane. Anche se non stupisce che molti rilevino come la Chiesa, sempre negli ultimi vent’anni, sia diventata sempre più ministra di parole politiche, sociali, etico-morali, economiche, attuando una vera e propria immersione nella realtà penultima. Un’immersione che l’ha resa quotidiana e semplice custode dell’etica.
Un’etica che spesso non è seguita neppure dai fedeli. Un’etica che l’ha portata a ridurre il messaggio cristiano a morale sociale.
Quello che mi fa male, da piccolo partigiano, è che qui la fede scompare e la politica ne viene danneggiata. Lo accennava già don Vinicio Albanesi. Anche a Genova abbiamo solo il 7-10 per cento dei praticanti del precetto festivo. Ma accade anche, e lo ripeto soprattutto da cittadino, se non da laico, che tutto questo danneggi la politica. Altro che chierichetti e atei devoti. È qui che nascono i compromessi. La politica è secolare, ma la fede, che è e resta una virtù, non lo è.
Perciò ringrazio di nuovo Augias e la Repubblica. Quando sono arrivati i ragazzi a portarmi il quotidiano con la lettera di don Aldo Antonelli, non ci volevo credere, nemmeno si trattasse del Manifesto o di Liberazione. Penso che la lettera sia un segno di speranza. Sarò ottimista, ma andando in giro per l’Italia trovo segni da tutte le parti, soprattutto nella convinzione di chi vuole riabilitare il giusto ordine del reciproco interrogarsi di Parola e politica, di fede e storia.
Occorre riflettere sul compito – e questa è una missione vera – di chi nella Chiesa ha il ministero della Comunione, di chi amministra la carità nella Chiesa di Roma. Tutte le sere ricordo i miei tanti papi, i papi che ho già avuto: papa Ratti, papa Pacelli, papa Roncalli, papa Montini, papa Luciani e papa Wojtyl´a. Dov’è il servizio di Pietro? Io ci credo e lo amo, ma dov’è? E poi rivolgo un pensiero anche ad ogni vescovo che amministra una diocesi, ad ogni presbiterio, ad ogni donna e ad ogni uomo che abbia in qualsiasi posto e in qualsiasi modo il ministero ecclesiale della Parola e della direzione di una comunità cristiana.
L’esempio i vescovi ce l’hanno. Per sette anni è stata bloccata la causa di beatificazione – adesso dicono che sia ripresa – del vescovo salvadoregno Romero, questo fulgido esempio di martirio. Un pastore quasi del tutto dimenticato, che si è totalmente identificato col suo popolo oppresso.
La Chiesa non può intromettersi nella direzione della società terrena. La sua voce deve essere profetica, come già è stato detto. L’esigenza di profezia rimanda al nome di Dio. Penso agli amici e ai maestri del monastero di Bose, in particolare al priore Enzo Bianchi, che lo insegnano da sempre. La profezia non ha bisogno di diventare politica, economia, tecnica, morale.
La mia gioia, da piccolo prete di strada, è di stare a fianco dei poveri, dei giovani, degli operai, dei soggetti mal riusciti oppure ghettizzati. Nelle rivendicazioni ambientali dei Verdi, in quelle dell’autonomia, nel cuore antico della gente, nella ragione comune e nel buon senso. La Chiesa istituzionale altrimenti rischia di lasciarli fuori di casa. E questo è uno scandalo. Sarà essa stessa, cioè, a subirne scandalo. «Sono venuto a portare la buona notizia ai poveri».
Una parola autenticamente profetica avrà naturalmente una precisa ricaduta nella polis, ma se dimentica la propria qualità – ecco di nuovo l’insegnamento di Enzo Bianchi, priore di Bose – di eco della parola di Dio, ossia se pretende di travalicare immediatamente nella sfera politica, nella mera etica umana, nel dominio dell’economia e della tecnica, allora introdurrà semplicemente germi di contrapposizione e di divisione, come del resto sta avvenendo nella comunità ecclesiale, se non nella stessa comunità cristiana in senso ampio.
E il vescovo, in tutto questo, dov’è? Se la croce è l’abolizione dell’inimicizia, il vero vescovo è l’operatore di pace: mite, misericordioso, in dialogo con tutti, assetato di giustizia. Il vescovo è per sua stessa natura colui che non può creare nemici. Questa è la mia piccolissima testimonianza.
MicroMega: La religione cattolica, nel senso della Chiesa gerarchica, sembra trionfante, mai tanto ascoltata dagli establishment, dai media, da chi fa opinione. Voi considerate questo potere un limite e addirittura un rischio per il messaggio evangelico. Contrasto non nuovo, quello tra Gerarchia e Chiesa «di base», che solo il Concilio Vaticano II aveva saputo affrontare.
Quello che sembra oggi mancare però, è proprio la voce di questa Chiesa «di base». Oggi l’immagine della Chiesa è una immagine compatta, molto allineata sulla Chiesa gerarchica, la quale al suo interno sembra infinitamente più compatta che mai. La Conferenza episcopale italiana di Ruini appare un organismo francamente monolitico.
Questa mancanza di visibilità corrisponde a una effettiva restaurazione, a una normalizzazione compiuta, per cui le comunità e i fermenti che voi rappresentate costituiscono eccezioni ed episodi marginali nella Chiesa, oppure questo fermento c’è, come c’era venti o trenta anni fa, e semplicemente la Gerarchia, e i media ossequiosi, hanno saputo mettere la sordina al fenomeno?
Albanesi: Vi è una solitudine di tutti e in particolar modo dei cristiani, giacché la secolarizzazione investe la cultura e la società nel suo complesso. Vi è un oggettivo stato di difficoltà: le chiese si sono svuotate, i ragazzi hanno altri riferimenti, è sempre più arduo proclamare il Vangelo. Probabilmente non siamo riusciti a capire da dove veniva il pericolo. Il pericolo veniva da destra, nel senso che il consumismo, il radical chic, la superficialità, l’edonismo, l’efficientismo e via
dicendo formavano una ruggine leggera, ma feroce e inarrestabile. La Chiesa ha visto nei movimenti ideologici degli anni Settanta un pericolo. Perciò li ha zittiti: ma non si è resa conto del rischio che correva dall’altra parte.
La solitudine esistente ha almeno due conseguenze. La prima è la difficoltà di chi vive alla periferia, a diretto contatto con l’umanità più disagiata. È difficile raccogliere le forze di tutti, anche perché gli orientamenti conciliari e soprattutto la riflessione pre-conciliare si sono dispersi. A questa riflessione, ad esempio, è dedicato integralmente l’ultimo numero della rivista internazionale di teologia Concilium.
La seconda difficoltà riguarda la struttura monolitica della Chiesa, che in realtà è una debolezza e non una forza. Questa monoliticità si situa infatti più in basso della fede, per attestarsi tatticamente sulla prudenza di un sapersi regolare, di un moderatismo anziano, di una specie di buon senso a buon mercato. Proprio per questo, nel momento in cui all’esterno della Chiesa ci si appropria della definizione di un’appartenenza cattolica e si riceve persino la benedizione della gerarchia, chi è minimamente consapevole non può non mettersi in guardia. Perché? Perché il cristianesimo è e deve restare scomodo. Il cristianesimo ha un messaggio duro e difficile da seguire. Nel momento in cui si viene benedetti, in qualche modo c’è un trucco di cui si dovrebbe diffidare, piuttosto che esserne lusingati. Per tacere, del resto, del riscontro pratico di tutto ciò: famiglie che si sfasciano, comportamenti sociali e politici che vanno alla deriva, il mondo stesso che viene dimenticato.
Lo dico pubblicamente: nessuno, nella Chiesa italiana, parla più del mondo. Non del mondo italiano o del nostro piccolo mondo regionale, bensì del mondo in tutta la sua ampiezza. E se la religiosità cristiana dimentica questa sua universalità è finita, nel senso che si trasforma, come diceva don Pierluigi Di Piazza, in una specie di religiosità, in una setta. E il cristianesimo ha resistito nei secoli esattamente perché setta non era.
Contro tutto questo esiste ancora una qualche forza nella base, che tuttavia non vedo né studiata, né presa in considerazione e anzi quasi abbandonata a se stessa. Penso a quanta gente muore nelle missioni, al martirio che continua e non fa più scandalo, a chi muore ovunque in nome di Cristo, oppure alla vera e propria resistenza di tanti preti ormai soli e anziani, che vivono abbandonati in certe parrocchie senza essere significativi per gli altri. Penso a molte fedi semplici, che resistono agli attacchi dell’edonismo. E però, sul versante opposto, penso alla popolarità di certe devozioni che vanno al di là della modernità.
La visione esteriore e purtroppo attuale di una Chiesa oltremodo presente nella realtà politica e dogmaticamente monolitica è una visione distorta e per molti massmediatica, che rischia di non reggere più l’impatto con la realtà.
Di Piazza: Personalmente vivo con grande dolore e tribolazione i cedimenti alla lusinga del potere: mi impaurisce appunto una Chiesa del potere, anche se è una realtà che non ci schiaccia, o almeno così speriamo, dal momento che continuiamo un cammino non solo tra di noi, ma con le tante amiche e tanti amici che rappresentano ed esprimono anche la voce di tante persone e di tante comunità, qui in Italia e in tanti luoghi del pianeta con cui siamo in relazione…
Fra qualche giorno saranno trent’anni che sono prete. Di recente, in un’intervista ad un giornale locale, riflettevo sulla questione del potere e su come esso, dal punto di vista dell’istituzione religiosa e non della fede, si concentri su tre aspetti che del resto ritornano anche nel dibattito politico recente e nel Sinodo che abbiamo ricordato. I tre aspetti in cui si concretizza il potere religioso sono la sacralità (come potere di separatezza dal mondo e dalla laicità), la sessualità e l’economia.
Il messaggio del Vangelo, su questo, è chiaro: non esiste una sacralità come separatezza. Gesù non era un rabbino diplomato e non era un sacerdote: era un laico, ha fatto il falegname per trent’anni. Attraverso i suoi gesti e le sue parole ha comunicato questo amore incondizionato, che come tale poteva venire solo da Dio, che lui nella storia ha presentato nella sua persona.
Storicamente, stiamo ricostruendo quello stesso apparato che ha ucciso Gesù di Nazareth e che era fondato sulla sacralità come separatezza dal mondo, dalla vita delle persone. Invece il testo biblico nella sua interezza e il Vangelo con forza particolare parlano di santità, che è ben diverso. Non luoghi, persone e gesti separati o abiti speciali – l’intero immaginario che invece ci è di fronte – bensì una santità nel senso di una profondità al massimo possibile dell’umanizzazione delle persone e della storia, nella continua relazione tra storia e trascendenza, trascendenza e incarnazione nell’umanità storica.
Allo stesso tempo occorrerebbe poter dialogare nella Chiesa sulla sessualità in tutti suoi aspetti: ma fino a quando anche la questione della donna non sarà affrontata nella sua profondità e nella sua ampiezza ciò non sarà possibile; questo potrà avvenire solo se le donne saranno protagoniste con la loro differenza di genere. Lo stesso vale per la questione economica di cui prima abbiamo accennato in relazione all’esenzione dal pagamento dell’Ici: la Chiesa deve essere un segno credibile del Vangelo per come utilizzare il denaro: in modo limpido, trasparente, solidale.
Quando c’è un intreccio di tutti e tre gli aspetti in modo negativo, dentro un’istituzione forte come quella attuale, si ha l’impressione di una sorta di schiacciamento.
Altro è la fede.
Don Andrea ricordava prima padre Ernesto Balducci; ne cito un passaggio molto profondo, già risalente quindi a diversi anni fa: tutte le religioni sono a un bivio, tutte. La prima scelta è quella di continuare semplicemente ad accogliere le persone impaurite dalla complessità del mondo, dallo spaesamento, dall’incertezza personale e comunitaria, consolandole però esclusivamente dentro le nicchie della sacralità e rassicurando semplicemente l’identità personale. Certamente l’aspetto della consolazione della fede è importante e significativo, ma non ha senso, nell’itinerario di una fede profetica, una consolazione che non sia al tempo stesso comunicazione di un coinvolgimento profondo nei confronti dell’altro, soprattutto dell’altro che fa fatica, che è colpito, che è emarginato o che comunque è in difficoltà ed è vittima, ma che può diventare, in un processo comunitario, protagonista della sua storia di liberazione.
Le religioni tutte, anche se noi parliamo in particolare del Vangelo e dell’alternativa irriducibile tra fede e religione, debbono spostare il loro baricentro dentro la storia nei luoghi in cui si vivono i drammi e le speranze dell’umanità.
Rispetto alla questione della visibilità o meno di una possibile Chiesa di base e dei sui fermenti evangelici faccio un esempio: in Friuli riuniamo da nove anni un gruppo di preti e di laici che con un coinvolgimento significativo percorrono ogni Quaresima una Via Crucis da Pordenone alla base di Aviano, che è un simbolo, in Italia e in Europa, della prepotenza armata. Da Aviano sono partiti i cacciabombardieri per l’ex Jugoslavia; ad Aviano ci sono una cinquantina
di bombe atomiche, nessuno l’ha mai smentito. Ebbene, quando camminiamo verso la base per quei dodici chilometri – meditando e pregando – ci accorgiamo che non ci sono, ad esempio, tanti giovani cattolici che frequentano le cattedrali o altre realtà dei movimenti ecclesiali. Dico questo con tutto il rispetto, ponendo però un problema: di fronte ad una proposta come la nostra, le persone che si aggregano di preferenza dentro l’istituzione non ci sono, non partecipano. Perché mai? Perché si dice che la nostra Via Crucis è politicizzata, che noi stessi politicizziamo la fede, come se tra l’altro in tutto quello che si sta verificando questi giorni non ci sia una politicizzazione e una resa al potere, stavolta però della fede che, quando non è peggio, si trasforma in acquiescenza della situazione esistente.
Come diceva don Vinicio, ci troviamo in una situazione per certi versi inedita, che non possiamo non guardare in faccia. La religione oggi diffusa è quella che serve alle persone soltanto in determinati momenti della vita, magari quelli più tradizionali. Ma altro è la fede che coinvolge – sia nelle nostre comunità locali che nelle comunità – dentro la storia di un mondo sempre più interdipendente e drammaticamente segnato dalle grandi questioni dell’impoverimento, della fame, della guerra, delle oppressioni, delle discriminazioni, dell’aggressione all’ambiente. Che fede sarebbe mai, del resto, se non ci coinvolgesse dentro alla storia del mondo?
Sebbene il mio personale osservatorio sia limitato, a me pare che ci siano esperienze significative nella base, anche se forse non sono più vivaci come un tempo, e poi non si fanno sentire, manca loro una visibilità.
Alle volte, e mi permetto una riflessione su me stesso e sulla nostra comunità di fede intrecciata con il Centro di accoglienza, quando si è cercato di parlare all’interno della Chiesa, per esempio delle specifiche questioni che riguardano i preti, non in quanto tali ma in quanto inseriti in una comunità, si è incontrato spesso un muro di gomma nell’istituzione. Manca cioè il dialogo, come prima veniva giustamente osservato. Ciascuno si ritira in se stesso, anche dal punto di vista umano e psicologico. E compie il suo percorso in proprio, con il pericolo che alle volte si isoli anche rispetto a chi fa lo stesso percorso. Ognuno cerca di compiere il suo senza la possibilità di dialogo nel senso più veritiero della parola all’interno della Chiesa, che non è certo quello dell’ascolto occasionale e tanto meno solo di un colloquio a termine, più o meno attento a una situazione che poi magari viene giudicata di mera rivendicazione. Non è questo il punto. Si tratta di far emergere il soffio che proviene dall’ascolto della vita, dall’ascolto della storia. Senza l’ascolto e la possibilità di un dialogo aperto e veritiero non c’è futuro. Nella Chiesa manca un dialogo autentico, in cui si possano nominare le «cose» della vita così come esse sono. Così ognuno procede per conto proprio.
Un altro aspetto essenziale è quello che riguarda i mezzi di informazione. Anche quando c’è qualche esperienza positiva e significativa, come la lettera di don Aldo Antonelli da cui siamo partiti, si ha l’impressione di vivere in una società che consuma tutto. Non solo da un giorno all’altro, ma quasi da un istante all’altro. Si volta subito pagina. E allora sia le situazioni più belle e positive che quelle più dolorose e difficili letteralmente si consumano, senza che diventino occasione di riflessione, di interlocuzione…
Infine, ho l’impressione che sia debole o manchi una rete. Forse questo nostro dialogo è un segno e un punto d’avvio, ma ci vorrebbero più possibilità di comunicazione per far emergere anche in Italia il volto di questa Chiesa che vive nella base, ma non emerge come dovrebbe.
Anche la domanda sulla visibilità del cristiano posta dalle gerarchie appare in certo modo paradossale. Talvolta capita anche a noi, nelle comunità in cui siamo inseriti, di non accorgersi della presenza e delle potenzialità delle persone, di quello che esse mettono già in atto. E questo accade per disattenzione, per supponenza, per pregiudizio, salvo poi dire che non ci sono persone disponibili. Così avviene a livello della Chiesa romana, ma anche delle chiese diocesane. Il concetto stesso di comunione è inteso talvolta in modo nominalista. Se un’esperienza non parte dalla diocesi o dal centralismo della Chiesa istituzionale, va subito incontro al sospetto. Eppure in tutta Italia vi sono comunità, come quelle rappresentate dagli amici con cui ho il piacere di interloquire qui, che sono il segno di esperienze straordinarie. Esperienze che procedono da anni, inserite pienamente dentro la storia, in rapporto con le storie delle persone. E i Vangeli non sono forse i racconti delle storie degli incontri di Gesù di Nazareth con le persone?
Fasullo: Il fatto che questo confronto sia stato organizzato da MicroMega anziché da una rivista o da un giornale cattolico, dimostra, almeno fino a un certo punto, che all’interno della Chiesa ciò non è facile che accada. Prevale l’esclusione e il controllo. Come del resto in tv: solo alcuni vi compaiono, arrogandosi la rappresentanza della Chiesa e della categoria di cattolico.
L’impressione di trovarsi di fronte a una Chiesa trionfante è diffusa. Ma bisogna distinguere: religione e fede non coincidono perfettamente. Io so che le parole «vincere» e «trionfare» ripugnano alla fede, le sono estranee. Dio non vince mai, e non solo perché non lotta. L’hanno anche insegnato i teologi più seri: una cosa è religione, altra cosa è fede cristiana. Spesso, anzi, le due si rapportano in modo inverso: più religione, meno fede, e viceversa.
Nel 1998, a Palermo, per un’intera settimana, abbiamo riflettuto su questa distinzione in rapporto al problema della violenza e della mafia. Era salito alla ribalta un equivoco: a un mafioso venivano dati clandestinamente i sacramenti. In casa di un noto mafioso era stato trovato un altare con relativi vasi sacri per la celebrazione della messa e di altri sacramenti. Alcuni sacerdoti vi svolgevano «stabile» servizio. Non è chiaro se quei preti abbiano abbandonato quell’attività. Non so neppure se la distinzione tra religione e fede cristiana abbia fatto passi avanti nella coscienza della gente. Non sono sicuro, cioè, che sia diventato ovvio che un mafioso può essere religioso quando e come vuole, ma non potrà mai, mentre fa cose mafiose, essere e dirsi anche cristiano, ovvero, discepolo di Gesù Cristo.
La presenza della fede, ovvero dei cristiani nella vita pubblica e istituzionale, ha sempre costituito un problema nella Chiesa. La storia conosce compromessi, raramente limpidi e convincenti. Tutti conoscono il fenomeno del costantinismo, ovvero dei rapporti di mutuo sostegno, di scambio politico e culturale tra potere politico e potere religioso. È una tentazione perpetua stigmatizzata dal Vangelo. Anche oggi la tentazione è attiva, nonostante il Vangelo, nonostante il Concilio. La chiamano neo-costantinismo e può sfociare nel clericalismo: uno degli ostacoli più insidiosi per la fede. Ma come la fede va tenuta distinta dalla religione (Gesù fu ucciso per sentenza religiosa e clericale) così la Chiesa non va confusa col clero o, peggio, con Dio. Dio non è sotto la tutela della Chiesa. Oggi, nella Chiesa, sembra ci sia un certo cedimento alla tentazione di far politica, di esercitare il potere,
di dettare legge, di dirigere il governo e il parlamento. Ciò non è possibile. Non si può cedere in nessun modo a questa tentazione. La Chiesa non ha ricevuto alcun mandato a esercitare il potere sulle città, non è stata istituita per governare, guidare il mondo, orientare la storia. L’umanità, che è molto più grande della Chiesa, se la guida liberamente Dio col suo amore, senza chiedere consiglio a nessuno. La Chiesa può (deve) solo rappresentare l’amore gratuito di Dio nei modi storicamente possibili e più coerenti.
Se la Chiesa oggi sembra trionfare, nessuno però può affermare che Dio vi abbia parte o faccia suoi i trionfi della Chiesa. In realtà, si tratta piuttosto di una Chiesa troppo ripiegata su se stessa, che provvede più a sé che agli uomini, che dimentica i poveri. Conoscendo la storia di Gesù possiamo andare sicuri: se la Chiesa vince, Dio perde. Una Chiesa che pensa a se stessa difficilmente riesce a farsi capire e ascoltare dagli uomini. Diventa chiusa, dura, rigorista. Rischia di non comprendere più la parola evangelica.
Agli inizi degli anni Settanta, dietro la spinta del Concilio, uno dei discorsi dominanti nella Chiesa riguardava i rapporti tra fede e politica, fede e storia. Ci si svegliava, allora, dal sonno di un ambiguo spiritualismo utile solo a tenere i cristiani lontani dai problemi difficili che soffocavano le città. A Palermo e in Sicilia, il problema più grosso era costituito (lo è ancora) dalla mafia. Era arduo, perché comportava emarginazione, sostenere che la Chiesa doveva prendere posizione e dire apertamente che non si poteva essere cristiani e insieme mafiosi. Erano anni spietati. La morte umiliava la città: e ancora non erano arrivati i terribili anni Ottanta! Ma solo in pochi si reagiva. Ancora nel 1982 (il 3 settembre di quell’anno veniva ucciso il generale dalla Chiesa) si discuteva, da parte di alcuni, se la mafia doveva costituire un problema anche per la Chiesa. Era il tempo in cui la Chiesa italiana aveva un suo partito politico (la Democrazia cristiana) ampiamente compromesso con la mafia (Andreotti docet). Fu una battaglia lunga e difficile, al termine (?) della quale si può dire che passi importanti sono stati compiuti, ma non troppi.
Credo che la lezione più importante da apprendere da quella esperienza sia piuttosto chiara: la Chiesa aiuta le città a liberarsi dai propri problemi se è libera e cammina con la gente, e se sulle proprie spalle porta insieme agli altri i problemi di tutti. Tenendosi, però, lontana dalle cabine di comando, astenendosi dal dirigere i governi, rinunciando a dettare condizioni ai parlamenti, nonché a suggerire (imporre) comportamenti elettorali o referendari. L’ha insegnato il Concilio: una Chiesa povera e libera è più credibile di una piena di denaro e di legami (tanto più stretti quanto meno confessabili) col potere politico.
Gallo: Il problema, per me, è sempre quello del Servizio di Pietro. Anni fa, mi trovavo nell’ascolto appassionato del grande maestro monaco Arturo Paoli. Gli domandai cosa pensava della Chiesa. Candidamente, come fa ancora adesso che è quasi centenario, mi rispose: «Caro Andrea, è sede vacante». In effetti è questo il punto centrale. Personalmente, allora rimasi meravigliato. Amo la mia Chiesa. I valori evangelici me li hanno trasmessi i miei vecchi genitori, una famiglia povera di lavoratori: la mamma, la nonna, il papà. Allora domandai ad Arturo Paoli: «Ma allora chi governa?». «Governa l’Opus Dei».
Ora è chiaro che i fermenti continuano ad esserci anche in Italia, per non parlare di quello che accade in tutto il mondo. Il Vangelo è un seme. Gesù continua a fare seguaci. Ma in Italia, per esempio, il cardinal Ruini ha compreso perfettamente la situazione. Sono anni che si portano avanti azioni per così dire di ingabbiamento. Un’operazione che non era mai riuscita fino in fondo come adesso. E che è stata condotta valorizzando, illustrando e premiando quelle comunità particolari per la dignità, la coerenza e la testimonianza al magistero. Tutta una serie di esperienze ben precise, da Comunione e liberazione alla Comunità di Sant’Egidio, dai Legionari di Cristo all’Azione cattolica compresa.
Ho trovato inoltre così assurda quella specie di propaganda, davvero bassa e volgare, contro il referendum sulla procreazione assistita. Nessuno o quasi ha avuto il coraggio di dirlo, e me ne meraviglio. In Italia ci sono centinaia di vescovi: possibile che Ruini, alla Cei, esponga le sue indicazioni e nessun vescovo si muova? Allora sono prigionieri. Persino le Acli hanno dato la loro adesione. L’unica ad aver mostrato perplessità è stata l’Agesci, richiamando il sacrosanto primato della coscienza. E in questa gabbia i giovani e le famiglie finiscono per essere contenti. Aderiscono a Cl, i fidanzatini vanno al meeting, gli universitari a Sant’Egidio, e dappertutto si rafforza questa gabbia. Mai l’Azione cattolica aveva rinunciato alla sua dignitosa autonomia nella fedele e storica collaborazione con i vescovi.
Tuttavia i fermenti continuano ad esserci. La meditazione si approfondisce e si può essere fieri dell’operato delle comunità di base, che non sono scomparse. Tra di esse mi piace sempre ricordare, come punto di riferimento, l’Isolotto del caro amico e fratello Enzo Mazzi. Di certo la stampa non se ne occupa un granché, anche perché le comunità di base sono fuori da questo ecclesiocentrismo imperante in cui si dimentica che la Chiesa è già sempre mediazione e non ha ragione di esistere per se stessa, ma solo come strumento e segno della salvezza che Dio ha preparato per ogni uomo.
E allora ritorniamo al punto centrale del Concilio. Personalmente mi onoravo dell’amicizia del cardinal Lercaro, uno dei moderatori conciliari, che era genovese. All’epoca, Lercaro era arcivescovo di Bologna e quando rientrò all’arcivescovado dopo il Concilio, lo aprì a tutti i ragazzi con un concreto gesto bellissimo e altamente simbolico. Il messaggio meraviglioso è tutto qui, nella natura di un Dio che spogliò se stesso prendendo la natura di uomo e finanche di servo (Fil 2, 7): da ricco che era si fece povero. Quello che oggi non c’è più è esattamente la grande Chiesa dei poveri, con i poveri.
Ma l’obiettivo della Chiesa devono essere proprio i poveri. E ci sono molte persone, con tante storie diverse, che lavorano a questo obiettivo comune. Naturalmente non si mettono la divisa del cristiano o la veste bianca del battesimo. Però perseguono l’obiettivo di smascherare l’idolatria, che significa illuminare sentieri pubblici. Questo è quello che sentono e che cercano: un’indicazione di senso e di speranza, accompagnata come qualcuno ha detto dallo smascheramento delle disumanità, ovunque esse si celino. Pochi giorni fa ero a Vicenza con i ragazzi – di cui poi ne hanno denunciati quarantacinque – per dimostrare contro il progetto di ampliare la Caserma Ederle (grande base nordamericana).
Lo smascheramento della disumanità è sempre presente nella capacità di destare il salutare scandalo del Vangelo e di sollevare una denuncia profetica contro le ingiustizie.
Occorre vigilanza, il che significa sempre coltivare un’istanza critica contro i rischi di una Chiesa che assurge al potere politico. Oggi questa vigilanza non c’è più, perché domina esattamente la tentazione del potere.
Questa Chiesa, che ha addirittura la sindrome dell’accerchiamento, è una Chiesa che non è osteggiata e anzi è
; ascoltata e omaggiata dal potere.
Ricordiamoci del Giubileo con le passeggiate dei politici o della santificazione di san Escrivá. Ricordiamoci soprattutto di papa Wojtyl´a che visita il parlamento italiano, riceve applausi scroscianti, chiede un piccolo gesto di clemenza per quella discarica umana e sociale che sono le carceri italiane e che cosa gli si risponde? No. Possibile che i vertici della Chiesa non si rendano conto e non abbiano minimamente protestato?
E allora la domanda è: come è possibile transitare dal governo dell’esistente alla profezia? La polis è il luogo comune di tutti, è cioè uno spazio di valori comuni. In essa ci sono tanti cristiani, ma anche tanti non cristiani. È tutto qui il nocciolo della questione? O bisogna maturare finalmente un campo autonomo della vita pubblica, nel senso di un luogo in cui tutti insieme costruiamo qualcosa. È qui che non si vuol capire come stanno le cose. Leggete la Dominus Jesus del 2000, di cui parlavo ancora di recente con il teologo Giulio Girardi, che l’ha molto approfondita. Come può essere compatibile tale documento con il dialogo e l’ecumenismo? Fintanto che il papa Ratzinger non la ritira, mi meraviglio che si possa ancora fare un solo passo innanzi.
Credenti e non credenti costruiscono un umanesimo, non un umanesimo cristiano, ma comunque un umanesimo nella comune passione per l’uomo. Uomini si nasce, cristiani lo si diventa per scelta. E allora vorrei tirare in ballo colui che rimane ancora un orientamento per tutti noi preti, il nostro grande don Lorenzo Milani, che su questo punto sapeva prendere le dovute distanze dall’istituzione, per stimolare, per amare la nostra Chiesa.
Noi siamo qui. Ricordiamoci che i fermenti ci sono e siamo sempre pronti ad attendere, ad invocare, a sperare nel Regno e nella venuta gloriosa del Signore (1 Cor), a nutrire compassione, a impegnarci attivamente come cristiani per la pace, per la giustizia verso i più deboli, i più poveri, i senza dignità, gli oppressi.
Che cos’è centrale per il cristiano? È la parola della croce (1 Cor 1, 18), è l’annuncio del Regno: che tutto sia purificato. E allora ecco che la paglia brucerà, ma l’uomo resterà sempre questa pietra preziosa.
Esiste sempre un rischio, per il cristiano come per la Chiesa, di sbagliare nella lettura della fede e della parola. Ma allora non rimane che combattere e impegnarsi. Lo dico a tutti coloro che incontro: se vorranno sbattermi di fuori dalla Chiesa, lo faranno. Ma avranno davvero il coraggio di sbattermi fuori dalla «mia» casa, soltanto perché dico queste cose?
Sono sempre pronto a correggermi. Ma allo stesso tempo voglio continuare a combattere il peccato strutturale dell’intromissione nella cosa pubblica, delle indebite ingerenze, delle volontà teocratiche, del tentativo di restaurazione della cristianità di Costantino. I cristiani non devono temere Diocleziano, devono temere Costantino.
MicroMega: Avete parlato di tentazioni costantiniane, e di riduzione del cristianesimo a morale sociale.
Voi vivete situazioni di frontiera, con persone che spesso sono tossicodipendenti, prostitute, malati di aids, e tutti i giorni dovete affrontare le scelte morali che la Cei sempre più spesso chiede ai parlamenti di trattare con norme di legge sanzionate penalmente. Forse si cercherà di rimettere in discussione l’aborto, e intanto si cerca di proibire l’aborto chimico (pillola RU486), molto meno traumatico di quello chirurgico. E viene reiterato l’anatema contro il preservativo, anche in quelle regioni dove l’aids è una piaga tale che oltre il 20 per cento dei bambini viene al mondo già con l’aids.
Quanto al problema della sofferenza terminale e del suicidio assistito, si vuole che in Italia neppure lo si affronti, mentre un organismo molto conservatore, come la Camera dei Lord, ha deciso di porlo all’ordine del giorno nel parlamento inglese, perché una legge lo depenalizzi.
Vista dall’osservatorio delle vostre comunità, che possibilità c’è di comunicare un messaggio cristiano di testimonianza profetica, un messaggio «dalla parte degli ultimi», insieme al messaggio, più che mai ribadito dalla Chiesa-istituzione, della condanna non solo morale ma, se i parlamenti si piegano, anche penale dei comportamenti richiamati? E non abbiamo neppure accennato al problema dell’omosessualità…
Albanesi: Per chi vive in prima persona i problemi degli uomini non esiste alcuna dicotomia. Il Dio cristiano è un Dio misericordioso, un Dio accogliente, un Dio che va verso la vita, un Dio che vuole allontanare la morte dalle sue creature. Nel momento in cui vengo a contatto con storie drammatiche, la prima spinta dev’essere sempre quella dell’accoglienza, della misericordia, dell’aiuto al superamento delle difficoltà.
Tutto questo non può mai inficiare i comportamenti e i giudizi morali del cristiano, per il semplice motivo che non sono io a dover giudicare ciò che sta avvenendo. Nel momento in cui una ragazza straniera che non è in grado di mantenere un figlio viene da me e mi dice che ha abortito, il mio dovere è prima di tutto quello di accoglierla. Che cosa poi lei abbia compiuto davvero con il suo gesto, io non posso dirlo fino in fondo, perché mi è stato proibito di giudicare. Espressioni evangeliche come «non giudicate» o «non condannate» (Luca 6, 37) si connettono all’idea che il grano e la zizzania saranno separati soltanto alla mietitura (Matteo 13, 30), il che significa alla fine dei tempi, quando peraltro i ladri e le prostitute ci precederanno nel Regno dei Cieli (Matteo 21, 32). Tutto questo dice una cosa sola: che abbiamo il dovere di accogliere e di accompagnare tutti in vista della salvezza. Questo è il primo e forse l’unico dovere che abbiamo.
È evidente che insieme a questo noi cerchiamo anche di prospettare la verità e quindi di suggerire l’adesione a un messaggio di speranza. Ma è soltanto un messaggio quello che noi diamo. Non spetta a noi verificare i tempi, i modi, i luoghi e la coscienza di ciascuno nei confronti di questo stesso messaggio.
Personalmente non vivo alcuna contraddizione. Di fronte a chi soffre mi ricordo esclusivamente dell’ideale che il Signore ci ha dato. Se qualcuno è in stato di difficoltà, lo aiuto a ricercare Dio e lì mi fermo. Non spetta a me dare una valutazione definitiva, non posso farlo. L’onorevole Buttiglione diceva pubblicamente, non molto tempo addietro, che gli omosessuali erano in stato di peccato. Il catechismo in realtà non dice che sono nel peccato, semplicemente perché nessuno può dirlo e perché di fronte alla coscienza, che è il limite oltre il quale non posso mai andare, devo solo accogliere le istanze e i bisogni che mi vengono presentati.
Ormai abbiamo capito che, lungo il corso della storia, l’ideale del cristianesimo va sempre contestualizzato e approfondito, che occorre comunque rifletterci sopra una volta di più. Posso seguire, ascoltare, indicare, ma non posso cristallizzare la storia legandola a qualcosa che non tiene conto di quella dimensione centrale che è la dimensione del bisogno, del dolore e dell’aiuto.
Di Piazza: Ancora una volta mi sento in sintonia con don Vinicio. Si tratta di un modo di vedere le cose che è già in se stesso una profezia sulle persone, sulle relazioni e sul mondo. A questo riguardo, ricordo sempre la posizione del segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer e il suo auspicio e impegno perché la società si liberi dall’aborto; che nessu
na persona cioè si debba trovare nella necessità di porsi tale dilemma. Questa è ovviamente la prospettiva ideale di tutti; credo che tutti in linea di principio siano contrari all’aborto; nel concreto delle situazioni umane, come diceva don Vinicio, deve esserci un’accoglienza, un accompagnamento, un incoraggiamento delle persone, e un sostegno a riprendere e rinnovare le ragioni della vita, esprimendole nella relazione con gli altri.
In una società pluralista dal punto di vista delle ispirazioni e dei percorsi, tutti sono chiamati a contribuire affinché le leggi siano il più possibile umanizzate, con attenzione particolare, ma non a parole quanto nei fatti, alla prevenzione.
Ma questo vale per tutto ciò che riguarda la convivenza di un popolo civile. A maggior ragione, dunque, in quelle situazioni così delicate e difficili, di fronte alle quali ci coglie un profondo tremore, visto che si tratta delle vicende umane più nascoste, delle storie più intime delle persone, come appunto l’aborto.
La medesima cosa dobbiamo dire per l’omosessualità e per l’esperienza fondamentale all’accoglienza, da parte della Chiesa, di persone che vivono le loro relazioni e al contempo si lasciano guidare, in determinate situazioni, proprio dalla parola del Vangelo. Occorre vivere e affrontare queste situazioni in modo integralmente umano.
Lo stesso vale, ancora, per quanto riguarda le coppie di fatto. Anche in questo caso sussiste certamente il diritto, da parte della Chiesa, di richiamare il senso della famiglia. Ma per chi crede e si orienta a questo, sperimentandolo fino in fondo, vivere l’esperienza della famiglia (che può essere un segno anche per gli altri) non significa mai condannare altre persone che vivono situazioni diverse per ribadire il valore assoluto della famiglia. Deve accadere piuttosto il contrario. Si vive l’esperienza della famiglia nel pluralismo delle situazioni e solo a queste condizioni si può davvero essere un segno anche per gli altri. Altrimenti terremmo un comportamento paradossale: negare gli altri per affermare noi stessi… E sarebbe un cortocircuito assolutamente infruttuoso a livello umano.
Il Vangelo, con il suo richiamo a una grande idealità umana, ci insegna una umanizzazione integrale della vita e dei rapporti sociali, in cui le persone, possibilmente, non entrino in situazioni di sofferenza, di difficoltà o addirittura di tragedia. Nello stesso tempo, e questo Gesù di Nazareth lo esprime in modo esemplare e straordinario, deve emergere in noi una capacità di prestare attenzione, di prendersi cura, di rincuorare. Quante volte, nel Vangelo, ricorre la frase «Va’ in pace». Ecco la Chiesa che accoglie, la Chiesa di una serenità ritrovata nell’intimo, di possibilità di vita che possono a poco a poco riprendere a manifestarsi.
Secondo la mia esperienza e secondo quella di tutti noi, in certi casi così lunga e intensa, se la Chiesa, come comunità della fede, non è accogliente, non è Chiesa. Gesù di Nazareth è stato esattamente il Dio dell’accoglienza. Quando parliamo poi di fede e di religione, come stiamo facendo ora, e quando parliamo di Dio, si tratta sempre di capire in quale Dio si crede o a quale Dio ci si riferisce. Giacché c’è il Dio dei ricchi, dei prepotenti, dei privilegiati, che spesso è il Dio della guerra, della superiorità che schiaccia gli altri, della discriminazione. Rispetto a questo Dio io mi dichiaro ateo. L’altro Dio a cui credo e a cui mi affido, è il Dio di Gesù di Nazareth, che è colui che prospetta – senz’altro in modo esigente – il nostro futuro e, nello stesso tempo, accoglie le persone, le valorizza e le incoraggia… Questa è la mia posizione.
Fasullo: Chi è credente fa esperienza quotidiana della misericordia di Dio. Non può, quindi, dire sempre e solo dei no, dei divieti. Altrimenti la sua fede rischia di essere finta, una presunzione. Un’etica ispirata al Vangelo è comprensiva, aiuta, carica, apre, dà la possibilità concreta di liberarsi da ciò che può costituire un peso, un ostacolo a una piena responsabilità circa le proprie azioni. Senza speranza non c’è etica. C’è solo la dittatura di alcuni su altri.
La Chiesa, del resto, ha un modello altissimo (obbligato) cui ispirarsi: il comportamento di Gesù con la donna colta in flagrante adulterio e sottoposta al suo giudizio. «Donna, dove sono i tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannato? Neppure io ti condanno». La morale, almeno quella che si ispira al Vangelo, non condanna mai. Non uccide, dà vita. Creare moralità, o anche solo pretenderla (sempre) dagli altri (ma la morale non si pretende mai: si offre soltanto), esclude ogni forma di condanna e include ogni parola e gesto che possano sostenere e spingere gli uomini e le donne a andare avanti, a farsi e rifarsi una vita libera e dignitosa. Appunto: sul modello della parola di Gesù rivolta all’adultera. Se non si è capaci di una morale con questi caratteri, anche nella Chiesa, è meglio tacere.
Pertanto, la Chiesa conosce bene la storia della misericordia di Dio, che sa dispensare con generosità se fa spazio alla saggezza e alla prudenza e abbandona gli inutili toni del rigorismo razionalista.
C’è un grande teologo morale nella Chiesa, Alfonso de Liguori, il quale attesta di non aver mai congedato dal confessionale una persona senza averla prima perdonata. Questo, si badi, non significa che de Liguori abbia sempre trovato infallibilmente una via d’uscita (giudiziale) per tutti. Significa, più semplicemente, che, talvolta, si asteneva, che rinunciava anche a pronunciare sentenze sicure e irreformabili sui comportamenti umani: non si attardava nel giudicare. Perdonare e assolvere, pertanto, non vuol dire sempre e soltanto giudicare, significa piuttosto liberare, spingere, dare fiducia, consegnare gli uomini e le donne (se ci si crede) alla benignità, alla grazia, all’amore di Dio, che sono, appunto, di Dio e non degli uomini. O c’è qualcuno che possa misurare l’altezza, la profondità, l’ampiezza della grazia che Dio incondizionatamente dà agli uomini?
Sul terreno dell’etica, forse, si può sbagliare in due modi. O con l’eccesso di tolleranza – come dire: tutto è lecito, tutto è indifferente, non esiste il male, non esiste il peccato. Oppure col rigore o, peggio, con l’eccesso di rigore. Un cristiano che conosce Gesù Cristo non può mai sbagliare con l’eccesso di rigore. Può sbagliare (ammesso che sbagli) solo con l’eccesso di tolleranza e di benignità, con l’eccesso di apertura e di accoglienza. Mai chiudendo le porte, mai facendo disperare la gente. Questa, io credo, è la grande lezione alfonsiana consegnata non solo alla Chiesa.
Gallo: Proprio ieri sera ho ricevuto una lezione ad un dibattito interetnico e interculturale. È intervenuta una ragazza, mi sembra che fosse peruviana. Ha letto semplicemente l’art. 2 e l’art. 3 dei principî fondamentali della Costituzione italiana: i diritti inviolabili dell’uomo e l’uguaglianza di tutte le donne e di tutti gli uomini. Mi ricordo che i vescovi, in un momento di illuminazione – ecco il vento dello spirito – il 23 ottobre 1981, hanno composto un documento del consiglio permanente della Cei dal titolo La Chiesa italiana e le prospettive del Paese. Al capitolo VI del documento si parlava degli ultimi e degli emarginati, del fatto che tutti potevamo recuperare un genere diverso di vita. Ed ecco qui il punto: entriamo anche noi umilmente
nella Costituzione repubblicana dei valori laici. Dobbiamo riscoprire una buona volta i valori del bene comune, primo fra tutti la «tolleranza».
Ora, richiamandomi a quello che ho detto prima, dovremmo dire a tutti i vescovi, che riconosciamo come successori degli apostoli, che occorre rispettare anche tutti coloro che non vanno in Chiesa. Noi stessi siamo pietre vive e costruiamo questa nostra Chiesa, tuttavia non riusciamo a comprendere il perché di questa prepotenza gerarchica, così tanto mondana e quindi così poco fraterna.
Se la Chiesa è comunione, koinonia, essa è prima di tutto antidiscriminatoria e antigerarchica. Altrimenti, come potremmo parlare di essa nei termini di una fraternità? Li abbiamo letti gli Atti degli Apostoli?
Lo stesso centralismo romano-occidentale è molto poco cattolico e quasi per nulla favorevole all’ecumenismo, in casa nostra e fuori, all’estero. Non possiamo in questa conversazione dimenticare le sorelle e i fratelli migranti, che sono espulsi e trattati come non-persone. In una realtà di maxi emarginazione, della fame nel mondo e delle guerre, non è umiliante assistere nella nostra Chiesa ad un iperortodossismo che si tramuta in caccia alle streghe? Ancora di recente, monsignor Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha sostenuto che «è peccato votare i candidati politici che ammettono leggi a favore dell’aborto», preoccupato più di frenare che di promuovere una riscoperta di una maternità responsabile. «È fatica divina essere umani tutti i giorni», recitava padre Turoldo.
Mi verrebbe da ricordare cinque o sei maestri della teologia di liberazione, tra cui il nostro Giulio Girardi. Potrei ricordare le cattedre decapitate e le gerarchie così tanto preoccupate e così poco sensibili alla comunione, al pluralismo religioso, al pluralismo teologico. Ostili a tutto ciò che è estraneo alle loro esigenze nella pratica e nella realtà di altri mondi, hanno creato in molti cattolici – ed è qui la grande tristezza – un complesso di paure ecclesiastiche. Penso all’ultima vicenda del quorum referendario e dell’astensione imposta dall’alto, alla sottomissione infantile, al conformismo sterilizzante. Altro che riscoperta di valori.
Quando nella Chiesa non si respira, è perché agli uni e agli altri – e mi ci metto anch’io – manca il vento dello spirito. L’umanità più sofferente viene sottoposta di giorno in giorno ad una grande oppressione dal mercato, dalla tecnologia e dalla deterrenza totale. E genera l’urgente esigenza di chiedere alla Chiesa e a tutti – a ciascuno di noi: laici, vescovi, preti, papi – un incessante ritorno alla missione di Gesù. «Sono tra voi come colui che serve».
Domenica 16 ottobre il testo evangelico recita proprio il «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Marco 12, 17). E siccome mi fanno commentare un minuto e mezzo il Vangelo alla televisione, alla fine ho ricordato che Gesù ha detto: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire» (Matteo 20, 28).
La domanda del Concilio fu in fondo: Chiesa di Cristo, che cosa dici di te stessa al mondo? Che cosa dici al mondo di Cristo, figlio di Dio morto e risorto, con il tuo modo di essere e di presentarti? Come potresti annunciare meglio, in qualunque parte della terra e in tutte le circostanze storiche, il Dio padre e madre, così come la madre di nostro Signore Gesù Cristo e il suo progetto d’amore?
Il pericolo più grave, per l’affermazione del Vangelo, non è costituito da quelli che lo combattono, ma da quelli che lo naturalizzano. Il pericolo più grave non è la persecuzione, ma la mondanizzazione. Duecento capi di Stato al funerale di papa Wojtyl´a. Io non ci sono andato per non trovarmi con degli assassini. E non voglio fare nomi. Vorrei citare piuttosto l’imperatore Teodosio che nel IV secolo viene cacciato via dal vescovo di Milano Ambrogio, dopo la notizia della strage di Tessalonica.
Chi è stato Gesù? Che cosa voleva davvero? Ha ancora senso ispirarsi al suo messaggio? E semmai, quale senso può ancora avere, a duemila anni dalla sua nascita, in un mondo così radicalmente diverso dal suo? Noi abbiamo gioito con il Concilio Vaticano II, che ha cercato di dare risposta a queste domande, indicando anche una traccia da seguire. Dov’è finito il suo messaggio? Dov’è finita la liberazione dei poveri? Entrambi sono stati rimossi dai nostri compromessi personali e collettivi. Sono d’accordo con quel grande vescovo brasiliano (monsignor Pedro Casaldiga – Mato Grosso), che aveva scritto sulla facciata della sua cattedrale: «Il mondo si divide fra oppressori e oppressi. Tu, cristiano, che stai per entrare, da che parte stai?».
MicroMega: Avete detto tutti che la stagione del Concilio invece che proseguire è stata bloccata, qualcuno ha detto addirittura che la Chiesa sta vivendo una restaurazione pre-conciliare. Tutto questo però è avvenuto sotto il pontificato di Karol Wojtyl´a, che per altro verso è il pontificato che viene considerato un momento straordinario, felice per la Chiesa. I funerali di Wojtyl´a hanno visto la partecipazione di capi di Stato, ma anche una partecipazione popolare che ha ritmato «Santo subito». In che misura questa restaurazione pre-conciliare è addebitabile al pontificato di Karol Wojtyl´a, o a quali suoi aspetti?
Albanesi: La storia di papa Wojtyl´a ci conferma quello che ciascuno di noi sa bene, ossia che solo il Signore è perfetto. Il papa aveva una grande visione e quindi anche un grande coraggio, nel senso che veniva da una storia personale ed episcopale molto drammatica e, una volta asceso al pontificato, ha espresso questa apertura al mondo, direi quasi all’universo, con fede profonda. E qui sta la sua santità.
Dall’altra parte, non bisogna dimenticare che proprio per la sua esperienza di una Chiesa perseguitata, ha concepito la Chiesa stessa in termini per così dire non conciliari. Si tratta naturalmente di un’affermazione forte. Ma la sua impostazione ecclesiale non era l’impostazione caratteristica della Chiesa d’Occidente, dove le opinioni, la teologia, le esperienze religiose, i movimenti e tutta una serie di elementi vivi e fecondi non possono essere paragonati alla solida compattezza di una minoranza perseguitata, qual era invece quella che il papa, come giovane prete e poi come vescovo, aveva vissuto in Polonia.
Questa esperienza, trasposta in Occidente, ha creato una sorta di duplicità. Da un lato, il papa si è occupato dei grandi scenari, dell’impatto del messaggio, del cristianesimo vissuto con convinzione, con forza e anche con capacità organizzativa. Dall’altro ha scontato il limite di una Chiesa concepita in termini pre-conciliari. Una Chiesa in cui i fedeli cristiani hanno sperimentato poche aperture, ad esempio da un punto di vista dottrinale.
Di Piazza: Mi trovo di nuovo in profonda sintonia. Anch’io, su papa Wojtyl´a, distinguerei per amor di sincerità due aspetti. Un grande leader, un grande comunicatore, un papa che su alcune questioni di fondo ha parlato in modo forte e a volte unico: penso al tema della pace, alla guerra in Iraq, ai diritti umani, anche alla richiesta di perdono per l’oppressione esercitata nei secoli dai cristiani, alle immagini così emblematiche delle visite ad Auschwitz, ai luoghi emblematici della schiavitù dei neri, nelle sinagoghe, nelle moschee, e infine al dialogo con le religioni. Pace, giustizia, dial
ogo, attenzione all’equilibrio dell’ecosistema hanno caratterizzato in profondità il suo pontificato.
Ma nello stesso tempo, come già diceva don Vinicio, provenendo da una situazione in cui il cattolicesimo costituiva una forte identità e per molti aspetti una difesa fondata sul continuo rafforzamento di tale identità sacralizzata, il papa ha portato con sé quest’esperienza peculiare. In fondo lo stesso coraggio che ha espresso su temi così forti come quelli a cui ho accennato, è equivalso, all’interno della Chiesa, alla conferma definitiva di questa identità forte, e per questo chiusa.
In questo senso, le grandi questioni già accennate sono rimaste per così dire in sospeso, dal discorso dell’identità attuale del prete all’obbligo del celibato, dal discorso sulla donna all’analisi della sessualità, dal discorso dottrinale a quello sul dialogo democratico all’interno della Chiesa. Così come il papa si è aperto con voce profetica sulle grandi questioni del mondo, all’interno della Chiesa c’è stato un irrisolto connubio tra chiusura e sacralità.
In fondo, il papa acclamato da milioni di giovani, il papa che ha sperimentato una così grande partecipazione agli eventi della storia – che lui stesso molto spesso ha suscitato – ci ha anche consegnato un papato drammatico e, paradossalmente, isolato… Le sue parole, spesso, non sono state ascoltate dagli stessi giovani che lo applaudivano e che quasi contemporaneamente smentivano il suo insegnamento. Soprattutto, non è stato ascoltato dai grandi della terra, né in vita, né in morte. Se dopo aver preso parte al funerale del papa, essi fossero ripartiti – Bush in primis – con propositi diversi, ad esempio rispetto alla guerra, certamente quella partecipazione sarebbe stata significativa. Ma poi, vedendo come sono andate le cose, mi pare che essa si sia rivelata puramente strumentale.
Fasullo: A me piace ricordare Giovanni Paolo II, anzitutto, come il papa della pace: il papa che seppe dire «mai» alla guerra, a cominciare da quella americana contro l’Iraq. È stato questo, forse, il motivo che ha spinto i giovani a raccogliersi sotto la sua finestra per l’ultimo saluto. Lo venero, poi, come il papa del perdono: il papa che ha insegnato alla Chiesa a chiedere perdono per i propri peccati. Infine, lo ricordo come il papa che si unì in preghiera ai rappresentanti delle religioni non cristiane; quindi, come il papa dell’incontro con le religioni.
Insieme a questi ricordi, però, mi sembra equo non dimenticare, con il rispetto che gli si deve, altre cose che appaiono poco apprezzabili e problematiche. Anzitutto, fece di tutto per ridurre la Chiesa alla sua persona, mentre la Chiesa è, ovviamente, ben più grande e ricca del papa. Questo significa che papa Wojtyl´a fece puntare sopra la sua persona tutte le luci della Chiesa. La quale è una pluralità di uomini e di donne tutti titolari di fede, di carità, di cultura, di sensibilità, di esperienze, di intelligenze e capacità, sogni e meriti che nessun papa può mai superare o anche solo eguagliare. La Chiesa è di Dio, disse Giovanni XXIII, non del papa.
Giovanni Paolo II ha dato poco spazio al Concilio. A differenza di Paolo VI, non ha dedicato mai, nei mercoledì, una catechesi agli insegnamenti del Concilio. Sebbene, sia all’inizio che alla fine del suo pontificato (nel testamento), abbia dedicato espressioni lusinghiere al Concilio, nella pratica non l’ha seguito. Non può essere ricordato come papa del Concilio.
Infine, non va dimenticato che tra le prime cose fatte da papa Wojtyl´a c’è stato l’imbavagliamento dei teologi, a cominciare dai teologi latinoamericani della liberazione. Li ha processati, condannati e privati delle cattedre uno per uno, a cominciare da quelli più noti e autorevoli. Come a dire: tacciano tutti, nella Chiesa parlo solo io. Anche per questo, oggi, sembra difficile pensare a un nuovo Concilio: con quali teologi si farebbe? Non ce ne sono più. Non scrivono, non parlano, forse vivono nelle catacombe. Il Concilio Vaticano II si servì, soprattutto, dei teologi francesi e tedeschi. Il prossimo Concilio di quali si dovrebbe giovare?
Possiamo solo sperare che col nuovo pontefice ci sia nella Chiesa un po’ di libertà e di serenità in più, cioè più possibilità di studio e di ricerca, di informazione e di parola. Perché la Chiesa, di cui tutti, ognuno per la funzione che svolge, portiamo una responsabilità, deve rappresentare la libertà della grazia, la benignità del perdono, la possibilità di ritrovarsi insieme per rappresentare che il regno di Dio è tra noi. E per servire in modo credibile la causa della pace. Speriamo che Benedetto XVI non deluda, per quanto dipende da lui, le attese evangeliche dell’umanità. Lo può fare riagganciando la Chiesa al Concilio. E, più ancora, al santo Vangelo.
Gallo: Sono certo che non tocchi a me giudicare il pontificato di papa Wojtyl´a, che certamente ebbe grandi luci, soprattutto nel 2003, con la Pacem in terris e l’impegno reale per riuscire a evitare questa follia della guerra in Iraq. Tuttavia vorrei aggiungere che in questo pontificato erano tutte significative le nuove nomine episcopali. Pensiamo ad esempio a come si è affievolito nei decenni il progetto della Conferenza episcopale panamericana, che era stata la vera e profonda interpretazione del Concilio, da Medellin (1968) a Puebla e a Santo Domingo, con tutti i vescovi ormai ospiti dei grandi alberghi.
Oggi le comunità di base sono completamente dimenticate e dileggiate. Ma sono «vive». Ho già citato la comunità dell’Isolotto e vorrei aggiungere la comunità San Paolo a Roma. Le comunità di base sono un fuoco ardente che si vorrebbe soffocare. Ma la coscienza di molti credenti continua a domandarsi che cosa sia diventata la Chiesa oggi. E spesso si chiede se la Chiesa non si sia ridotta, da mezzo per la realizzazione del Regno di Dio, a fine e scopo di se stessa, della sua propria azione.
C’è da rallegrarsi, in questa realtà pluralista, che ci sia ancora qualche libertà democratica, che si riesca ancora ad organizzare qualche convegno. Il mondo laico, tra cui la stessa rivista MicroMega, può aiutare molto – e talvolta lo fa, come in questa occasione – nel ridare spazio a chi lo ha perduto. Non vedo molte altre possibilità. Il quotidiano cattolico L’Avvenire, a tutte le nuove istanze, non concede una riga.
E certe volte mi vien da pensare che siamo sordi noi per primi. Tutti gli anni, infatti, le comunità di base ufficiali fanno un convegno. Perché non partecipiamo tutti? Ripartiamo dai primi responsabili, dall’Isolotto, San Paolo, Oregina qui a Genova, un piccolissimo gruppo.
Le comunità di base hanno intuito dal Concilio che il diritto degli oppressi è diventare soggetti della loro liberazione. E quando questo gli viene negato, nella misura in cui si contesta il loro diritto di conquistare la libertà attraverso la lotta, che cosa rimane loro? E come si coniuga questa oppressione strutturale e mondiale con il grande discorso della non violenza?
Una preoccupazione riguarda anche gli ultimi documenti dei vertici ecclesiastici. Ricordiamoci sempre dell’invito di quel grande pedagogo che fu Paulo Freire: non ci si libera da soli, nei nostri piccoli spazi, nel silenzio. Io amo molto la preghiera, ma ciascuno di noi non libera l’altro, al contrario di quanto sostengono alcuni intellettuali, se non ci si libera tutti insieme. Per i c
redenti, rispondendo alla vocazione cristiana.
Vorrei menzionare infine lo sgomento di numerosissimi giovani dinnanzi al rifiuto incondizionato del marxismo da parte della Chiesa. Il che mi sembra una mediocre perdita di tempo e in quest’ottica un logico sviluppo del rifiuto della secolarizzazione, virtualmente contenuto nel Sillabo di Pio IX, del quale, a quarant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II, viene riaffermata in qualche modo l’attualità. Questo, caro don Antonelli, ci dà la misura di come stiamo procedendo confusamente.
In una parola, l’autonomia della ragione e della sfera profana, proclamata soltanto a livello formale, viene costantemente negata e svilita nella sua sostanza. Per i cristiani la parola di Gesù è unica: «In questa terra che lotta, siate luce, sale, lievito, chicco di grano che marcisce e dà frutto».
In questi giorni, nella grande bacheca che abbiamo in comunità, ho trovato scritto: «Il male grida forte». Però, dopo qualche giorno – e questa è la mia conclusione – ho trovato una frase splendida: «La speranza grida ancora più forte».
a cura di Adriano Ardovino
(22 maggio 2013)
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