“Fermare l’occupazione per salvare Israele”
Fulvio Scaglione
intervista a Daniel Bar Tal
Donald Trump che respinge la soluzione “a due Stati”. Benjamin “Bibi” Netanyahu che lo ha fatto da tempo. La Knesset che approva, con effetto retroattivo, la “regolarizzazione” delle terre sottratte ai palestinesi e su cui sono stati costruiti gli insediamenti illegali. Le “colonie” in cui ormai vivono più di 600 mila israeliani, il 9% della popolazione totale dello Stato ebraico. In queste condizioni, quella di SISO pare una missione impossibile. Perché SISO, piattaforma politica nata in Israele meno di due anni fa, sta per “Save Israel Stop Occupation” (Salviamo Israele, fermiamo l’occupazione) e si propone appunto di rovesciare una realtà che si è lentamente ma inesorabilmente consolidata e che tra qualche mese, il 5 giugno, anniversario dello scoppio della Guerra dei Sei Giorni del 1967, compirà addirittura cinquant’anni.
“È vero, è difficile far mutare parere alla gente”, dice il professor Daniel Bar Tal: “Difficilissimo, poi, convincere gli israeliani che un’alternativa all’occupazione esiste e che, anzi, la pace dipende dalla fine dell’occupazione. Però non è impossibile. La gente cambia. Basta guardare ai casi degli ex primi ministri Ehud Olmert e Tsipi Livni: vengono dagli ambienti della destra ma ora anche loro sono convinti che l’occupazione sia un disastro per Israele”.
Daniel Bar Tal è uno psicologo sociale, con una lunga esperienza di accademico sia negli Usa sia presso l’Università di Tel Aviv. Sono stati proprio gli studi a portarlo all’intervento politico. Bar Tal, infatti, ha scritto decine di articoli scientifici sulla psicologia della guerra e delle occupazioni e, con il collega Izhak Schnell, ha pubblicato un libro fondamentale sul tema: “The Impacts of Lasting Occupation” (“Gli effetti di un’occupazione di lunga durata”, Oxford University Press). Da qui a fondare SISO il passo in fondo è stato breve.
“Noi siamo convinti”, spiega, “che un’occupazione prolungata nel tempo generi un sistema politico, sociale, militare, economico e sociale che colpisce sia chi viene occupato sia chi esercita l’occupazione. Le conseguenze per i palestinesi sono note: privazione di molti diritti civili, umiliazione economica, perdita di beni e proprietà…”.
E per Israele?
“Ciò che noi temiamo sopra ogni cosa è questa: la scomparsa del carattere democratico dello Stato. La pretesa di controllare con la forza 2 milioni di palestinesi che non sono cittadini di Israele cambia la natura dello Stato. Molti Paesi hanno milioni di residenti che non hanno la cittadinanza. Ma queste persone, negli Usa come in Svizzera, non sono state conquistate con campagne militari, hanno scelto loro di integrarsi in un altro Paese. I palestinesi no. Anzi: loro aspirano ad avere uno Stato proprio. E se a quei 2 milioni aggiungiamo i palestinesi che sono cittadini di Israele, arriviamo alla pretesa di controllare circa metà della popolazione che vive tra il Mediterraneo e il Giordano. L’unico sbocco possibile di una simile pretesa è un regime che pratica l’apartheid. E poi c’è l’aspetto economico”.
Cioè?
“Secondo le stime più credibili, Israele spende tra i 7 e gli 8 miliardi l’anno per sussidiare gli insediamenti. Spese che continuano a crescere, hanno un impatto importante sulla crescita del Paese, portano alla riduzione dei servizi sociali e aumentano il divario tra ricchi e poveri. È il germe della disgregazione sociale”.
Se tutto questo è vero, perché è così difficile far cambiare idea agli israeliani?
“È vero, la maggioranza dei cittadini di Israele la pensa proprio come Netanyahu, in proposito. Il che è anche buffo, da un certo punto di vista. Qualunque sondaggio riguardi la corruzione o anche solo l’affidabilità personale, mostra che la gente giudica Netanyahu un tipo pronto a mentire. Ma quando si parla di sicurezza, quasi tutti gli vanno dietro. Il problema è che ormai due generazioni sono cresciute con l’occupazione in vigore e da molti anni, ormai, il Governo si serve del sistema scolastico e di molti mass-media per diffondere una narrazione basata su due pilastri: il primo è stato trasformare gli insediamenti nella culla del radicamento ebraico in questa terra e nel cuore dell’identità nazionale; il secondo, sfruttare la memoria della Shoah per tenere vive le più angoscianti paure degli ebrei, farli sentire comunque vittime e così disumanizzare il nemico palestinese, che non ha diritti né ragioni ma è solo il nuovo sterminatore del popolo ebraico. Tutto questo, in ultima analisi, serve a nobilitare l’occupazione, che da atto di forza diventa atto di difesa. La gran parte degli israeliani, oggi, rifiuta la parola “occupazione” o addirittura non la capisce. D’altra parte, in quasi tutti i libri di testo delle scuole nazionali la Linea Verde (la linea di demarcazione fissata nel 1949 dopo l’armistizio tra Israele e gli Stati arabi. Ha fatto funzione di confine de facto fino alla guerra dei Sei Giorni del 1967, n.d.r) non viene nemmeno menzionata e sulla carte geografiche non è segnata, proprio per non ammettere che c’è una occupazione e doverla spiegare. Quindi…”.
In meno di due anni, SISO ha già ottenuto qualche risultato. Un “appello agli ebrei di tutto il mondo” contro l’occupazione ha ottenuto più di 500 firme tra intellettuali, accademici, uomini politici e diplomatici di chiarissima fama. Tra loro gli scrittori Amos Oz e David Grossman, ex ambasciatori e dirigenti del ministero degli Esteri come Elie Barnavi, Colette Avital e Ilan Baruch, storici come Zeev Sternhell, un illustre accademico come Avishai Margalit e tante altre personalità. Ora, in vista dei cinquant’anni dalla Guerra dei Sei Giorni, SISO prepara altre iniziative. Per esempio, per il giorno 5, quando la guerra prese il via, è prevista una specie di catena umana lungo tratti della Linea Verde, proprio per ricordare agli israeliani e al mondo che è esistita e che per molti milioni di persone ha ancora un significato.
Daniel Bar Tal si è fatto ambasciatore di questa campagna presso le comunità ebraiche della diaspora. Ammette però che la mobilitazione è difficoltosa. “Anche gli ebrei liberal americani hanno problemi a muoversi”, confessa: “Le reazioni sono positive ma prendere posizione diventa un problema: Israele è percepito come esposto a costanti pericoli e criticare lo status quo viene facilmente fatto passare come un mezzo tradimento della patria”.
Non giovano alla causa neppure alcuni fraintendimenti spesso fatti circolare ad arte. “A parte forse l’intento complessivo, che è di far finire l’occupazione, SISO non ha nulla in comune con la campagna BDS-Boycott Divestment Sanctions. Nella BDS sono in gioco molti elementi diversi, tra i quali anche il rancore e addirittura l’odio verso Israele. Noi, al contrario, amiamo Israele. È per il bene del suo popolo che cerchiamo di fargli cambiare
strada”.
(23 febbraio 2017)
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