Fernando Birri: La rivoluzione nella rivoluzione del nuovo cinema latinoamericano
Fernando Birri
Ricordiamo il grande regista argentino Fernando Birri, scomparso all’età di 92 anni, ripubblicando questo testo del 1968 in cui ci guida alla scoperta del cinema latinoamericano di quegli anni, che si rifaceva al ‘realismo critico’ – in antitesi al dogmatismo sovietico e alla cultura occidentale – e aveva come punti di riferimento Lukács e Brecht: “Quando i popoli gridano o cantano il loro anelito di liberazione, di cosa deve parlare il cinema? Deve gridare o cantare con essi o, al contrario, tacere?”.
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Madres de mayo/ madres de rayo/ madres de mayo/ ojos de rayo/ madres de mayo/ lenguas de rayo/ madres de mayo/ pañuelos blancos/ carteles blancos/ pañuelos blancos/ celeste llanto/ celeste llanto/ que no pañuelos:/ blancas banderas/ y que no llanto:/ dura memoria/ contra el espanto/ luz en las sombras/ negras del Malo/ luz que interroga/ desde un retrato/ desde un retrato/ donde la patria/ es joven, sana/ limpia y hermosa/ como las rosas/ silvestres/ como/ nosotros,/ vos y yo,/ che,/ la soñamos/ soñando/ soles de mayo/ soles sin amo/ cielos de mayo/ cielos sin amo/ nubes de mayo/ nubes sin amo/ vientos de mayo/ vientos sin amo/ laurel de mayo/ y el gorro rojo/ de la república/ entre dos manos/ entrelazadas/ enamoradas/ sin amo/ hijos de mayo/ hijos sin amo/ madres de hijos/ de hijos de mayo/ blancas abuelas/ de azules mayos/ de azules nietos/ nietos sin amo/ madres y abuelas/ de azulcelestes/ y blancos rayos.
Madri di raggio/ madri di maggio/ mani di raggio/ madri di maggio/ occhi di raggio/ madri di maggio/ lingue di raggio/ madri di maggio/ fazzoletti bianchi/ cartelli bianchi/ fazzoletti bianchi/ azzurro pianto/ azzurro pianto/ niente fazzoletti:/ bianche bandiere/ e niente pianto:/ dura memoria/ contro il terrore/ luce nelle ombre/ nere del Maligno/ luce che interroga/ da un ritratto/ da un ritratto/ dove la patria/ è giovane, sana/ pulita e meravigliosa/ come una rosa/ silvestre/ come/ noi,/ tu e io,/ la sogniamo/ sognando/ soli di maggio/ soli senza padrone/ cieli di maggio/ cieli senza padrone/ nubi di maggio/ nubi senza padrone/ venti di maggio/ venti senza padrone/ alloro di maggio/ e il berretto rosso/ della repubblica/ tra due mani/ intrecciate/ innamorate/ senza padrone/ figli di maggio/ figli senza padrone/ madri di figli/ di figli di maggio/ bianche nonne/ di azzurri maggi/ di azzurri nipoti/ nipoti senza padrone/ madri e nonne/ di blu-azzurri/ e bianchi raggi 1.
Vivere «al passo coi tempi» è vivere un giorno in ritardo, avvertiva il mio amico Castagnino, pittore di pampas e scheletri di cavalli. Questa sua considerazione mi balza addosso quando considero l’attuale «aggiornamento» – o la «scoperta» – del nuovo cinema latinoamericano, in ritardo di quasi un decennio da una prospettiva internazionale. In Europa, salvo eccezioni di spicco (Parigi, il Columbianum, Luigi Chiarini, la Mostra del Cinema Nuovo di Pesaro), il precedente atteggiamento di disprezzo subliminale è stato sostituito da una semplice ignoranza. Come riscatto, come contropartita, non è infrequente osservare negli ultimi tempi un atteggiamento – non meno a-culturale e non meno offensivo per l’intellettuale latinoamericano – consistente in una specie di «paternalismo esclamativo», come quando il bianco col casco si gira verso il negretto che porta sulla testa un fagotto e, con falsa familiarità, gli dà del «tu» mentre il negretto, come nell’ordine «naturale» delle cose, gli risponderà dandogli del «lei». Questo ricorda, per associazione d’idee, il passaggio di Barthes in Miti d’oggi che vede Gide assorto nella lettura di Bousset mentre discende il corso del Congo; fa pensare anche all’idea che la borghesia si fa dei propri scrittori attraverso la mistificazione della grande stampa che cerca di convincere i lettori (spettatori) borghesi (ma potremmo anche dire «di autoconvincersi») del fatto che sia possibile stare al passo coi tempi… se ci si sa adattare a una realtà «moderna». Detto in altre parole, l’accettazione di una situazione culturale che contraddice i propri interessi (nel nostro caso specifico il nuovo cinema latinoamericano, il cinema del sottosviluppo, l’estetica della fame, l’etica della violenza, in opposizione al cinema di consumo neocapitalista) non è altro che un modo, il più astuto, di integrarla.
Non ricordo chi, riguardo non ricordo cosa, diceva che un illustre critico francese di Le Monde, di cui pure non ricordo il nome, fosse diventato una specie di «divo» del Nuovo cinema brasiliano. Tornando a Barthes, si potrebbe riportare anche questa citazione: «Ma sarebbe uno sbaglio voler considerare questo uno sforzo di demistificazione. Si tratta esattamente del contrario». Un esempio illustrativo: Tierra en trance – l’ultimo film di Glauber Rocha, in cui generazioni d’intellettuali americani si sono rispecchiati nelle ansie e nelle contraddizioni del protagonista – è stato rinnegato o non compreso da buona parte degli intellettuali francesi e italiani.
Flashback: il penultimo film di Glauber Rocha, Dios y el diablo en la tierra del sol, aveva trovato invece un’accettazione unanime, entusiasta, acritica. Film potente, contaminazione epico-lirica, con esso si infrangeva la barriera dell’indifferenza nei confronti del cinema latinoamericano. Ma con esso, e con i suoi santoni e cangaceiros, ancora intrisi – soprattutto agli occhi incuriositi degli europei – di oleografia romantico-esotica, si codificava – o meglio, si «mistificava» – anche un’immagine che Glauber stesso sarebbe stato in parte incapace di sfatare col suo ultimo film, a mio avviso più importante del precedente. Perché questa impotenza? Non certamente impotenza di Glauber (come neppure di Sarraceni in O desafío, rifiutato a Pesaro due anni fa), bensì di un certo settore della critica intellettuale europea che, sotto pretesto di una libera operazione formale, si aspetta e pretende da parte del cinema latinoamericano un engagement che invece rifiuta nel cinema europeo. Un engagement manicheo così dannoso che quando la problematica agricolo-rurale viene sostituita da quella urbana (come nel caso di Tierra in trance o in El desafío) ciò viene considerato come un’invasione della proprietà privata del ghetto intellettuale europeo (incomunicabilità e altre famas e cronopios 2) 3.
Le cose non vanno granché meglio per quanto riguarda la comprensione del nuovo cinema latinoamericano nei paesi socialisti. Naturalmente in questo caso i fatti e i loro significati risentono di una diversa interpretazione. Mi torna in mente un episodio che non dimenticherò mai: dopo un mio intervento sul «Cinema libero» in America Latina (ero a Pesaro, nel ’64, da poco di nuovo in esilio in Italia), il mio caro amico Mino Argentieri proferì questo rimprovero nell’orinatoio del cinema di Pesaro: «Ma questo Birri vuole mettere bombe dappertutto!». Non dimenticherò mai nemmeno lo sguardo sospettoso e post-stalinista di alcuni critici cecoslovacchi (parlo della generazione precedente a quella dei giovani del nuovo cinema coi quali non ci sono mai stati problemi di interpretazione o equivoci)
quando, a conclusione di una conferenza che tenni nella Scuola di cinema di Praga sul cinema del sottosviluppo, affermai che il cinema che non aiuta a passare dalla sotto-vita alla vita, dalla sub-felicità alla felicità, insomma, dal sub-stomaco allo stomaco, si rende complice di tale situazione ed è sotto-cinema. Oggi mi rendo conto che quell’affermazione, che a partire dalla mia Weltanschauung ritenevo evidente, sia potuta apparire «chiusa» (se non dogmatica o settaria), dato che le orecchie che la ascoltavano erano state chiuse da anni di dogmatismo e settarismo, o per lo meno così si era cercato di fare. Evidente… ma non molto. Il nostro nuovo cinema latinoamericano si colloca «al di là dell’espressione». Non esclude l’«artisticità», bensì la sottintende, dandola per superata nella sua formulazione tradizionale. Era necessario spiegare che, in quanto nuova generazione cinematografica, pervenivamo a un’arte «strumentale», «didattica», come vuole oggi Rossellini-TV facendo ritorno da un’arte gratuitamente «espressiva»? (Sarebbe opportuno spiegare, ma non c’è tempo, come l’intelligencjia che ci aveva preceduti, di origine latifondista-militare, abbia sempre cercato di «esprimersi» nei saloni e nelle alte sfere in francese).
Sempre a Praga, nel 1964, con una segretezza non priva di esaltazione, ci presero per mano e ci portarono a Drackhany. Attraverso un grande portone semiaperto arrivammo di fronte a una piccola, scura, austera scrivania sulla quale era posato un vaso con una rosa viva: era la scrivania di Kafka. Circondata di fotografie, lettere di Max Brod e a Max Brod e altri documenti, si trovava la prima mostra ufficiale a lui dedicata. Come spiegare ai praghesi, in casa loro, che vent’anni prima, in edizioni argentine, la nostra adolescenza era stata dolcemente tormentata dall’amicizia con Kafka, fino al punto di arrivare a romperla, a liberarci di essa come di una droga paralizzante? (Naturalmente, di fronte alla persistente sfiducia dei burocrati della cultura – o parallelamente ad essa, direi, e contro di essa – il nuovo cinema cecoslovacco resuscitava Kafka come un golem trasparente e Pavel Jurácˇek gli dedicava un cortometraggio di grigia atmosfera kafkiana). E che dire dell’Urss, da dove sono appena rientrato (da Repino per la precisione, vicino a Leningrado), abbracciando la sua cintura scura di amore e resistenza, come canterebbe Neruda, dove eravamo stati invitati per un convegno su «L’arte cinematografica e la rivoluzione d’Ottobre»? Di cosa si sarebbe discusso, di cosa si discuteva ancora, a cinquant’anni dal giro di boa che cambiò il mondo? Del nuovo realismo marxiano (di Marx, dei Marx Brothers, di Marte) lunare e interplanetario? No signori, i nostri cari compagni sovietici stavano ancora cercando di definire il realismo socialista. (Naturalmente, di fronte alla persistente sfiducia dei burocrati della cultura, Tarkovskij lotta per concludere il suo Rublëv e le minoranze nazionali si fanno largo con film dal rinnovato e lirico linguaggio, come Tenerezza di Ishmukhamedov, uzbeko, soprattutto nel suo primo episodio).
Dopo il mio periplo degli ultimi anni, che va dall’Avana a Mosca e da Praga a Pechino, dopo aver verificato l’eredità culturale del «realismo socialista», mi è meno facile spiegare, o ribadire, che il nuovo cinema latinoamericano perviene a quell’«arte didattica» alla quale si è fatta precedentemente allusione per rifiuto e non per una non conoscenza di un’arte «espressiva» (e qui si prega il lettore di dare alle virgolette tutta la carica di risalto e ironia che implicano). Per sollecitazione, imposizione, coscienza del nostro sottosviluppo: che è socio-economico ma non necessariamente, come per un determinismo meccanico, un sottosviluppo intellettuale. È scontato sottolineare che l’estetica del nuovo cinema latinoamericano era quella del «realismo critico» e che i nostri punti di riferimento erano Lucács e Brecht? È scontato ricordare che la maturazione dell’avanguardia intellettuale contemporanea dell’America Latina avvenne con un passaggio dal modernismo al lettrismo, attraverso il surrealismo, il dadaismo, il creazionismo? Che la nostra gioventù fu dissezionata da Joyce, ferita da Rilke, turbata da Lautréamont, illuminata da Whitman? Che il nostro abc cinematografico lo sillabiamo con Il gabinetto del Dottor Caligari, Entr’acte, Quarto potere? La comprensione del nuovo cinema latinoamericano è stata ostacolata fino ad ora nei paesi socialisti – come è successo col film del cubano Julio García Espinosa, Le avventure di Juan Quinquín, nell’ultimo Festival di Mosca – perché il punto di vista dei suoi pubblici e di alcuni dei suoi critici – e soprattutto dei burocrati-distributori della cultura – è stato fissato a partire da un programmatico «realismo socialista» (certamente non quello di Gorki, né quello di Lu-Shin) che, di fatto, si colloca «al di là dell’espressione».
Degli Stati Uniti meglio tacere. Salvo alcune eccezioni, come le proiezioni organizzate da Adrienne Mancia al Museum of Modern Art di New York o altre iniziative minoritarie di rottura, il cinema latinoamericano che si vede negli States è sinonimo di carne in lattina per la catena di cinema pornografici semidestinati agli spettatori «di colore» di lingua spagnola (la catena del Pacifico per portoricani, spettatori che, nella scala dello status della democrazia nordamericana, stanno al di sotto degli spazzini, gli ultimi esseri umani o quasi, secondo la graduatoria divulgata da Vance Packard in The Status Seeker).
La comprensione del nuovo cinema latinoamericano implica anche una ridefinizione dall’interno del cinema latinoamericano stesso. Abbiamo lottato per anni per la formazione di un fronte unito, latinoamericano, dove le nuove cinematografie nazionali potessero trovare un punto di comune appoggio per rimuovere gli scheletri di dinosauri e le torri di perforazione che ostacolano il suo percorso. Quei punti d’incontro esistono: si chiamano anti-neocolonialismo, anti-oligarchie nazionaliste, anti-imperialismo. Quel fronte comune e progressista è già un dato di fatto, esiste ancora nelle coscienze dei nuovi cineasti latinoamericani (cosa che solo fino dieci anni fa non avveniva) e, cosa ancor più importante, comincia a esistere nella pratica: un’organizzazione di distribuzione ed esibizione su scala latinoamericana è stata messa in moto. Avendo raggiunto quell’obiettivo, un’infrastruttura economica sottosviluppata o in via di sviluppo, e trattandosi di un dato oggettivo che ci condiziona e riunisce, è arrivato il momento di stabilire le differenze a livello di formazione storica tra nazione e nazione. Fare di tutte le erbe un fascio è una semplificazione che non è di nessun aiuto. Si veda, altrimenti, quella specie di Torre di Babele, per metà capanna e per metà grattacielo, coabitata da «indigenisti» ed «europeisti», da «tellurici» e «apolidi» che fu l’ultimo Columbianum di Genova, nel 1965, dove – come giustamente osservava Ernesto Sábato – nonostante lo spagnolo (approssimativo) dominante, la divergenza di «linguaggi mentali» testimoniava la ricchezza di una fauna e di una flora intellettuale che rispecchiava i diversi strati geologici di un Terzo Mondo che è al contempo molti mondi e la cui sovrastruttura socio-culturale-semantica oscilla tra
l’infra-sviluppo subumano e il benessere mitologico. Una necessità di calarci nel profondo della nostra diversità, a partire da una comunità ideo-economica e giustamente di dare risposte realiste alle domande che la nostra realtà ci impone, problematizzando noi stessi, per non cadere ancora una volta nell’errore, già commesso dalle generazioni precedenti tra «il paese visibile» e «il paese invisibile» (si veda la serie di putsch di presidenti-marionetta, di gorilla King-Kong, che disfano il Grand Guignol politico dell’America Latina, proprio per quella mancanza di corrispondenza tra realtà e risposta). Un messaggio d’allerta per una verifica di precedenti analisi e conclusioni.
Detto ciò e tornando al cinema, credo che questo sia uno dei nuovi compiti che ci vengono imposti, che dobbiamo imporci. Tutte le schematizzazioni chiariscono ma al contempo semplificano, correndo il rischio di essere troppo semplicistiche e, soprattutto, non corrispondono oggettivamente alla realtà. Così, una giusta valutazione del Cinema Nuovo brasiliano – che ritengo la punta di lancia del cinema rivoluzionario internazionale e non solo latinoamericano (sia a livello politico che stilistico) – non è incompatibile con l’analisi di un momento all’interno dell’evoluzione del cinema rivoluzionario cubano; un momento già superato, di ricerche formali quasi completamente svuotate d’impegno ideologico. Non è neppure incompatibile col riconoscere che – nonostante l’attuale involuzione del Cinema Nuovo argentino e il suo carattere predominantemente «espressivo» – fu in Argentina che, nel 1956, sei anni prima della nascita riconosciuta del Cinema Nôvo brasiliano 4, nacque la prima scuola documentaristico-critica dell’America Latina con prospettiva latinoamericana. Credo che sia venuto il momento perché la passione – violenta – del nuovo cinema latinoamericano venga messa a fuoco, è quello che stiamo facendo, rivoluzione nella rivoluzione. Didascalia: passione nitida 5.
Lo abbiamo già detto e lo ripetiamo con le stesse parole: «Certo, il Cinema Nuovo latinoamericano non è esente da rischi. Però, in quei rischi e in quelle autentiche minacce – che non possiamo e non vogliamo nascondere – si trova implicita la possibilità di futuro del Nuovo Cinema. In realtà, quelle stesse tensioni sono quelle che impediscono un’“integrazione” o un “adeguamento”, non cercato, dell’atteggiamento soggettivo degli autori del Cinema Nuovo, che del resto è anche un non meno decisivo termine della dialettica storica, non accettato oggettivamente dalle strutture politiche, economiche e culturali “ufficiali”. Soltanto da questa contraddizione trarrà forza e soltanto in questa contraddizione potrà vivere il nuovo cinema latinoamericano. Significa che il suo destino è suicida? Al contrario. Significa che si tratta di una vera e reale Resistenza, una Lunga Marcia, una Sierra Maestra. Saranno le circostanze politico-strutturali nazionali e internazionali a determinare le tattiche culturali ed economiche da seguire, a seconda dei momenti e dei paesi: dal cinema d’aggressione alla favola esopica, dall’«infiltrazione» nelle formule industriali al ripiego nel cinema clandestino. Senza esclusione di colpi, lungo il fronte latinoamericano di questa «“guerra di guerriglie” cinematografica».*
(traduzione di Francesca Mometti)
NOTE
1 Letta per la prima volta in pubblico in apertura della Giornata internazionale della donna dedicata alle madri e alle nonne di Plaza de Mayo (Galleria La Gradiva, Roma, 8 marzo 1983).
2 Riferimento ai personaggi di fantasia nell’opera surrealista di Julio Cortázar, Historia de cronopios y de famas (tr. it. Storie di cronopios e di famas, Einaudi, Torino 2010), in cui i famas rappresentavano la borghesia argentina degli anni Cinquanta-Sessanta e i cronopios la classe media (n.d.t.) .
3 Per la cronaca statistica: la popolosità di città come Buenos Aires e San Paolo – l’una con sei milioni d’abitanti, l’altra con quattro – esaspera e ripropone le contraddizioni di una tipica città «sviluppata».
4 Alex Viany (Brasile): «1962, Anno 1 del Cinéma Nôvo brasiliano».
5 Reich sostiene che «l’ideologia sessuale è la più profondamente ancorata di tutte le ideologie conservatrici». Credo che la cinematografia sia la seconda.
* Pubblicato originariamente su Cine Cubano, n. 49-51, 1968.
(28 dicembre 2017)
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