Filosofia e virus: le farneticazioni di Giorgio Agamben
Paolo Flores d’Arcais
In questi tempi amarissimi di corona virus può venire in soccorso la filosofia, che essendo per definizione “amore della sapienza”, cioè di sapere e saggezza, ci aiuta a capire il più possibile e a re-agire nel modo più consono e salutare (al corpo e all’anima, che sono poi la stessa cosa: “And if the body were not the soul, what is the soul?”, Walt Withman). Potrebbe (e dovrebbe). Ma quanti sono i filosofi che amano davvero il sapere/saggezza e lo coltivano, anziché preferire lo spaccio di superstizioni e/o ruminazioni teologiche, prediligere funambolismi spirituali e/o esorcismi antiscientifici, crogiolarsi e/o grufolare in mediocri deliri di narcisismo?
Leggiamo le perle di anti-sapere/saggezza distillate qualche giorno fa (11 marzo) da un filosofo di rinomata audience internazionale, che si porta molto, massime nel mondo accademico statunitense, saturo di post (post-heideggeriano, post-foucaultiano, post-derridiano, post-post), ma non solo: Giorgio Agamben.
Il titolo del suo breve ma densissimo testo è “Contagio” e da esergo/sottotitolo sta mezza riga dei “Promessi sposi” di Manzoni: “L’untore! dagli! dagli! dagli all’untore!”.
La tesi del filosofo post è che in Italia abbiamo una “cosiddetta epidemia del corona virus”, da cui segue ingiustificato “panico”, del quale “una delle conseguenze più disumane” consiste nel diffondersi della “stessa idea di contagio”. Il problema non è il contagio, insomma, che non c’è (Agamben aveva già proclamato l’epidemia come invenzione il 26 febbraio) ma che se ne diffonda l’idea. Idea che al filosofo post sembra più o meno abominevole, in quanto “era estranea alla medicina ippocratica” e trova “il suo primo inconsapevole precursore durante le pestilenze che fra il 1500 e il 1600 devastano alcune città italiane”. Del resto due settimane prima aveva scritto contro le “frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona”.
A dimostrazione che non esiste il contagio, ma sola la diffusione (il contagio!) della sua idea, visto che l’epidemia è “supposta” ma in realtà sono “i media e le autorità” che “si adoperano per diffondere un clima di panico”, il filosofo post trascrive dal Manzoni la “grida” del 1576 del governatore di Milano:
“Essendo venuto a notizia del governatore che alcune persone con fioco zelo di carità e per mettere terrore e spavento al popolo ed agli abitatori di questa città di Milano, e per eccitarli a qualche tumulto, vanno ungendo con onti, che dicono pestiferi e contagiosi, le porte e i catenacci delle case e le cantonate delle contrade di detta città e altri luoghi dello Stato, sotto pretesto di portare la peste al privato ed al pubblico, dal che risultano molti inconvenienti, e non poca alterazione tra le genti, maggiormente a quei che facilmente si persuadono a credere tali cose, si fa intendere per parte sua a ciascuna persona di qual si voglia qualità, stato, grado e conditione, che nel termine di quaranta giorni metterà in chiaro la persona o persone ch’hanno favorito, aiutato, o saputo di tale insolenza, se gli daranno cinquecento scuti…”.
Il buon Manzoni mai avrebbe immaginato che il suo romanzo sarebbe stato letto al contrario di quanto voleva dire, fino all’improntitudine più estrema. Questo testo è attualissimo, infatti, non già perché Manzoni stigmatizzandolo neghi l’idea del contagio (che era realissimo e anzi sarà moltiplicato dalle processioni volute dal cardinal Borromeo) bensì all’opposto, perchè Manzoni fustiga innanzitutto le autorità che troppo a lungo preferiscono ignorare il contagio. Perché il governatore Ambrogio Spinola ritiene più urgenti le esigenze della guerra in corso e rifiuta le misure proposte dalle autorità sanitarie, e perché una volta riconosciuto che la peste c’è e si diffonde (per contagio!), nell’ignoranza e superstizione dell’epoca se ne fa carico agli “untori” anziché agli invisibili e allora sconosciuti agenti patogeni. Ci si inventa una causa, la punizione di Dio per i peccati, i malvagi “con fioco zelo di carità” che vanno ungendo (del resto, per l’attuale contagio di corona virus, la colpa è del governo che vuole creare “un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo” per poter procedere con la sua libido di “stato d’eccezione”, sostiene Agamben, visto che il contagio non c’è ma solo l’abominevole idea del contagio).
Che contro le epidemie la prima misura da prendere fossero isolamento e quarantene, tuttavia, era stato capito anche prima che si immaginasse cosa fossero virus e batteri, tant’è che Boccaccio ambienta il suo Decamerone proprio nell’autoisolamento in una villa fiesolana di tre giovani e sette giovinette (e relative servitù) di privilegiate sostanze.
Insomma, c’è il contagio, che non è un’idea criminalmente inventata da media e governo per poter “militarizzare” zone del paese, ma non ci sono gli untori, proprio perché ciascuno di noi può essere veicolo del virus, dunque del contagio, e l’unico modo per combattere il realissimo contagio e contrastare la pandemia sono le misure di isolamento e le quarantene, mentre i laboratori lavorano a trovare medicinali efficaci e un vaccino.
Ma il filosofo post post ne trae la “morale” opposta (del resto per lui l’epidemia è “cosiddetta”, gonzo chi se la beve, serve al governo per imporre “eccezionali misure di emergenza”). Non è l’esistenza del virus, e le modalità della sua trasmissione, che rendono ogni persona un potenziale moltiplicatore del contagio se continua nella sua vita normale, di modo che per evitare di diventare involontari “untori” è necessario attenersi alle misure più scrupolose che limitino la circolazione del virus. No, non è così. Sono invece proprio “le recenti disposizioni” che “trasformano di fatto ogni individuo in un potenziale untore”. Sono cioè le limitazioni che il governo pone alla diffusione del virus (all’involontaria trasformazione di ciascuno di noi in “untore”) che secondo il filosofo post ci costringono a vivere l’un l’altro come potenziali untori. Ai manuali di logica, nel capitolo dedicato alle “fallacie”, sarà d’uopo aggiungere una nuova fattispecie: la fallacia dell’untore, o fallaciagamben.
Il governo, agendo per limitare il contagio (che però sappiamo non esiste, poiché non era contemplato nella medicina ippocratica, benché anche Atene abbia avuto la sua peste e di contagio morì il suo cittadino più illustre) è dunque colpevole della “degenerazione dei rapporti fra gli uomini”. E infatti con tali misure “l’altro uomo, chiunque egli sia, anche una persona cara, non dev’essere né avvicinato né toccato”, segue salace ironia sui metri di distanza che le profilassi propongono. Al filosofo post non viene neppure il sospetto che non toccare la persona cara per qualche settimana sia la rinuncia (molto dolorosa, moltissimo) per poterla poi toccare ancora per anni e anni, anziché dover andare a toccare solo la sua tomba. E che proprio in questa rinuncia consista “amare il prossimo”, “prossimo” che invece stante il filosofo post il
governo col suo decreto ha “abolito”. Del resto il governo sta diffondendo il panico per poter chiudere “una buona volta le università e le scuole”, dove evidentemente il filosofo post immagina che si insegni ancora la santa medicina ippocratica anziché quella che, dal tempo di cattivi maestri tipo Pasteur e Koch, si incaponisce a indagare le diverse forme di contagio e i suoi agenti patogeni.
In realtà queste misure il governo le ha inizialmente subite, piegandosi alle sempre più pressanti insistenze degli scienziati. Ci siamo trovati di fronte a un caso rarissimo di eterogenesi dei fini virtuosa: proprio una politica screditata ha dovuto arrendersi alle richieste di misure radicali anti-contagio che venivano dal mondo scientifico medico, non avendo autorevolezza per scegliere diversamente. Perciò se ha ragione il filosofo post, che si tratti di potere che vuole terrorizzarci, a complottare non è il governo ma i medici, insomma il complotto dei camici bianchi nemici del popolo, già Stalin ne aveva denunciato uno.
Complotto, il contagio? Complotto di folli masochisti, allora, visto che medici e infermieri sono i più esposti, i più “in trincea”, quelli che più di ogni altro subiscono il peso materiale e psicologico di questi giorni amarissimi e pagano un prezzo talvolta al limite dell’eroismo.
Il filosofo post può comunque già vantare alcuni adepti non da poco alle sue farneticazioni, ad esempio l’ex bellezza Carla Bruni in Sarkozy, che ha voluto svaccare in pubblico con baci plateali e messa in scena di un finto soffocamento, perché “non abbiamo paura di niente, non siamo femministe e non abbiamo paura del Coronavirus, nada!”. Anche per il filosofo post quella del contagio è tutta una manfrina, messa in atto dalla “tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo”.
Ora, il nostro governo è assai mediocre, la sua principale virtù è che il possibile governo alternativo (dei Salvini e Meloni, con o senza Berlusconi ciliegina) sarebbe infinitamente peggiore (infinitamente). Ma forse un lampo di consapevolezza (dunque di saggezza) della propria mediocrità lo ha spinto a seguire le indicazioni della scienza medica, con un anticipo di parecchi giorni su quanto sta avvenendo nel resto d’Europa. Peccato che poi permetta a un capo di Stato straniero in abito bianco di andarsene in giro per il centro di Roma, benché non abbia nessuna necessità di farlo, e dunque in violazione delle disposizioni decretate (i vescovi italiani una volta tanto ligi alle leggi, avevano chiuso le chiese, ma Francesco le ha fatte riaprire, e il governo zitto e mosca).
Si dice giustamente che una volta debellato l’epidemia da virus (che per il nostro filosofo post, non dimentichiamolo mai, è “supposta”, sono “i media e le autorità” che “si adoperano per diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione”) dovranno cambiare molte cose. In realtà cambieranno solo se ci sarà un grande e instancabile movimento di opinione e di lotte per imporre i radicali mutamenti necessari. Che potrebbero riassumersi in due emergenze (anche se il filosofo post ha in grande uggia il termine): più eguaglianza e più illuminismo, scienza, ricerca. Senza di che la democrazia non ce la farà.
Più eguaglianza: il costo per debellare il contagio e spegnere l’epidemia (che secondo il nostro filosofo post, vedi il titolo del suo testo del 26 febbraio, è “L’invenzione di un’epidemia”) sarà gigantesco, e comporterà dunque un lungo periodo di costi/sacrifici. Che andranno affrontati con una altrettanto gigantesca redistribuzione delle ricchezze, a partire da una misura elementare e doverosa, senza la quale ogni altra misura non farà che rendere esponenziale l’ingiustizia: disoccultare le ciclopiche fortune nascoste in conti, società di comodo e cassette di sicurezza dei paradisi fiscali e comunque all’estero, così eclissate perché (quasi) sempre frutto di illegalità, sia essa da corruzione o da grande evasione (o mafie, o intreccio tra le fattispecie). Obbligo di denunciare queste ricchezze immediatamente, e automatico sequestro definitivo e irreversibile (oltre a pesanti sanzioni penali, pesanti al punto da essere deterrenti) di quelle che non lo saranno, con conseguente reato di ricettazione per qualsiasi banca e istituto finanziario le nasconda. Tanto per cominciare, sia chiaro. Poi più-eguaglianza-ogni-giorno dovrà diventare la bussola di ogni politica economica e sociale.
Più illuminismo, scienza, ricerca. Non se ne può più delle superstizioni, dei guru e dei santoni, anche quando s’impancano a filosofi o psicoanalisti. È auspicabile che per la filosofia si inauguri una stagione in cui stella polare torni ad essere l’amore di sapere/saggezza, e il sapere è quello delle scienze, non delle elucubrazioni oniriche para o post teologiche. La filosofia può avere un ruolo importante nel diffondere lo spirito critico, vaccino irrinunciabile per la vita democratica, massime in tempi di fake news, dove non si distingue più tra verità e opinione e la menzogna è solo un “fatto alternativo”, come spiegò la portavoce di Trump dopo l’ennesima bugia del presidente, platealmente evidenziata da documenti audiovisivi. Per cominciare, allora, bisognerà mettere da parte il bon ton corporativo, anche a rischio di ostracismo della gilda delle filosofie post post oggi egemoni, e non temere di cominciare a pronunciare qualche modesta verità, ad esempio riconoscere intanto che la filosofia dell’untore e della “invenzione di un’epidemia”, propinataci dal filosofo Giorgio Agamben il 26 febbraio e l’11 marzo, è una filosofia del cazzo.
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