Fmi e Onu rottamano le teorie liberiste

Carlo Clericetti

Sotto i duri colpi dell’andamento dell’economia reale stanno cadendo uno a uno tutti i caposaldi delle teorie economiche liberiste che hanno dominato a partire dalla fine degli anni 70 del secolo scorso. I rapporti delle istituzioni internazionali, che fino a ieri ripetevano senza sosta le prescrizioni di quelle teorie, da qualche tempo stanno radicalmente cambiando toni e ricette.

Il Fondo monetario, per esempio, che fino alla crisi del 2008 è stato il tempio dell’ortodossia e ha imposto in modo implacabile ai disgraziati paesi che chiedevano il suo aiuto i dettami del “Washington consensus”, sotto la direzione di Dominique Strauss-Kahn e poi grazie soprattutto all’ex capo economista Olivier Blanchard (con Christine Lagarde direttrice), ha iniziato una revisione di quei principi; almeno nella teoria, perché spesso le prescrizioni non si sono allontanate dalla linea tradizionale.

Nel “Fiscal monitor” appena diffuso il Fmi fa altri importanti passi nella demolizione della dottrina dominante degli ultimi 40 anni. Il più rilevante da questo punto di vista è forse quello che rivaluta gli investimenti pubblici, che non solo non spiazzano quelli privati – al contrario di come si è finora sostenuto – ma anzi li stimolano: un intervento dello Stato dell’1% del Pil farebbe crescere gli investimenti privati di ben il 10%. Al di là dei numerini (sempre opinabili e suscettibili di cambiamenti anche forti a seconda delle situazioni) ciò che conta è il principio, dopo decenni in cui si è demonizzato l’intervento pubblico. Certo, queste cose Keynes le aveva dette quasi un secolo fa, ma tant’è.

Non solo. La pandemia ha mostrato che la spesa per la salute non è un lusso, ma qualcosa di indispensabile, perché è necessario poter affrontare eventi di questo genere che – come si è visto – possono bloccare l’economia. Non solo per i lockdown (che servono, dice il Fmi), ma anche perché, anche quando non c’è il blocco completo, il timore di ammalarsi frena tutta una serie di attività che si fanno in tempi normali.  E non manca nemmeno una parte sull’ambiente, la cui protezione va trasformata in un’occasione di sviluppo, con incentivi alle energie “pulite” e tasse pesanti su chi inquina, il cui gettito va utilizzato a favore di chi è danneggiato dalla trasformazione. Non sembra lo stesso Fondo monetario che solo poco tempo fa è stato fra i carnefici del popolo greco. Certo, ora bisognerà vedere se e come applicherà questi bei principi a chi chiederà il suo aiuto. Per il momento non sembra. Uno studio citato da Bill Mitchell riporta che in 76 prestiti su 91 che il Fondo ha concesso ai paesi in difficoltà per la pandemia sono state imposte condizionalità molto dure: tagli alla spesa sanitaria, all’assistenza ai disoccupati, ai servizi e ai dipendenti pubblici.

Ma a proporre una strategia per il superamento della crisi e lo sviluppo radicalmente diversa da quella che ha guidato il mondo fin dagli anni Ottanta è il Rapporto Unctad. E il tono è di grande urgenza. “La vita delle future generazioni – ha detto il segretario generale, il kenyota Mukhisa Kituyi – e addirittura del pianeta stesso, dipende dalle scelte che noi tutti faremo nei prossimi mesi”. L’Unctad, come è noto, è l’organismo dell’Onu che si occupa di commercio, sviluppo e finanza ed ha quindi una visione globale.

Molti paesi sviluppati hanno risposto alla crisi precedente con politiche di austerità: non bisogna ripetere questo drammatico errore, ripete più volte il rapporto, che ha causato un “decennio perduto”. Ma questo non è inevitabile, è una questione di scelte politiche. E sostiene l’affermazione con un esercizio di econometria che confronta uno scenario in cui gli stimoli fiscali all’economia sono modesti, l’1,2%, con un altro scenario in cui la spesa è invece del 3,1%. In dieci anni la crescita media sarebbe nel secondo caso quasi doppia di quella del primo (3,8% invece del 2); grazie a questa crescita il rapporto debito/Pil scenderebbe, nonostante la maggiore spesa. La politica fiscale, inoltre, dovrebbe essere accompagnata anche da una politica industriale, che indirizzi gli investimenti  su energia pulita, protezione dell’ambiente, un sistema di trasporti più sostenibile e sistemi di protezione sociale.

Il piano prevede anche che ai salari vada una quota maggiore rispetto al Pil, il 54% invece del 49,8 dello scenario di base. Si tratterebbe solo di un “risarcimento”: con le politiche neoliberiste la quota dei salari è scesa dappertutto, anche di dieci punti percentuali.


Nel Rapporto si insiste molto sulle insopportabili diseguaglianze generate dalle politiche degli scorsi decenni, che non sono solo ingiuste, ma influiscono negativamente sul funzionamento dell’economia. E sulla necessità che il piano per la ripresa venga concordato e gestito a livello mondiale, anche per affrontare un altro grave problema, quello dei paesi in via di sviluppo soffocati dai debiti, i costi dei quali non solo assorbono risorse lasciandone troppo poche per le politiche di sviluppo, ma in particolare in questa fase impediscono di dedicare mezzi sufficienti alla lotta contro la pandemia. Al momento il Club di Parigi (un gruppo di 22 paesi ricchi che si occupa di rinegoziare i debiti di quelli in via di sviluppo) ha sospeso i pagamenti fino al prossimo dicembre, ma solo a pochi paesi e per un importo – al momento – di 14 miliardi di dollari. Basti pensare che entro il prossimo anno i paesi in via di sviluppo  ad alto reddito dovranno affrontare piani di rimborso del debito pubblico estero per un ammontare compreso tra i 2.000 e i 2.300 miliardi di dollari e quelli a medio e basso reddito tra i 600 e i 1.000 miliardi di dollari.

Nel frattempo, sottolinea il Rapporto, le sole società quotate comprese nell’indice Standard & Poor’s hanno speso un trilione di dollari l’anno per l’acquisto di azioni proprie, invece di impiegarlo in investimenti produttivi. Il mondo della finanza è un altro grande accusato nel rapporto: quanto accade rende evidente l’eccessivo potere delle grandi corporation, in grado di influenzare la politica e far approvare le regole che vogliono. Infatti, ricorda il Rapporto, dopo la scorsa crisi provocata proprio da una finanza senza regole, nulla è ancora cambiato.

L’Unctad formula alcune proposte operative, che avrebbero bisogno di una approvazione multilaterale.

Ampliare l’uso dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP) per sostenere le strategie nazionali di sviluppo nei Paesi in via di sviluppo attraverso un sistema di riserve realmente governato a livello internazionale. Come minimo, gli spazi fiscali dei paesi in via di sviluppo dovrebbero essere sostenuti dall’equivalente di 1.000 miliardi di dollari di diritti speciali di prelievo (DSP) per soddisfare gli attuali vincoli di liquidità.

Sostegno finanziario per potenziare la risposta di emergenza sanitaria alla COVID-19 nei Paesi in via di sviluppo attraverso un Piano Marshall per la ripresa sanitaria finanziato attraverso maggiori impegni di aiuto pubblico allo sviluppo, riforma fiscale internazionale e meccanismi di finanziamento multilaterali potenziati, su una scala tale da costruire la resilienza e stimolare la ripresa.

Un’Agenzia internazionale di Rating del Credito Pubblico per fornire valutazioni obiettive basate sull’esperienza del merito di credito dei paesi sovrani e delle imprese, compresi i paesi in via di sviluppo, e per promuovere i beni pubblici globali. Ciò contribuirebbe inoltre a promuovere la concorrenza in un mercato privato altamente concentrato.


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Un’Autorità del debito globale per impedire che le crisi di liquidità che si ripetono si trasformino in insolvenze seriali degli emittenti sovrani. Un’autorità di questo tipo costruirebbe un archivio istituzionale sulle ristrutturazioni del debito sovrano. Sorveglierebbe inoltre l’istituzione di un registro globale accessibile al pubblico dei dati sui prestiti e sul debito relativi alle ristrutturazioni del debito sovrano. Inoltre, svilupperebbe un progetto per un quadro giuridico e istituzionale internazionale completo e trasparente per governare le soste temporanee automatiche sui rimborsi del debito sovrano in tempi di crisi e per gestire gli allenamenti sul debito sovrano in modo equo, efficiente e trasparente.

Fino a poco tempo fa, chi sosteneva idee come quelle qui ricordate veniva inevitabilmente marginalizzato, tanto nell’ambito politico che in quello accademico. Ci sono volute due crisi storiche perché anche nelle istituzioni internazionali si cominciasse a prendere atto delle clamorose cantonate delle teorie dominanti. L’inedita emergenza della pandemia ha spinto i governi a decisioni del tutto in contrasto con quanto predicato finora, ma molte voci dai palazzi del potere si sono affrettate a specificare che si tratta di misure provvisorie dovute allo stato d’eccezione, lasciando intendere che, finita l’emergenza, si tornerà alla “saggezza convenzionale”. Le idee sbagliate sono dure a morire, quando servono per giustificare i privilegi delle classi dominanti.

(20 ottobre 2020)





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