Fori Imperiali, verso un Parco Archeologico?

Mariasole Garacci

A margine delle discussioni sulle Olimpiadi, si torna a parlare di un parco archeologico in Via dei Fori Imperiali: Prosperetti e Bergamo sono favorevoli a un tavolo tra Comune e Soprintendenza. Ma Adriano La Regina e l’Associazione Bianchi Bandinelli sono diffidenti.

In questi giorni si sono susseguite su Repubblica le dichiarazioni di Francesco Prosperetti, soprintendente speciale per il Colosseo e l’area archeologica di Roma, e di Luca Bergamo, assessore alla Cultura della giunta Raggi, circa l’annosa questione di un progetto di demolizione e sistemazione a verde di Via dei Fori Imperiali. A queste dichiarazioni ha risposto prontamente l’ex soprintendente Adriano La Regina, rivendicando la complessità e l’ampio respiro del progetto sull’area archeologica da lui stesso, fin dalla fine degli anni Settanta, perseguito insieme ad Antonio Cederna, figura continuamente chiamata in ballo ogni volta si torni a parlare dell’argomento.

Prosperetti ha infatti evocato “il sogno” di La Regina e Cederna quando ha rilanciato l’idea di un grande parco archeologico (da estendere in futuro all’area tra Piazza Venezia e la zona del Velabro, fino al Circo Massimo, le Terme di Caracalla, il Colosseo, la Domus Aurea, Colle Oppio, il Foro Romano e il Palatino) il cui primo passo sarebbe lo smantellamento di Via dei Fori Imperiali nel tratto tra Piazza Venezia e Largo Corrado Ricci, e la creazione di nuovi accessi agli scavi e alle strutture museali dei Mercati di Traiano, dei sotterranei di Palazzo Valentini, e della Curia (che intanto resta da troppo tempo inaccessibile al pubblico, sebbene in occasione del dello scorso 26 luglio sia stata usata come camerino per gli artisti). Prosperetti ha giustamente rilevato come lo spazio tra i Fori Imperiali e il Foro Romano costituisca, allo stato attuale, “un luogo che non intesse alcun rapporto con questi straordinari spazi” e che non consente ai visitatori una fruizione comoda, servita e piacevole dell’area archeologica. Lo sanno bene i milioni di forzati del turismo che qui si riversano ogni anno, e le guide turistiche che ci lavorano tra molti disagi. Basti pensare, spostandoci un po’ più in là di pochi metri, alla spianata di sanpietrini e terra battuta tra Via di San Gregorio e l’Arco di Costantino, fangosa e scivolosa in inverno e terribilmente assolata in estate, quando ogni folata di vento avvolge in una nube di polvere il turista assetato che non trova il ristoro di un po’ d’ombra, di una panchina, di una fontanella.

Una situazione che rivela la concezione di fondo di questi luoghi come un bene da sfruttare al minimo costo, avulso dalla vita della città e dei suoi abitanti, esclusivamente dedicato al profitto: da questo punto di vista verrebbe quasi da rimpiangere i tempi “prima dell’archeologia” raccontati da Italo Insolera nel suo Frondose arcate. L’attuale soprintendente ha parlato di riaffermare “il ruolo culturale della strada, non nella chiave della pomposa retorica del Ventennio, ma come spazio urbano riqualificato”. Dal canto suo, Bergamo si è detto pronto e favorevole ad un’azione di concerto in questo senso tra Comune e Soprintendenza, che necessariamente dovrebbe coinvolgere l’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini. Bergamo ha parlato di una “sfida culturale e intellettuale per la città”, e ha posto l’accento sul fatto che questa impresa debba avere come scopo non l’immediato ritorno in termini di turismo, ma la fruizione e comprensione di uno spazio urbano che appartenga anzitutto ai cittadini, che permetta un’interazione tra archeologia e presente, tra storia e dimensione urbana.

Entrambi, Prosperetti e Bergamo, hanno parlato chiaramente di smantellamento e demolizione di Via dei Fori Imperiali: sembra ormai del tutto superata, dunque, la posizione di chi riteneva di dover conservare la testimonianza storicizzata dell’intervento fascista (idea che nel 2001, sotto la soprintendenza di Ruggero Martines che la definì “l’unica strada futurista di Roma”, ispirò il vincolo monumentale su Via dei Fori Imperiali e altri luoghi rimosso poi nel 2004). Purtroppo, però, a livello di dichiarazioni le intenzioni evocate sembrano per ora un po’ vaghe e superficiali, non solo sulla reale volontà e capacità politica di investire e intervenire, in un momento così difficile per il Comune di Roma, in una questione veramente delicata che non consente inversioni di rotta future né di lasciare le cose a metà, ma anche e soprattutto sulla visione complessiva di quello che doveva essere lo “storico” Progetto Fori-Appia Antica concepito e perseguito da Benevolo, Cederna, La Regina, Insolera, Argan e Petroselli. Lo dimostra il fatto che, nel rilanciare l’idea di interventi sull’area, non si sia fatto accenno, ad esempio, ai disgraziati lavori della linea C della metropolitana, che tra l’altro hanno sconvolto il tratto tra Colosseo, Basilica di Massenzio e quel che resta di Villa Rivaldi, e che si sia parlato di smantellare soltanto il tratto tra Piazza Venezia e Largo Corrado Ricci.

Sono stati citati, inoltre, i progetti vincitori dell’ultimo Premio Piranesi, quelli di David Chipperfield Architects e del laboratorio Luigi Franciosini, estremamente interessanti e suggestivi ma di fatto impostati su due concezioni tra loro opposte del futuro dell’area di Via dei Fori Imperiali. Nel caso del pur elegantissimo progetto Chipperfield si parla esplicitamente di mantenere Via dei Fori Imperiali, di trattare la zona come un palinsesto di testimonianze che includa l’intervento moderno per “mettere assieme i pezzi e giungere a una sintesi, in cui sia possibile finalmente vedere la fine della ricerca archeologica e il ritorno di uno spazio pubblico dove le rovine possano tornare ad essere romantiche e ricche di pathos” (t.d.r.). In questo progetto, che fa pensare un po’ troppo al prefetto Camille de Tournon, viene considerato parte dell’auspicata sintesi tra le stratificazioni storiche lo stradone inaugurato da Mussolini il 28 ottobre 1932. Una striscia longitudinale estranea al contesto che, al di là delle considerazioni sui costi sociali avuti a suo tempo e la mancanza di rispetto per la stratigrafia del luogo, ha il grave effetto di deformare la lettura dell’area archeologica oggi costretta in una rapidissima fuga prospettica verso il Colosseo. In questo senso il progetto Franciosini avrebbe il pregio di interrompere l’andamento visivo con l’intersezione di vari sensi di percorribilità corrispondenti all’orientamento degli antichi edifici, e di prevedere lo smantellamento della strada, rimpiazzato da un’avveniristica sequenza di piani incrociati a diversi livelli.

Considerando che la questione del Progetto Fori-Appia Antica va avanti tra accese contrapposizioni dai tempi dei sindaci Argan e Petroselli, è comprensibile che La Regina abbia reagito con diffidenza alle ultime es
ternazioni, parlando (Repubblica, 25 settembre) di “un’idea estemporanea di fine estate, un’uscitina giornalistica per suscitare attenzione” e di “giardinetto comunale”. Stessa diffidenza espressa in questi giorni dall’Associazione Bianchi Bandinelli presieduta da Vezio De Lucia. E’ importante ricordare che nelle intenzioni di Antonio Cederna non veniva accantonata l’importanza dell’esplorazione stratigrafica, che l’intervento sull’area non era concepito in termini di progettualità architettonica ma di urbanistica, e che il piano era di un esteso parco archeologico che si congiungesse con l’altro grande parco dell’Appia Antica (per ora ancora in gran parte in mano a privati) recuperando anche la memoria e la reale fisionomia di un percorso che in antico era legato (la Regina Viarum iniziava da Porta Capena, cioè a pochi passi dal centro politico costituito dal Foro Romano, dai Fori Imperiali, dal Palatino).

E’ auspicabile e urgente mettere mano alla situazione attuale di Via dei Fori Imperiali, avendo sempre presente che ricostituire, attraverso la creazione di un sistema complesso e organico di città-parco, l’unità che si è perduta nell’urbanizzazione moderna è una vera grande opera che andrebbe perseguita nel tempo e che avrebbe un profondo significato: più di molti episodi slegati, significherebbe iniziare una rivoluzione nel modo di vivere la città, dare impulso a una concezione dello spazio pubblico da cui sia escluso per il momento il profitto economico immediato, creare le condizioni per la fruizione partecipata e inclusiva di una dimensione civica che deve innervare e rivitalizzare Roma da dentro. Prima che quella Roma recentemente definita “l’insieme dei frammenti messi insieme da qualcuno, l’organismo sperimentale, quasi il mostro di Frankenstein, dentro il quale le ragioni del potere e quelle della comunità non riescono mai a equilibrarsi” (Fabio Benincasa in Rome. Nome plurale di città, ed. Bordeaux 2016) finisca per sgretolarsi completamente in brani di grande impatto turistico che sfibrano il tessuto della città, a lungo termine impoverendola anziché arricchirla.

(30 settembre 2016)



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