Fourest: “La ‘generazione offesa’ ha rinunciato alla lotta libertaria e si rifugia nel vittimismo identitario”

Marco Cesario

intervista a Caroline Fourest

"È la storia di piccoli e ordinari linciaggi che finiscono per invadere la nostra privacy, ci assegnano la nostre rispettive identità e censurano il nostro dibattito democratico. Ogni giorno, un gruppo, una minoranza, un individuo che si erge come rappresentante di una causa, chiede, minaccia e fa censurare”. Nel suo ultimo saggio, dal titolo emblematico "Génération offensée: De la police de la culture à la police de la pensée" (Grasset), la giornalista e attivista femminista francese Caroline Fourest prende di mira le nuove battaglie contro l’appropriazione culturale per cui qualsiasi prestito dalla "cultura altrui senza permesso" diventa "offensivo" se quella cultura è o è stata dominata.
La generazione offesa è quella di gruppi che chiedono la soppressione delle lezioni di yoga in un campus canadese per evitare di "appropriarsi della cultura indiana", che impediscono rappresentazioni sulla violenza della segregazione o del colonialismo con la motivazione che gli artisti sono bianchi. Negli Stati Uniti l’idea è presente nei movimenti post-coloniali, antirazzisti e femministi e sta diventando, anche in Europa, una vera e propria "polizia del pensiero". "Si impara a fuggire dall’alterità e dal dibattito", dice Fourest, rafforzando le identità fisse, una costante del pensiero conservatore.

Che cos’è esattamente la “generazione offesa”?

La generazione offesa più che una fascia d’età è un vero e proprio credo, un riflesso condizionato, l’ultra-suscettibilità che io definisco “peste della sensibilità” che invade molte menti nel momento in cui ci s’imbatte in un’affermazione o in un’opera che disturba, che provoca reazioni veementi verso cose che spesso sono assolutamente futili e grottesche. Io provengo dall’universo femminista. Ho lottato contro l’oscurantismo e le discriminazioni. Per me il vero problema oggi sono l’ascesa dell’estrema destra, del radicalismo islamista, del razzismo, dell’omofobia e del sessismo. Oggi invece assistiamo – ed è più comune presso i Millennials – ad una rabbia delirante che si diffonde rapidamente sui social per cose essenzialmente poco gravi come l’appropriazione culturale.

Cosa intende esattamente per appropriazione culturale?

L’appropriazione culturale inizialmente definiva una questione realmente problematica. Per esempio nel momento in cui dei musei riutilizzavano artefatti acquisiti in maniera poco chiara decontestualizzandoli (penso all’Africa coloniale) in quel caso si può parlare di appropriazione culturale grave. Ma con il tempo, a causa di una deriva provocata negli Usa da un’avvocatessa bianca americana specialista del copyright, è diventata tutt’altro. È diventata l’idea che chiunque faccia riferimento o s’ispiri ad un’altra cultura può essere accusato di appropriazione culturale. Abbiamo visto negli Usa delle campagne deliranti. Ma qui sorge un problema perché queste campagne vengono portate avanti nel nome dell’antirazzismo ma alla fine colpiscono proprio artisti antirazzisti e soprattutto veicolano una visione della “purezza culturale” che si traduce in un rifiuto della mescolanza, del métissage, che è l’esatto opposto dell’antirazzismo.

Questa deriva può apparentarsi anche a certe derive del politicamente corretto?

Quando ancora alcuni anni fa la destra conservatrice ed antifemminista denunciava il politicamente corretto aveva torto perché all’epoca – negli anni ’90 – l’ascesa del politicamente corretto corrispondeva ad una presa di coscienza positiva in quanto faceva capire che non bisognava più utilizzare un linguaggio umiliante e discriminatorio. Per questo motivo io non tornerei mai indietro all’epoca in cui si poteva parlare in maniera sprezzante degli omosessuali o delle donne. Ma oggi siamo passati, e lo dico da militante femminista di sinistra, da una presa di coscienza legittima ad una forma sragionata di ossessione riguardo a tutto ciò che concerne la questione dell’identità. È il vero male dell’epoca. Questa questione dell’identità deborda presso l’estrema destra (pensiamo alla rivendicazione bianca e cristiana) ma è anche favorita da una visione progressista americana dell’identità che è andata totalmente fuori strada. Perché ha provocato il fatto che le persone vengono nuovamente rinchiuse nella propria identità etnica. Stiamo importando oggi in Europa una visione americana dell’identità razziale che non farà altro che provocare l’ascesa dell’estrema destra. È giusto denunciare il razzismo in Italia, in Francia e nel resto d’Europa. Ma non credo che si possa combatterlo rinchiudendo le persone nella propria etnia e rendendo sospettosa qualunque mescolanza etica e culturale. Questo è ciò che la nuova generazione sta facendo, confondendo cioè il legittimo dibattito delle idee con una forma di incitamento all’odio contro le identità.

È quello che accade un po’ anche con il giornale satirico Charlie Hebdo?

È inquietante constatare che secondo un recente sondaggio quasi la metà degli under 34 non capisca ancora la necessità da parte di Charlie Hebdo di informare e ridere dell’oscurantismo religioso o la necessità di essere solidale con i fumettisti danesi che hanno mostrato per primi le vignette. Il dovere di informare non è più compreso, il contesto non è più compreso. D’altra parte, non appena un gruppo minoritario si offende o dice di essere offeso, il dibattito si conclude. Non si può più parlare, non si può più discutere, ma il problema è che ci sarà sempre qualcuno che lancerà un dibattito. Non dimentichiamo che anche i fondamentalisti si sentono offesi, si sentono offesi da Charlie Hebdo. Ma non si può per questo smettere di essere libertari, laici e antirazzisti. La destra moralista americana si sente offesa da uno spregevole film sull’adolescenza femminile. Non possiamo smettere di fare film complessi sull’ipersessualizzazione delle giovani ragazze perché i moralisti sono incapaci di comprendere un’opera d’arte. Questo è il grande dilemma del nostro tempo. Tutto è decontestualizzato, cioè non si tiene più conto dell’intenzione, della complessità di un’opera, dell’intenzione del creatore. Ci poniamo solo la questione dell’identità del creatore e congeliamo fotogrammi, fuori contesto, sulle opere.

Siamo passati, come indica il suo saggio, dalla generazione sessantottina, che lottava in campo aperto alla cancel generation che fa del vittimismo la sua arma più nobile?

Non rimpiango i giorni in cui le società facevano dell’onore e della virilità le massime qualità richieste. Sono lieta che ci stiamo muovendo verso società che ascoltano coloro che sono discriminati ma in realtà non dovremmo cadere in una forma di società basata sulla promozione della denuncia. Anche questa è una cosa molto americana, si finisce per mettere in competizione e sacralizzare le vittime. C’è una competizione tra le vittime e una competizione per vedere chi è più vittima. Ma non è così che si fanno andare avanti le cose: non si conquista il rispetto dei dominatori agendo solo come vittime. È necessario denunciare uno stupro, le molestie sessuali, l’omofobia, qualunque tipo di aggressione. Ma non possiamo rendere lo status di vittima come uno status invidiabile. Siamo passati da una società della morale a una società dell’ipersuscettibilità e dell’ipersensibilità, io aspiro invece ad una generazione di uguaglianza, una generazione realizzata che costringe al rispetto.

Perché secondo lei in questo contesto la sinistra ha perduto il senso e la direzione della lotta?

Sono convinto che la sinistra europea debba assolutamente svegliarsi in tempo e non commettere gli errori della sinistra americana. Questa ossessione per l’identità è servita solo a rafforzare il maschilismo bianco ed è alla radice del successo di Donald Trump, il cui delirio verbale scatena le classi privilegiate bianche che sentono che i democratici non solo non si rivolgono più a loro ma non vogliono nemmeno più combattere le disuguaglianze sociali. La sinistra americana ha cominciato a rinunciare alla lotta per l’uguaglianza e a sostituirla con una sorta di ‘clientelismo delle identità’ in nome della diversità. Mentre Obama potrebbe essere uno degli ultimi che con Obamacare ha tentato una vera e propria riforma sociale che si è rivolta alle classi meno abbienti, ora la sinistra americana non produce più nulla e quella ad esempio di Bernie Sanders cerca di riallinearsi alla sinistra identitaria. Ma è
lo stesso problema che c’è in Europa. La sinistra identitaria, con il suo atteggiamento in realtà non fa altro che convalidare gli stereotipi alla base del razzismo, e quindi, in un modo o nell’altro, rafforza la destra identitaria.


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Quale antidoto alla questione identitaria che permea anche la sinistra?

L’antidoto c’è ed è l’universalismo. L’universalismo consiste nel lottare contro ogni forma di discriminazione, a chiamare ogni discriminazione con il proprio nome ma consiste ugualmente nel rifiutare di rinchiudere le persone nella propria identità.

L’ossessione dell’identità spinge alla censura, alla polizia del pensiero?

Viviamo in un paradosso. Non è mai stato così facile esprimere la nostra opinione alla velocità della luce sui social network e, d’altra parte, mai così facile incitare all’odio sfrenato. Ma nel momento in cui esprimiamo con maggiore libertà le nostre opinioni, riceviamo minacce, insulti, intimidazioni che rendono sempre più difficile formulare un pensiero complesso nella vita reale. Sono soprattutto i giovani ad essere sensibili a questa forma di intimidazione perché sono cresciuti sui social network, sono dunque molto sensibili alle minacce che possono incombere anche sulla propria reputazione digitale. Questa paura di essere additati sui social network gioca sulla loro libertà di pensiero, sulla loro libertà di criticare, sulla loro libertà di dire. Così siamo passati da giovani che, ai tempi del maggio del ‘68, sognavano di non proibire nulla a giovani che si muovono in branco, ululando, ogni mattina per vietare un’opera, per censurare un artista oppure un’affermazione che spesso viene presa fuori dal contesto. E ancora una volta, la cosa più inquietante di queste campagne di intimidazione è che non sono rivolte solo all’estrema destra, ci sono anche campagne di intimidazione che colpiscono artisti antirazzisti o intellettuali della sinistra universalista. È un modo di incarnare una sinistra che è allo stesso tempo identitaria e che ha completamente rinunciato alle libertà. Tuttavia, ogni volta che la sinistra rinuncia a difendere la libertà e lascia questo fardello alla destra o all’estrema destra, è il campo dell’odio che vince, non certo il progresso. Per questo motivo spero che i progressisti abbandonino questa ossessione dell’identità e ritrovino invece tutto il senso della lotta libertaria.
(12 ottobre 2020)




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