Franzini: “La pandemia non è uguale per tutti”
Daniele Nalbone
Professor Franzini, partiamo ovviamente dalla situazione attuale. Come giudica la gestione fino a oggi della pandemia da parte della politica in generale, italiana e non solo?
Ovviamente premetto che si tratta di questioni estremamente complesse, ma si può dire che nella fase iniziale della pandemia c’è stato un ritardo. Mi riferisco al periodo precedente al manifestarsi del virus: la responsabilità è internazionale perché esistevano rapporti scientifici sul rischio di una pandemia e non si è fatto nulla. La mia non è una critica al governo italiano ma alle classi politiche mondiali. Tra le cose banali, è facile dire che era necessario avere a disposizione mascherine e tamponi. Dovevamo avere un protocollo “sul lockdown”. Per dirla in poche parole, non è stato rispettato alcun principio di precauzione. Successivamente, nella gestione, sono state adottate misure economiche in parte appropriate, ma che scontano un difetto enorme, il non avere un sistema di welfare in grado di intervenire a tutela di molti tra i soggetti più deboli. Ancora oggi abbiamo una enorme quantità di persone che ha perso il proprio lavoro e non è beneficiaria di misure di sostegno al reddito. Mi riferisco a tutti quei lavoratori che non possiamo classificare tra i subordinati o tra gli autonomi, ai dipendenti “in nero”. Ci sono grossi buchi nel nostro sistema di welfare e chi è dentro queste falle rischia di pagare un prezzo altissimo. Lo sta già pagando. Le misure straordinarie stanziate non hanno raggiunto tutti coloro che versano in una condizione di estremo bisogno. Per il futuro, ogni decisione va presa nell’ottica del fatto che dovremo convivere con questa epidemia per un lungo tempo e aver presente che questo genererà nuove diseguaglianze che meritano diverse attenzioni da parte del governo anche perché non saranno tutte affrontabili con trasferimenti di reddito. Penso a famiglie con bambini che ancora per chissà quanto tempo non potranno tornare a una vita normale, o a situazioni con disabili che non possono più fruire delle precedenti forme di assistenza.
Covid19 e disuguaglianze. Lei ha scritto recentemente che "la pandemia non è uguale per tutti". Può spiegarci perché?
La cosa più semplice da spiegare è che c’è uno stretto rapporto tra il rischio di contagio e la situazione economica di partenza. Chi ha poco reddito spesso gode di un peggiore stato di salute rispetto a chi ha più risorse, e quindi una maggiore probabilità di contrarre malattie croniche che, a loro volta, aumentano la probabilità di restare vittima del virus. I dati statunitensi dicono che i neri e gli ispanici hanno almeno il doppio delle probabilità di morire di Covid19 rispetto ai bianchi delle stesse città; a Chicago quella dei neri è addirittura cinque volte superiore a quella dei bianchi. È chiaro che il tutto è purtroppo facilitato dal sistema sanitario degli Usa, che non aiuta i deboli, ma è chiaramente un indicatore della situazione. Le persone che vivono con un reddito più basso fanno lavori meno protetti e, per paura di perdere la propria occupazione, continuano a lavorare anche in contesti di contagio molto elevato. È così che non solo contraggono il contagio, ma che lo moltiplicano, e tutto a causa delle condizioni economiche svantaggiate di partenza. Inoltre, chi vive in condizioni di difficoltà avrà minore possibilità di consentire ai propri figli di usufruire, per esempio, della didattica a distanza: il risultato è che questi bambini rischiano di perdere la possibilità di crescere, perderanno opportunità per il loro futuro. In Italia è difficile, in una condizione normale, promuovere la mobilità sociale, figuriamoci cosa può capitare dopo un lungo lasso di tempo in cui si perdono opportunità di miglioramento sul piano dell’apprendimento.
Come stavamo prima della pandemia?
Ormai da tempo nel nostro paese le disuguaglianze di reddito sono altissime anche se non necessariamente crescenti. Abbiamo indicatori di disagio sociale allarmanti che dicono che negli ultimi tempi il numero di poveri è aumentato. La pandemia in questo senso è e sarà solo un acceleratore di ulteriori diseguaglianze. Alcuni indicatori di deprivazione, in particolare, sono impressionanti: in Italia quasi il 30% delle famiglie non è in grado di sostenere una spesa improvvisa di 800 euro e nel 20% dei casi hanno un conto in banca sul quale ci sono meno di 2.500 euro. Con il reddito scomparso, il welfare che non arriva per tutti, per mancanza di diritti o di ritardi, e l’assenza di un salvadanaio da cui attingere è chiaro lo scenario che si prospetta. Quei 2.500 euro sul conto corrente stanno finendo. Per questo servono, accanto alle misure straordinarie, di emergenza, nuove forme di welfare che allarghino la platea degli aventi diritto. Per troppo tempo questa situazione è stata trascurata e ora la pandemia ci sta presentando il conto da pagare.
Lei contesta l’affermazione per la quale, scusi la semplificazione, "tutti siamo uguali davanti al virus". I ricchi ovviamente non sono al riparo ma lei sostiene che sono più protetti dalla pandemia. È corretto?
Che anche i ricchi possono contrarre il virus è fuori discussione. Il ragionamento va fatto però complessivamente: i “ricchi” sono una categoria che può proteggersi maggiormente. La ricchezza è un vantaggio per diversi motivi: hai una possibilità di isolamento maggiore, forme sanitarie migliori, mediamente sei in condizioni di salute migliori e puoi affrontare il contagio con maggiori probabilità di superarlo. Il rischio per persone con redditi elevati è ridotto: questo non significa che si è immuni, ma le probabilità di un esito letale del contagio per un ricco sono nettamente inferiori a quelle di un povero.
Dal "basso" arriva la spinta per un reddito di emergenza. Cosa ne pensa?
Andiamo oltre le questioni terminologiche: servono sicuramente nuove forme di integrazione dei redditi. Abbiamo già visto che il reddito di cittadinanza, introdotto lo scorso anno, ha inciso sul disagio, ma per come è strutturato non può arrivare a tutte le situazioni di debolezza, ha troppi paletti. Davanti abbiamo due possibilità: introdurre un nuovo strumento in grado di arrivare a tutte le persone in difficoltà o togliere ogni forma di vincolo al reddito di cittadinanza. Un nuovo strumento chiede tempo, quindi, considerata l’emergenza, la strada migliore sarebbe quella di modificare le norme del reddito di cittadinanza e allargare la platea degli aventi diritto. La necessità, oggi, è portare tutti a un livello minimo di reddito.
Il reddito di cittadinanza, però, è subordinato alla ricerca attiva di un impiego. Ha senso in una situazione simile?
La pandemia ha complicato il “dilemma” del cosa dare in cambio allo stato per avere il reddito di cittadinanza,
ma il problema c’era anche prima: ci sono condizioni di povertà rispetto alle quali l’avvio al lavoro non ha senso. Ora, con la pandemia, va separata la funzione di integrazione del reddito di chi vive in condizioni disagiate dalle politiche attive del lavoro.
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