Perché il giornalismo abbia un futuro

Daniele Nalbone

Per il New York Times i ricavi digitali hanno superato per la prima volta, nel secondo trimestre 2020, quelli derivanti dal "cartaceo". Un dato storico che dimostra come il quotidiano statunitense abbia gestito al meglio la transizione verso il digitale, accompagnato dal suo pubblico. In Italia gli editori e i lettori sono disposti a fare una simile scelta? Per analizzare la situazione dell’editoria e immaginare il "giornale del futuro" abbiamo pubblicato nel un saggio di Daniele Nalbone e Alberto Puliafito dal titolo "Perché il giornalismo abbia un futuro" in cui si parla proprio dell’esempio del NYT. Ne pubblichiamo un estratto, dal titolo "Forse il futuro è già qui, tra le tue mani"*.

e Alberto Puliafito

*Estratto di circa 6mila battute su un totale di 25mila del saggio contenuto nel

Ma allora che forma deve avere questo giornale del futuro?

Partiamo da un principio. Adattarsi ai mezzi e ai formati: non è importante se è di carta, digitale, o addirittura se si trasmetterà un giorno per via telepatica. Deve essere un giornale fatto di contenuti che utilizzano tutti i mezzi consentiti e graditi dal proprio pubblico.

Si tratta poi di un giornale che non ha la necessità di produrre a ciclo continuo e che può concentrarsi sugli elementi fondativi. È un giornale che abbandona l’eccezione e l’eccezionale.

Una vecchia regoletta che si insegnava nelle scuole di giornalismo era questa: «Quando un cane morde un uomo non fa notizia, perché capita spesso. Ma se un uomo morde un cane, quella è una notizia».

Il problema di questo approccio è che è tutto il contrario di quel che il giornalismo dovrebbe fare. Perché? Provate a immaginare un giornale in cui si parla solamente di casi eccezionali. Vorrebbe dire che quel giornale non rappresenta la realtà, ma solo le eccezioni.

Ecco perché l’interessantissimo approccio controintuitivo proposto da Rob Wijnberg, direttore di De Correspondent, e raccontato in Slow News. A Documentary, ribalta completamente la prospettiva. «Le notizie così come le conosciamo», sostiene Wijnberg, «ci rendono cinici, divisi e meno informati». Perché se tu leggi un giornale, guardi un telegiornale e dentro ci trovi un punto di vista, un’inquadratura strettissima, su un’eccezione, perderai sempre di vista il quadro più ampio. E in effetti, per esempio, a furia di parlare del tempo che fa ci siamo lasciati scappare, dalle prime pagine dei giornali, il clima che cambia. L’abbiamo fatta diventare un’emergenza senza che diventasse prima una notizia.

Il giornale del futuro non ha bisogno di riportare ogni dichiarazione: racconta i contesti. Non fa da megafono alle opinioni: le sottopone a perizia, le verifica, le soppesa, prima di parlarne. Non ha l’ansia degli aggiornamenti: si prende il tempo che ci vuole per produrre informazione di qualità. Non è fatto da una redazione paternalista e autoritaria che sa cos’è meglio per lettrici e lettori, ma da una redazione collaborativa, che ascolta e produce un servizio. Lettrici e lettori vengono trattati, nel giornale del futuro, come membri di una comunità di persone, ciascuna con le proprie competenze, capacità, esperienze.

I giornalisti del futuro non si fingono narratori onniscienti: hanno anche loro le loro competenze, capacità, esperienze. Il loro lavoro è pagato il giusto e non è ottimizzato per quantità, velocità, massa, ma per qualità, profondità, ampiezza. Il loro tono non è enciclopedico ed erudito, ma competente e umile.

I commenti e le interazioni con lettrici e lettori vengono valorizzati e incoraggiati.

Il giornale del futuro si fa pagare da chi legge, ma deve anche trovare il modo di essere alla portata di tutti, con modelli di pagamento per tutte le tasche e disponibilità economiche e forme di abbonamento modulari cucite su misura per ogni segmento del proprio pubblico.

Sembrerà paradossale, ma sono proprio Spotify o Netflix a indicare il futuro al giornalismo: conoscere i propri lettori e dar loro contenuti di qualità, approfondimenti, perfino progetti in costruzione – inchieste, reportage, podcast, eccetera – cuciti su misura. Costruire un ecosistema in cui vivere una piacevole «esperienza». Cosa ha fatto Netflix per conquistare il proprio pubblico? Lo ha attirato tramite i social network e gli ha fatto trovare un portale di streaming personalizzato in cui trovare tutto – o quasi – quello che ha sempre cercato e trovato con difficoltà in televisione.

Sui giornali, invece, sono pochi i lettori che «ci vanno»: il più delle volte «ci finiscono», grazie a una piattaforma social, un motore di ricerca o un aggregatore di notizie. Di conseguenza i siti di informazione non sanno chi è il proprio lettore: eppure i dati a disposizione per conoscere gli interessi di ogni «utente» li hanno. Poniamo il caso di un sito di informazione che vive di pubblicità: basterebbe «profilare» i propri lettori e dare loro, così, il giusto contenuto. Una mossa che sarebbe sicuramente ben vista anche dal pubblico, che non dovrebbe «subire» pubblicità inutili e, in più, perdere tempo per trovare contenuti di suo interesse. Un lettore interessato alle notizie dal mondo troverebbe subito le notizie dal mondo: poche, ben scritte, approfondite. Su quella pagina avrebbe pubblicità mirate ai suoi «consumi» (fotografia, viaggi, libri sul tema eccetera) e quegli spazi avrebbero un valore commerciale maggiore.

Per quei prodotti editoriali che invece scelgono di non vivere di pubblicità, o di non basare il proprio modello di business soprattutto sulla pubblicità, la strada è paradossalmente la stessa: conoscere il proprio pubblico. Lottare sull’ultima notizia significa dover combattere contro due mostri: il tempo e l’algoritmo (di Google o di Facebook, non c’è differenza). È una sfida a perdere. Sarebbe meglio, invece, dotarsi di una risposta alla domanda: perché qualcuno dovrebbe comprare proprio quel giornale o cliccare proprio su quel sito? La risposta è fatta di tante sfumature: differenziarsi, specializzarsi, essere – in un certo senso – unici.


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Il modello che tutti gli addetti ai lavori italiani prendono come esempio è il New York Times. Il motivo, però, non è la qualità del giornale ma i suoi numeri: dal 1° gennaio al 31 marzo del 2020 il quotidiano ha infatti conquistato più lettori paganti all’edizione online rispetto a qualsiasi altro periodo da quando esiste il digitale a pagamento. Si parla di 587 mila sottoscrizioni che hanno portato il totale degli abbonati, tra cartaceo e digitale, a oltre sei milioni. Numeri che hanno compensato il calo delle entrate pubblicitarie accelerato dalla crisi coronavirus.

Se però ci venisse chiesto perché prendere il New York Times come modello, noi non risponderemmo per i numeri, forse perché sarebbe una risposta troppo facile da dare. O forse perché i numeri sono una conseguenza.
La nostra risposta sarebbe accendere il computer o lo smartphone, andare su YouTube e cercare uno spot dal titolo: «The Truth Is Essential» 20.
Durata del video: 33 secondi. Costo di produzione pari a zero.
Le immagini consistono in un semplice sfondo nero sul quale si danno il cambio undici frasi, brevi e semplici, prima di lasciare spazio al marchio del New York Times:

It’s not just a bad flu.

It’s not a bioweapon.

It’s not a way to control the population.

Bleach is not a cure.

It won’t just disappear.

The virus can be contained.

Social distancing helps.

We need more testing.

The science is vital.

We are safer when we are informed.

The truth is essential[1].

(7 agosto 2020)


[1] «Non è solo una brutta influenza. Non è un’arma biologica. Non è un modo per controllare la popolazione. La candeggina non è una cura. Non scomparirà. Il virus può essere contenuto. Il distanziamento sociale aiuta. Abbiamo bisogno di più test. La scienza è vitale. Siamo più sicuri quando siamo informati. La verità è essenziale».




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