Genova 2001: l’ultima offesa
Lorenzo Guadagnucci
Il processo Diaz, è bene ricordarlo, è costato all’Italia pesanti condanne davanti alla Corte europea dei diritti umani. I giudici di Strasburgo, nel 2015, hanno scritto parole chiare e, per noi, umilianti: alla Diaz fu praticata la tortura e lo Stato italiano non ha saputo dare una risposta adeguata a tale caduta di legalità, né in termini giudiziari (nonostante la condanna di 25 funzionari e dirigenti) né sul piano professionale e amministrativo. È mancato, secondo i giudici europei, un vero sforzo di prevenzione. La Corte, in particolare, ha ricordato all’Italia la necessità di sospendere gli imputati durante la fase processuale e di rimuoverli in caso di condanna. Sul punto l’Italia è gravemente inadempiente. Non ha sospeso a suo tempo gli imputati, garantendo anzi a processi in corso inopinate promozioni ai dirigenti di grado più alto, e tanto meno ha rimosso i condannati.
Queste nuove promozioni, se confermate, marcano una scelta di continuità: l’Italia di Gabrielli e Lamorgese, come l’Italia di altri capi di polizia e altri ministri dell’Interno dal 2001 in poi, non ritiene di dover applicare le prescrizioni della Corte di Strasburgo. In qualche modo, senza dichiararlo, si pone fuori dal perimetro della Convenzione europea per i diritti umani, approvata solennemente nel 1950 e sottoscritta da 49 paesi.
Nell’estate del 2017 il capo della polizia, in una reclamizzata intervista, definì la gestione del G8 di Genova «una catastrofe» e disse che al posto di Gianni De Gennaro, capo della polizia in quella tragica estate del 2001, si sarebbe subito dimesso. Gabrielli pensava in questo modo di “mettere un punto” al caso Genova G8, ma le sue decisioni ‒ come le sue reticenze ‒ vanno in direzione contraria e confermano le scelte compiute in precedenza. L’Italia del 2020 non ha affatto superato lo choc del luglio 2001 e le forze dell’ordine non hanno recuperato la credibilità perduta nelle strade, nelle caserme e nelle scuole di Genova.
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