Gérard Biard (Charlie Hebdo): “Nel 2020 in Francia si può ancora morire per le proprie idee”
Marco Cesario
Nel giorno del cinquantenario della nascita di Charlie Hebdo, il 23 Novembre 1970, (sulle ceneri del suo antenato Hara-Kiri che fu chiuso, ironia della sorte, dopo aver inscenato in prima pagina la morte di De Gaulle), Gérard Biard, redattore capo del settimanale satirico francese, ripercorre in questa intervista esclusiva per MicroMega tutti i temi che negli anni hanno fatto la forza di un giornale prima massacrato a colpi di mitra ed oggi costretto a vivere blindato ed in località segreta: la satira che deride il potere (quello religioso in primis perché più difficile da scardinare e che mantiene nella soggezione milioni di persone nel mondo), la libertà di insegnare, come Samuel Paty, lo spirito critico alle nuove generazioni ma anche la responsabilità di vivere in una società laica: “Essere un cittadino adulto e responsabile – dice Biard – significa accettare la possibilità di essere offesi, scioccati e disturbati da un discorso”. Una democrazia degna di questo nome, chiosa Biard, non può sanzionare la blasfemia “perché è l’espressione stessa di ciò che la definisce: il diritto di sfidare il potere”.
Che vuol dire lavorare oggi, nel 2020, per un quotidiano francese che nel proprio paese vive blindato e sotto scorta e la cui redazione è stata spostata in un luogo segreto e sconosciuto?
Questo dà la misura del livello del dibattito e dello scambio di idee contraddittorie nelle nostre società democratiche. Nel XXI secolo in Francia, in Europa, in un paese democratico, in tempo di pace, un giornale satirico, un giornale d’opinione è costretto a vivere sotto protezione e nella clandestinità — almeno per quanto riguarda la sede della redazione — perché ha partecipato come ha sempre fatto e nella maniera che gli è consona, a un dibattito sociale commentando l’attualità. La situazione è paradossale. Che un giornale come Charlie Hebdo sia sotto protezione poliziesca è rassicurante sotto certi punti di vista. In numerosi paesi infatti dovremmo avere paura persino della polizia, ma il fatto che debba essere protetto per avere semplicemente espresso un’opinione è, di converso, molto inquietante. Oggi in Francia — e non soltanto qui — si rischia la morte per le proprie idee. E credo che l’avvento dei social, questo gigantesco bancone di bistrot planetario, sia in parte responsabile. Facebook, Twitter e gli altri social e le app di messaggistica istantanea dove non si parla che di sé stessi, producono un doppio effetto deleterio: da un lato disinibiscono gli internauti facendo saltare le barriere del Super Io e liberando tutte le pulsioni, dall’altro aboliscono le frontiere tra il virtuale ed il reale. Visto che si tratta essenzialmente di strumenti concepiti per alimentare il proprio ego, sugli ‘asocial network’ ogni internauta prende ogni opinione contraria alla propria come un attacco personale.
Il processo riguardante il massacro della redazione di Charlie Hebdo è tutt’ora in corso e questo contribuisce a mantenere la tensione alta intorno al giornale ma anche intorno a coloro che contribuiscono a diffondere le vignette di Charlie Hebdo. Cosa si aspetta in quanto caporedattore da questo processo?
Questo processo ha mostrato che un’operazione terroristica comporta molteplici attori, a diversi livelli, sia di tipo logistico che ideologico. Ci si arma con dei fucili ma anche con delle idee. Quelli che vengono definiti ‘lupi solitari’ in realtà non esistono. Ci sono sempre degli istigatori e dei complici. Lo avevamo già visto al processo di Abdelkader Merah (attentatore della scuola ebraica di Tolosa, ndr): il suo ruolo è stato decisivo nel viaggio del fratello Mohamed e nella sua odissea omicida. Questo è anche ciò che viene fuori dal processo per gli attentati del gennaio 2015. Il crimine non è stato commesso soltanto dai fratelli Kouachi e da Amedy Coulibaly. Spero che le conclusioni della Corte sottolineino questo punto fondamentale.
L’assassinio del professore di scuola Samuel Paty ha messo sotto i riflettori non soltanto la fragilità della libertà di espressione ma anche la sopravvivenza di coloro che la difendono.
Gli assassini di Samuel Paty sono numerosi. C’è il suo assalitore ceceno, naturalmente, ma anche il genitore di uno studente che ha lanciato l’anatema contro di lui sui social network, e tutti coloro, individui o associazioni, che hanno trasmesso questi appelli all’odio e al linciaggio. E, tra i suoi complici, ci sono anche tutti i suoi colleghi che, invece di sostenerlo, lo hanno condannato dicendo che non avrebbe dovuto mostrare questi disegni. Dicendo questo, hanno dimostrato che il suo assassino aveva ragione. Anche i codardi armano il terrorismo. Cosa ha fatto Samuel Paty? Voleva dare ai suoi studenti gli strumenti per acquisire il vero libero arbitrio, libero da pressioni familiari, sociali e religiose. Con loro ha affrontato argomenti che sono oggi, e questo è deplorevole, difficili da affrontare, e non solo a scuola. Oggi, parlare di religioni non in termini compiacenti e ossequiosi, parlare di laicità – che è, vi ricordo, sancita dalla nostra Costituzione – significa scatenare polemiche, mettersi nei guai. Purtroppo molti intellettuali, politici, accademici e attivisti di sinistra contribuiscono a questo stato di cose. È una vergogna. Essere un insegnante non significa solo insegnare ai bambini a leggere e contare. Significa fornire loro strumenti in grado di farli diventare cittadini adulti e responsabili. Questo è quello che Samuel Paty voleva fare. Chi lo biasimava quando era vivo, come chi lo biasima oggi, calpestando il suo cadavere, minaccia la nostra sicurezza tanto quanto i fanatici stessi, perché in tal modo giustifica indirettamente la loro ideologia e le loro campagne di terrore.
Cosa risponde a coloro che affermano che la libertà di espressione non significa libertà di offendere?
Rispondo loro che mi offendono. E che offendono la memoria di tutti coloro che hanno lottato affinché essi potessero esprimersi liberamente. Nessuno ha mai detto, specialmente Charlie Hebdo, che la libertà di parola è senza limiti. Questi limiti sono definiti dalla legge, che punisce l’ingiuria, l’insulto, gli appelli all’odio contro le persone. Ma il crimine di blasfemia, in Francia, non esiste più. Ed è di questo che si tratta: sopprimere il diritto alla blasfemia, il diritto di deridere e di attaccare le religioni. E fondamentalmente, il diritto di criticare e di deridere il potere. Perché la bestemmia non è altro: si sfida e si deride la potenza di Dio (quando crediamo in essa). Una democrazia degna di questo nome non può sanzionare la blasfemia, perché è l’espressione stessa di ciò che la definisce: il diritto di sfidare il potere.
In Francia la religione è un’idea come un’altra, non c’è niente di “sacro”. I fanatici religiosi del resto non si privano di scioccare gli atei con le proprie azioni e i propri discorsi. In Francia, il diritto di credere e il diritto di non credere hanno lo stesso valore giuridico e costituzionale. Un vescovo ha il diritto di dirmi che Gesù è nato da una vergine e che l’aborto è un peccato contro la vita, e io ho il diritto di dirgli che il suo catechismo è un tessuto di leggende inverosimili che non costituiscono un progetto per la società e ancor meno un programma politico degno di uno Stato democratico.
Vi
vere in società, essere un cittadino adulto e responsabile, significa accettare la possibilità di essere offesi, scioccati e disturbati da un discorso. E questa è l’intera questione sollevata da questo dibattito: nelle nostre società occidentali, le persone di fede musulmana sono considerate come adulti responsabili? Per Charlie Hebdo, la risposta è sì. Noi li consideriamo come cittadini adulti, capaci di discutere, ridere, capire un disegno e accettare un discorso contrario a quello che pensano. In breve, li consideriamo nostri pari. Ma non è così per tutti, e soprattutto per chi si spende per “difenderli”. A novembre celebriamo il 50° anniversario della nascita di Charlie Hebdo. È nato il 23 novembre 1970, quando il giornale L’Hebdo Hara-Kiri è stato bandito dopo che, ironia della sorte, aveva in copertina la morte di De Gaulle. Il divieto è stato emesso in nome della “protezione dei giovani”. Colpisce, perché oggi, chi vorrebbe far tacere Charlie Hebdo, chi vorrebbe vederlo morire, letteralmente e figurativamente, invoca anche la protezione di popolazioni che dimostra di voler considerare come dei bambini. Attraverso cioè un approccio condiscendente, di partenariato con coloro che dicono di voler “proteggere”. In realtà, si considerano molto più “civili” di quanto non siano. È quasi una sorta di neocolonialismo, camuffato da “rispetto per le culture e le identità”. Quando affermi di “proteggere” qualcuno, ti metti sempre al di sopra di lui.
Secondo lei esiste un problema di compatibilità del mondo musulmano con la laicità che è parte integrante della costituzione della Repubblica francese? O, secondo lei, è un problema che riguarda solo le frange dell’islam radicale?
Io faccio una distinzione tra fede e religione. La fede è ciò che esiste nel cuore di ogni credente, nel profondo della sua intimità. La religione è invece l’organizzazione sociale e politica di quella fede. La legge sulla laicità del 1905 non riguarda la fede, ma la religione e la pratica della religione. Fa una netta separazione tra le religioni e lo Stato, pur affermando che è lo Stato, e solo lo Stato, a stabilire le regole politiche e sociali. Il fatto che un prete, per esempio, faccia discorsi politici nella sua chiesa è punibile per legge. La stragrande maggioranza della popolazione di fede musulmana che vive in territorio francese rispetta le leggi e i valori della Repubblica francese. Vivono la loro fede in modo pacifico, e questo non pone alcun problema. Soffrono di discriminazione, razzismo, è un dato di fatto, ma non è dovuto alla separazione tra le religioni e lo Stato. Accettare di essere sottoposti a una pressione religiosa ancora maggiore – che, per di più, non chiedono – non farà scomparire questa discriminazione. Al contrario, ne aggiungerà solo di nuovi, e questo li renderà cittadini separati. Il principio della laicità è uno strumento di emancipazione, non di sottomissione. Quando a una studentessa musulmana viene chiesto di togliersi il velo quando entra nel cortile della scuola, le riconosciamo il diritto di indossare un velo – dato che può rimetterlo quando esce da scuola – ma le insegniamo anche che ha il diritto di non indossarlo.
Quello che stiamo affrontando è strettamente politico. Ci troviamo di fronte a un’ideologia politica, che è anche di natura totalitaria. La legge del 1905 è il culmine di una lunga lotta, iniziata nell’Illuminismo, per porre fine al potere politico della Chiesa cattolica. E non è certo agli italiani che debbo spiegare quanto può essere dannoso questo potere… in un certo senso, oggi ci troviamo nella stessa situazione: siamo di fronte a un’offensiva politica, da parte dell’islamismo, che vuole semplicemente conquistare “quote di mercato” su popolazioni che considera un suo diritto legittimo. È tempo, ed è vitale, ricordare che le religioni, tutte le religioni, hanno ambizioni politiche. È anche la prima delle loro ambizioni. Per la cronaca, il Vaticano è uno Stato. E l’Islam esercita il suo potere politico su gran parte del mondo. E dobbiamo tenere costantemente presente che una teocrazia non è una democrazia. La democrazia è l’unico sistema politico che ammette di non essere perfetto, di non essere “puro”, e che lavora per perfezionarsi – senza riuscirci sempre, è vero. In una democrazia, le leggi sono discusse, contestate e modificate. Il potere religioso, dal canto suo, si basa su una legge divina, che è quindi assoluta, decretata come immutabile e indiscutibile. Si può far cadere un dittatore, è molto complicato far cadere Dio. La Francia ci è riuscita, ma dopo secoli di lotte. Non possiamo rimetterlo sul trono.
Erdogan ha colto l’occasione per ergersi a difensore dell’Islam in tutto il Mediterraneo e nel Medio Oriente. Ma ha anche molti ammiratori in Europa. Non è un paradosso per un leader politico che imprigiona giornalisti, vignettisti, liberi pensatori e dissidenti?
È davvero un paradosso: Erdogan in realtà perseguita molto più i musulmani di quanto faccia il governo francese, che tuttavia accusa di islamofobia. Questo vale anche per la maggior parte dei Paesi che accusano la Francia di aver fatto “guerra” all’Islam e che non sono francamente democrazie: Iran, Pakistan, Bangladesh, ecc. In questi Paesi la libertà religiosa semplicemente non esiste: le minoranze religiose spesso non hanno gli stessi diritti e sono perseguitate. Senza dimenticare che il terrorismo islamista colpisce per primo gli stessi paesi musulmani – a volte anche dentro le moschee. Le prime vittime dell’ideologia islamista e del terrorismo sono le popolazioni musulmane. Questi autoproclamatisi difensori del “mondo musulmano”, la maggior parte dei quali sono autocrati che schiavizzano il proprio popolo, sono degli impostori e fini manipolatori. Oggi fanno un appello per punire i giornalisti di Charlie Hebdo, insultano il presidente francese Emmanuel Macron, chiamano a manifestare davanti alle ambasciate francesi e boicottano i prodotti francesi, in nome di alcune vignette ritenute blasfeme. Allo stesso tempo, in Cina, gli uiguri sono perseguitati dal governo cinese, e lo sono da anni. Per la cronaca, gli uiguri sono musulmani. E non stiamo parlando di vignette presumibilmente offensive, ma di rieducazione forzata, campi di lavoro, deportazione, tortura, esecuzioni. Qualcuno ha visto un solo raduno di islamisti arrabbiati fuori dall’ambasciata cinese ad Ankara, al Cairo o ad Islamabad? No, e non ci sarà. A Erdogan non interessa la situazione dei musulmani nel mondo, sta combattendo solo la sua personale battaglia politica e geopolitica.
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Dal massacro di Charlie Hebdo nel 2015 ad oggi: come sta la libertà di espressione in Francia?
Ci troviamo anche noi in una situazione paradossale. Ma è precedente agli attacchi del gennaio 2015. In Francia, come in molti paesi europei, la libertà di espressione è protetta dalla legge, più che mai. Ma sono ora gli individui, o gruppi di individui, che pretendono di rappresentare questa o quella categoria di popolazione o comunità, che chiedono che questa libertà di espressione venga repressa. Oggi sono gli attivisti e le associazioni che chiedono la messa al bando di uno spettacolo teatrale, di un film, di un convegno o di un libro, che vogliono “cancellare” tale e tale autore, tale e tale figura pubblica, per parole o atti ritenuti scioccanti o riprovevoli. Inoltre, queste persone affermano persino di essere di sinistra. E ciò che è spaventoso è che non vogliono farlo attraverso la legge, ma attraverso il pubblico ludibrio. Stanno reinventando l’autodafé e la gogna. Spesso agiscono in nome di cause piuttosto nobili, come l’antirazzismo, il femminismo, i diritti LGBT, ma sono allo stesso tempo accusatori, giudici e carnefici, e considerano per principio che la giustizia non fa il suo lavoro, o non lo fa abbastanza bene. In una democrazia, è attraverso la legge che si combatte la disuguaglianza e la discriminazione. L’attivismo è essenziale per cambiare una società e per stimolare la politica, ma non può sostituire o scavalcare la legge. La giustizia è la legge, non il linciaggio. Ma questi individui o gruppi di individui non la vedono in questo modo. Sognano la purezza e l’assolutezza per la loro causa. Ma quando la purezza viene invitata in politica, finisce quasi sempre in un disastro.
Come vede il futuro di Charlie Hebdo? Il giornale manterrà ancora la sua linea editoriale che lo rende così peculiare nella storia del giornalismo?
Se oggi siamo sotto protezione, è proprio perché abbiamo voluto continuare a difendere i nostri principii e i nostri valori di emancipazione e di progresso. E per farlo come abbiamo sempre fatto, a modo nostro, attraverso la satira, le vignette di stampa e il dibattito delle idee. Ci sono molti giovani talenti a Charlie oggi, e le risate ci sono ancora. Non dobbiamo privarci delle risate, perché è ciò che i tiranni, che sognano di schiavizzarci, odiano di più al mondo.
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